
Nelle Sue riflessioni Lei ricorda, sulla scorta dell’art. 5 del nostro Codice civile, che il corpo «non è nostro. Se fosse nostro potremmo farne ciò che vogliamo, come per qualunque altra cosa che ci appartenga»: di chi è il corpo allora?
Nei suoi scritti, nei discorsi e nel testamento, Ramon fa intendere che il corpo è il più privato dei beni, in un mondo che tutela la proprietà privata. Con la conseguenza che di un bene proprio e personale si può disporre in autonomia, tanto più quando la vita non è più una vita e priva la persona di ogni dignità. L’estrema idea “sampedrana” confligge però con i valori e i principi di ogni ordinamento civile, che tutela il corpo nel suo insieme e nelle sue parti vitali e lo garantisce con gravi sanzioni penali. Questo accredita l’idea che il corpo non sia una proprietà alla stregua dei beni materiali dei quali si può disporre più o meno liberamente. Un retaggio solido quanto antico, religioso ma anche laico, considera il corpo come un’entità “sacra”, con la conseguenza che esso oltre a non appartenere a chi lo incarna, non appartiene neppure allo Stato che anzi lo protegge rispetto a sé medesimo nella Costituzione e nella legislazione ordinaria. Nel mio libro ho scritto che il corpo appartiene al mondo e al comune sentire di ogni essere umano. Di qui deriva la grande cautela degli ordinamenti nazionali e sovranazionali col porre limiti agli atti di disposizione del corpo e il sentimento diffuso di chi si oppone ancora alla regolamentazione del suicidio assistito.
Come si qualifica giuridicamente il suicidio?
Il suicidio quale atto estremo di autosoppressione è tanto “scabroso” e innaturale da porre giganteschi problemi di definizione sul piano giuridico. Chi abbia voglia di cimentarvisi si troverà di fronte a una figura melliflua e indistinta che ha avuto ingresso nel codice penale solo per via indiretta. Difatti, esso è del tutto ignorato, segno che Il buon guardasigilli Alfredo Rocco non lo vedeva di buon occhio, fino al punto di non nominarlo affatto se non nelle parti in cui ha deciso di colpire solo gli autori dell’aiuto o dell’istigazione al suicidio. Ciò significa che quel gesto era considerato una iattura tale da non meritare alcuna considerazione. L’esclusione del suicidio dalla serie dei fatti reato, è derivata solo da ragionamenti di carattere pratico. Inutile il reato di suicidio perché un morto non si può processare, pernicioso quello di tentato suicidio, perché la punizione di un soggetto problematico che non ha reso danno che a se stesso, è suscettibile di produrre persino la reiterazione del gesto. Figuriamoci poi se il suicidio avrebbe potuto essere definito un diritto; se così fosse si giungerebbe al paradosso di consentire al suicida ostacolato una richiesta di risarcimento del danno nei confronti del suo salvatore. Dunque, cos’è il suicidio dal punto di vista giuridico? Forse una mera facoltà, da esercitare di nascosto, si potrebbe dire, per impedire a chiunque altro, come avviene nella realtà, di compiere un gesto misericordioso per impedire l’evento. Ricordo un episodio avvenuto nella mia città in cui un poliziotto ha evitato il suicidio di una donna, ed è stato encomiato dalle Autorità. Tutto molto naturale. Ma il suicidio di cui mi sono occupato nel mio saggio è altro, ed è strettamente collegato alla salute e allo svilimento della vita.
Nelle pagine del libro rivive la nota vicenda del processo a Marco Cappato: quali considerazioni si possono trarre dalla sentenza della Corte Costituzionale?
Marco Cappato, erede di Marco Pannella, ma più composto e riservato di lui, ha agito come il suo mentore: ha esposto se stesso al rischio di una condanna sul presupposto di aver agito per una causa giusta.
