
Come si articolò la propaganda fascista nei paesi nordici?
I metodi della propaganda fascista nei paesi nordici non furono così diversi da quelli adottati nel resto del mondo. Il concetto di universalismo fascista, in fondo, permeava l’intero impianto della propaganda mussoliniana all’estero. Il fascismo, almeno nelle intenzioni, sarebbe stato un fenomeno di portata nazionale e, successivamente, internazionale. I canali attraverso i quali esso si sarebbe dovuto affermare e diffondere oltreconfine erano abbastanza ricorrenti. Si andava dalla fondazione di organizzazioni come i Fasci Italiani all’estero (FIE), alla fascistizzazione degli organi diplomatici. A livello culturale, tuttavia, il fascismo operò (anche nei paesi nordici) su due binari separati. Da una parte si preoccupò di cooptare ideologicamente ed amministrativamente i comitati esteri della Società Dante Alighieri. Dall’altra si concentrò, non sempre con successo, sulla creazione degli Istituti di Cultura Italiana. Questa duplice strategia, almeno nei paesi nordici, generò una serie di effetti collaterali abbastanza facili da prevedere. Innanzitutto, i comitati esteri della Dante, in particolare quello norvegese, si dimostrarono indolenti nei confronti del fascismo e, soprattutto, delle sue connotazioni autoritarie. Ciò dipendeva dalla presenza di importanti correnti liberali e socialdemocratiche nella società e nell’ambiente culturale scandinavo. Quanto agli Istituti di Cultura Italiana nei paesi nordici, il loro impatto fu risibile. In particolare perché le prime sedi, di Helsinki e di Stoccolma, nacquero solo nel corso della Seconda guerra mondiale. Inoltre, elemento da non sottovalutare, il nome di «Dante» (e quindi della Società Dante Alighieri) godeva di una popolarità e di un fascino internazionale che pochi altri nomi, forse nessuno, avrebbero potuto esercitare all’estero. La diplomazia culturale tedesca (soprattutto quella nazista), diversamente da quanto si possa immaginare, ottenne risultati altrettanto deludenti. In questo senso, il caso della Nordische Gesellschaft (Società Nordica) appare emblematico. Nata pochi anni dopo la fine della Prima guerra mondiale, l’organizzazione ebbe innanzitutto il compito di traghettare la giovane repubblica di Weimar lontano dall’isolamento politico e culturale in cui si era arenata nel continente. Di conseguenza, approdando alle coste scandinave, i tedeschi avrebbero trovato un nuovo avamposto diplomatico ed economico attraverso il quale operare. La successiva nazificazione dell’organizzazione, però, causò un brusco cambio di direzione. La diplomazia culturale del Terzo Reich, infatti, si aggiunse agli altri strumenti di colonizzazione, almeno inizialmente pacifica, del mondo scandinavo. In questa sede è sufficiente ricordare che la campagna di conquista culturale e quella bellica ebbero lo stesso (rovinoso) esito.
Quale seguito suscitò il fascismo nei paesi nordici?
