
Per rispondere ora alla domanda postami, posso dire che le numerose rappresentazioni artistiche degli eventi storico-giuridici di Roma antica presentate nei due volumi sono state intese da chi scrive come tante diverse letture delle fonti antiche proposte durante i secoli della tradizione europea. In altre parole si è voluto mostrare, attraverso il linguaggio delle immagini e dell’arte, che la storia esemplare di Roma e del suo diritto ha assunto nei secoli varie sfaccettature a seconda della cultura e degli ideali di ciascun periodo storico. Ciò non è significativo soltanto in sé, ma mostra anche quanto sia illusorio credere di poter raccontare senza veli la realtà di un mondo tramontato. Le fonti letterarie, giuridiche, epigrafiche e le stesse scoperte dell’archeologia assumono, infatti, una diversa portata a seconda della visuale di chi le osserva e della cultura della quale è, spesso inconsapevole, portatore. Ne consegue che allenarsi a discernere il riflesso che quella realtà antica ha prodotto durante i secoli nello sguardo dei suoi osservatori, in particolare i pittori, è un buon metodo per avvicinarsi ad essa, relativizzandola: infatti, come scriveva Klyde Kluckhohn nel 1949 in Mirror of men, classico del pensiero antropologico (= Lo specchio dell’uomo, Milano 1979, 21) «chi si occupa delle scienze umane ha bisogno di sapere altrettanto dell’occhio che vede tanto quanto dell’oggetto veduto», perché di solito non si rende conto «delle lenti particolari» attraverso le quali guarda la storia e la vita. E non è un segreto che le fonti antiche hanno avuto nei secoli tante nuove vite quanti sono stati gli sguardi di coloro che le hanno studiate ed amate: così nel medioevo, quando sono state intese come grande premessa alla rivelazione cristiana; nel rinascimento, quando sono state assunte come preziosi scrigni di exempla da imitare; nell’età illuministica e rivoluzionaria, quando sono divenute simbolo dei più alti ideali politici e civili; all’epoca dell’unità d’Italia quando sono state intese come richiami alla grande tradizione del popolo italiano; durante il fascismo, quando sono state usate dall’ideologia di regime come potenti rievocazioni dell’eroico passato di Roma. La rassegna delle immagini che qui si propone intende quindi educare il lettore a tale visione ‘soggettiva’ della storia presentando gli eventi narrati da un triplice punto di vista: in primo luogo, quello della fonte antica che ha descritto l’episodio rappresentato; in secondo luogo quello del pittore che ha ritratto l’episodio rifacendosi alla fonte o cedendo in parte all’immaginazione; in terzo luogo quello della curatrice della rassegna le cui scelte e predilezioni hanno determinato il risultato finale nonché il contenuto stesso del messaggio rivolto ai lettori.
Devo peraltro dire che l’impostazione scelta ha anche una valenza didattica: infatti l’idea di raccontare la storia giuridica di Roma attraverso i dipinti risale al mio primo anno di insegnamento nel corso di Storia del diritto romano nell’Università Cattolica del S. Cuore di Milano. Furono in particolare gli affreschi storici del Palazzo dei Conservatori nei Musei Capitolini a colpire l’immaginazione mia e di alcuni studenti colti e appassionati: insieme ci dicemmo quanto sarebbe stato bello raccontare questa magnifica storia attraverso i dipinti. Ed è quello che poi è accaduto, proprio con la collaborazione di quegli indimenticabili giovani.
Poi, una volta pubblicato il volume del 2016, mi sono accorta che tale impostazione riusciva a coinvolgere anche tutti gli altri studenti molto di più di una trattazione storico-giuridica condotta secondo i canoni consueti. Infatti, non è sempre facile illustrare con parole efficaci la grande storia di un’esperienza giuridica, come quella romana, che, nata per rispondere alle esigenze di una società ristretta, ha poi modificato tante volte le sue forme fino a divenire una delle protagoniste della storia occidentale. Può anche accadere di udire la propria voce risuonare vuota, sentendosi come chi voglia raccontare la trama di un romanzo che lui solo ha letto: non potrà mai trasmettere ai suoi interlocutori le emozioni suscitate dalla lettura. Tutto ciò vale a maggior ragione nella ‘civiltà dell’immagine’ nella quale nostro malgrado siamo immersi. La generazione dei ‘nativi digitali’ vive e convive con un mondo di relazioni reali e virtuali, in cui la dimensione visiva gioca un ruolo determinante. Ma se è vero che ogni stagione ha il suo linguaggio, ripercorrere l’evoluzione storico-giuridica di Roma antica attraverso il variegato itinerario artistico dei ‘pittori di storia’, è un po’ come raccogliere la sfida lanciata dalle giovani generazioni e incontrarle sul loro stesso terreno, offrendo un nuovo stimolo culturale: quello proveniente dagli artisti che, dal medioevo ai giorni nostri, hanno rivisto la storia di Roma con i loro occhi, cristallizzandone episodi significativi e proponendoli così alle generazioni future.
In che modo, nel corso dei secoli, la pittura ha mantenuto vivi gli ideali della romanità? Di quali significati ideologici si sono ammantati i vari dipinti?
Spesso i pittori si sono dedicati alla rappresentazione in forma narrativa di eventi, episodi, personaggi storici sulla base delle fonti letterarie, mitologiche, archeologiche, con una libertà espressiva più o meno marcata a seconda della sensibilità di ciascuno. Si trattò anzi di un genere particolarmente in voga a partire dal XV secolo, quando divenne una delle espressioni dell’arte pittorica considerate più nobili e colte.