Il processo penale che lo ha visto coinvolto nel caso d.j. Fabo si è insolitamente svolto con una perfetta comunione di intenti tra difesa e accusa. Quest’ultima ha chiesto l’assoluzione dell’imputato con motivazioni pressoché identiche a quelle portate in aula da Marco Cappato. Mi suonano ancora all’orecchio le parole pronunciate dal P.M. Tiziana Siciliano al momento della requisitoria, un breve trattato di civiltà giuridica al di là delle opinioni di parte. L’impegno della Pubblica Accusa e della difesa non sono tuttavia bastati, perché nel codice è contemplato il reato di aiuto al suicidio il quale, a causa della sua formulazione imponeva un confronto con la Carta Costituzionale per saggiarne la legittimità. E la Corte, coinvolta finalmente sulla questione, dapprima ha invocato l’intervento del Parlamento senza esito, poi a distanza di un anno ha emesso una sentenza tutta orientata sulla salute, mettendo subito in chiaro che il diritto alla vita gode si supremazia assoluta. Semmai, il problema si pone quando il soggetto è allo stremo, sofferente e “attaccato” alle macchine salvavita, e ritiene che la propria non sia più un’esistenza dignitosa e possibile. Questo è il perimetro entro il quale si è mossa la Consulta quando ha stabilito che in presenza di tali condizioni, il reato previsto e punito all’articolo 580 del codice penale non possa operare. E a chi ha fatto notare che Fabiano Antoniani, conosciuto come d.j. Fabo, avrebbe ben potuto invocare il distacco dai presidi vitali della nutrizione e idratazione meccanica, con sedazione profonda, secondo i dettami della Legge 219/2017, Essa ha risposto che tale metodologia avrebbe potuto comportare una morte dolorosa, sofferta e indignitosa per il malato e per i propri cari al suo cospetto. Ciò ha statuito la Corte e qui si è fermata cucendo una pronuncia attorno a Fabiano, regolando la questione per lui e per chi si fosse trovato o si trovi nelle medesime condizioni. Poi è venuta la sentenza del caso Trentini, che ha esteso il campo di applicazione della pronuncia della Consulta anche a chi, gravemente sofferente, non fosse però “attaccato” ai presidi vitali, ma questo è un altro discorso. In definitiva la Corte Costituzionale, lungi dal riconoscere un diritto al suicidio, ha voluto collegare la liceità dell’agevolazione dell’ultimo gesto a favore di chi non possa eseguirlo da sé (tetraplegici etc.) alla salute e solo ad essa, escludendo ogni altra possibilità. In tal modo alcuni dei casi di cui si sono occupate le cronache, con il ricorso alle cliniche estere, possono essere tranquillamente definiti reato e continuano a interessare il diritto penale, con conseguenti gravissime sanzioni. Nel caso in cui, ovviamente, intervenga l’aiuto di un terzo.
Quali novità ha introdotto la legge 219 del 2017?
La legge 219/2017, che la Corte Costituzionale ha usato come un grimaldello per dichiarare l’incostituzionalità dell’art. 580 c.p. in presenza di date condizioni, è quella che dalle alte sfere della Costituzione formale ha portato il consenso informato del paziente sulla terra. Prima della sua introduzione nessun testo normativo organico aveva disciplinato la materia in modo compiuto, e ci si era dovuti affidare alla giurisprudenza e alla prassi che ne era derivata. Poi si è finalmente scritto e sancito che il paziente può essere sottoposto a cure solo se lo voglia e vi consenta, e può recedere da esse in ogni momento, in perfetta aderenza con la seconda parte dell’art. 32 della Carta Costituzionale. Ciò, anche a rischio della vita, o nella certezza della morte. Così, ogni paziente, “attaccato” o meno ai presidi vitali potrà scegliere di rifiutare le terapie o di non valersene più, con ogni cautela di ordine formale e con l’obbligo di evitare ogni sofferenza posto a carico dei sanitari, con l’ausilio anche della sedazione profonda. E allora, nel caso Cappato, la Consulta ha avvisato il legislatore che dopo l’introduzione della Legge 219, sarebbe stato possibile prevedere una lieve modifica, o meglio un’aggiunta che consentisse il ricorso al c.d. suicidio assistito, che avrebbe semplicemente accorciato i tempi lasciando inalterata la sostanza delle cose. Ciò, beninteso, su richiesta di una persona cosciente e capace di intendere e volere. Il Parlamento, tuttavia, ha fatto trascorrere invano quell’anno di tempo che gli era stato concesso. E siamo fermi, senza una disciplina normativa esaustiva e coerente. La strada si è accorciata, ma è ancora lunga. Sono prevedibili numerosi procedimenti penali perché ogni caso è un caso a sé, e senza regole preventive la Magistratura è costretta ad indagare.
Quali riforme sono a Suo avviso auspicabili, nel nostro ordinamento, in tema di suicidio assistito?
Approfittando della pazienza e della curiosità di Ramon Sampedro al quale ho confidato i miei pensieri sulla vita, sulla morte, sugli amori e sugli affetti, tra diritto, storia, filosofia e costume, credo di aver fatto intendere che indietro non si torna, e che perciò è doveroso che un Parlamento fin qui inetto e sguaiato si occupi finalmente del tema fornendo certezze agli uomini e alle donne di questo Paese. Poi, ho spiegato che con la vita non si scherza e che essa va trattata con molto riguardo, per evitare ogni confusione tra suicidio, suicidio assistito ed anche gravi crimini contro la persona. Perché Seneca non si è suicidato. Credo che Ramon, assai più radicale di me, abbia però ben compreso il mio costrutto.
Marcello Marcellini, nato in Arcevia (An), si è laureato in giurisprudenza privilegiando il diritto penale. Si è dedicato al diritto della sanità. Ha tenuto convegni in ogni dove su tale specifico tema; è legale dell’Ordine delle Professioni Infermieristiche della provincia di Ancona. Ama lo scrivere e ha già pubblicato tre romanzi prima dell’ultimo saggio: Breviario Gallico, Il custode delle gesta, I castori di Casa Galla. L’assassinio di Seneca è un saggio di carattere giuridico: tratta i temi della vita e della morte in relazione al suicidio assistito e all’evoluzione normativa in materia.