Il fascismo nei paesi nordici non suscitò un seguito rilevante al di fuori di ambienti assai circoscritti e minoritari. Ciò vale, almeno in linea generale, se ci si riferisce a movimenti, gruppi o partiti dichiaratamente filofascisti (o filonazisti). Se, al contrario, si studiano le aderenze tra gli ambienti conservatori, il quadro che emerge è assai più variegato. In questo senso, almeno nei paesi nordici, la società contadina fu spesso determinante. Benché influenzati dalle istanze antimoderniste del fascismo e, soprattutto, del nazionalsocialismo, i partiti agrari seppero contenere le spinte socialiste da una parte e quelle nazionaliste dall’altra. Ciò condusse all’affermazione di un blocco politico dove i liberali, i laburisti, gli agrari (e non di rado i partiti cristiani) potevano amministrare una casa comune contro le ingerenze rivoluzionarie e controrivoluzionarie. Questo equilibrio resse fino allo scoppio della Seconda guerra mondiale e alla rapida invasione della Scandinavia nella primavera del 1940. Benché la Norvegia e la Danimarca avessero tentato di mantenere la propria neutralità (imitando la Svezia), Hitler ruppe gli indugi e dette vita quel modello di collaborazionismo nordico di cui Vidkun Quisling apparve come il simbolo per antonomasia. L’occupazione tedesca della Scandinavia consentì al fascismo italiano di defilarsi, almeno dal punto di vista politico. La diplomazia culturale italiana sopravvisse, ma venne oscurata e, non raramente, perfino coartata dall’ingombrante e potente alleato tedesco. Di conseguenza i vari movimenti antifascisti (liberali, luterani, socialisti, comunisti, ecc.) che avevano caratterizzato gli anni Trenta, si trasformarono in una sorta di fronte antinazista di ispirazione antitedesca che, alla luce dei soprusi perpetrati dalla Wehrmacht e dalle SS, finì per compromettere anche l’amore dei nordici nei confronti dell’Italia. Ciò non significa affatto che la società nordica guardasse al fascismo italiano con maggiore, per così dire, benevolenza. Al contrario, l’occupazione nazista apparve, agli occhi degli scandinavi, come una nuova e più violenta forma di repressione politica e culturale che il regime di Mussolini aveva già inaugurato.
Come vennero conciliate la dottrina del primato universale della romanità nel mondo e il tema della superiorità della razza nordica nella politica culturale fascista?
La risposta potrebbe risultare banale, per non dire tranchant. Tuttavia occorre ammettere che il primato universale di stampo latino e il tema della superiorità nordica non avrebbero mai trovato una conciliazione. Lo sapeva bene Giuseppe Bottai il quale, nonostante un attento e meticoloso lavoro di mediazione culturale tra Roma e Berlino, confidò più volte ai suoi collaboratori che si trattava di una coesistenza, semmai di una pacifica «convivenza», non certo di un felice «matrimonio». Dall’altra parte, ne era ancora più consapevole Alfred Rosenberg il quale al contrario di Bottai, non andava nemmeno alla ricerca di compromessi. Esisteva una sola razza superiore, politicamente, fisicamente e culturalmente. E questa non poteva che essere, secondo Rosenberg, quella bianca, ariana e, ça va sans dire, nordica. Come anticipato, il fascismo mussoliniano avrebbe dovuto trovare un modo per conciliare le peculiarità del Lebensraum tedesco con quelle della Roma imperiale e del genio italico esaltate dalle camicie nere. In questo frangente, a Montreux, gli italiani rimasero spiazzati e Quisling, che sino a quel momento aveva sostenuto con apparente convinzione il fascismo di Mussolini, avrebbe ceduto alle più laute ricompense di Hitler nell’arco di pochi mesi. Quella frattura che il congresso di Montreux avrebbe dovuto contribuire a sanare, si trasformò rapidamente in una cancrena che si estese a tutti gli organi vitali dell’Asse. Soprattutto in considerazione del fatto che né gli italiani, né i tedeschi, avevano colto la vera identità dei paesi nordici. Si trattava, a dispetto delle loro convinzioni, di un sub-continente, con le sue tradizioni, la sua storia, la sua lingua e, soprattutto, la sua libertà. In altre parole, quando il nazifascismo credette che fosse giunto il tempo di sottomettere il resto del mondo, la società nordica era intimamente già pronta a cooperare con le democrazie occidentali per la ricostruzione post-bellica. Fu l’inizio di quel mondo nuovo che, come tramandano le saghe scandinave, può venire alla luce solo dopo il Ragnarǫk.
Fabio Ferrarini è dottore europeo di ricerca in Storia, cultura e teorie della società e delle istituzioni presso l’Università degli Studi di Milano. Si occupa di fascismo internazionale, propaganda e diplomazia culturale, in particolare nei paesi nordici. Tra gli studi pubblicati La Dante a Berlino (Milano 2016), Mussolini och den nya demokratien. Gli ammiratori svedesi del “duce” (2019), Il ruolo dei nazionalismi nordici in Europa tra identità locali e fascismo transnazionale (Milano 2020).