Tale forma d’arte era stata in verità coltivata sin dal mondo antico: provengono ad esempio dall’Egitto faraonico monumenti o bassorilievi che rappresentano scene di battaglia o di trionfo del sovrano. Rara nell’arte della Grecia classica, la pittura a tema storico riprese vigore in età ellenistica, soprattutto in funzione celebrativa delle imprese belliche di Alessandro Magno, e si affermò decisamente nel mondo romano, nei dipinti trionfali (perduti ma noti alle fonti), nei rilievi marmorei (come quelli della Colonna Traiana) e nei mosaici (come quello della battaglia fra Alessandro e Dario proveniente da Pompei, II sec. a.C.).
Ma, fino al tardo antico, le raffigurazioni di carattere storico riguardavano in prevalenza episodi della contemporaneità ritenuti degni di essere trasmessi alla memoria delle successive generazioni, mentre la celebrazione del passato veniva in genere affidata all’epica e al mito. Fu, invece, a partire dall’alto medioevo, dapprima con i sovrani longobardi, poi con gli imperatori carolingi, che si incominciò a investire la storia, soprattutto romana, della funzione di legittimare il presente e i suoi protagonisti legandoli da un nesso inscindibile con la grande epopea dell’antichità pagana e cristiana. Carlo Magno, ad esempio, come imperatore del Sacro Romano Impero, si ritenne il legittimo continuatore della dinastia imperiale romana, in particolare di Costantino e di Teodosio, e per questo si fece incoronare per questo dal papa sul suolo santo di Roma.
Da questo momento il passato divenne un’inesauribile fonte di ispirazione per i pittori, talvolta funzionale a celebrare la grandezza di un casato nobiliare o le illustri origini di una città, talaltra a fornire exempla virtutis degni di imitazione per la classe al potere.
Così, nel Quattrocento e nel Cinquecento, luoghi privilegiati della pittura a soggetto storico furono, da una parte, le corti – desiderose di celebrare le proprie origini attraverso i richiami ad episodi dell’antichità classica – dall’altra le sedi del potere cittadino – che, richiamando nei dipinti exempla antiquitatis da imitare o da evitare, ambivano ad autolegittimarsi e nel contempo ad ammonire i futuri governanti -. Ma anche le chiese furono a volte la sede di messaggi ‘politico-religiosi’: così accade, ad esempio, nel ‘Sogno di Costantino’, affrescato da Piero della Francesca fra il 1458 e il 1466 nella Basilica di San Francesco ad Arezzo nell’ambito del ciclo dedicato alla leggenda della Vera Croce: il soggetto era tradizionale e caro alla sensibilità francescana, ma l’autore lo rivestì di un preciso significato politico-religioso, riferendosi di fatto alla crociata contro i Turchi per la riconquista di Costantinopoli dopo la presa della città da parte di Maometto II il conquistatore nel 1453, nonché alla riunificazione tra le Chiese d’Oriente e di Occidente. Ma, nella Roma del Cinquecento, la pittura a tema storico servì anche ai pontefici per rilanciare l’immagine della città eterna, ideale continuatrice della grandezza dell’urbs, e portare alla sede pontificia lo splendore e i fasti tipici delle corti rinascimentali. A tal fine Giulio II della Rovere (1503-1513) e il suo successore, il già citato Leone X Medici (1513-1521), coinvolsero i più importanti artisti del tempo: Bramante per la ristrutturazione urbanistica della città e la progettazione della nuova basilica di San Pietro, Michelangelo per il Mausoleo di Giulio II e la volta della Cappella Sistina, Raffaello per le Stanze Vaticane.
Tutto ciò si perpetuò, fra fasi alterne, fino alla metà del Settecento, quando, in concomitanza con il diffondersi del pensiero illuministico e lo scoppio della rivoluzione francese, il glorioso passato di Roma divenne spunto per rievocare le antiche virtù morali e civili degli eroi del passato e per indurre i contemporanei ad imitarne le gesta. Emblematico il caso de ‘Il giuramento degli Orazi’, opera neoclassica del pittore francese David datata 1784, nella quale si prefigurano i motivi ideali della lotta rivoluzionaria che di lì a poco sarebbe divampata. Anche nei secoli precedenti la storia era stata intesa come magistra vitae, ma ora i valori dell’antichità si tradussero in un moralismo laico sussidiato dall’indagine filologica sulle vicende, i costumi e le personalità degli antichi. Da qui la nascita di uno stile artistico nuovo che si sviluppò fra la metà del XVIII secolo fino alla fine dell’epopea napoleonica, dapprima in funzione di sostegno agli ideali rivoluzionari, poi, dopo l’accendersi degli scontri fra le diverse fazioni, come manifestazione di assenso all’una o all’altra parte politica, e infine come mezzo di consacrazione del potere imperiale di Napoleone.
Tale riscoperta della romanità impose l’Italia come sede regina dell’arte neoclassica e come destinazione obbligata di quel ‘Grand Tour’ che costituiva un momento essenziale nella formazione dei nobili e degli intellettuali europei. Ma fu soprattutto la grande Roma a divenire il centro del nuovo movimento, accogliendo fra le sue mura le più prestigiose accademie di pittura e scultura di tutti i paesi europei. Da qui l’appellativo comune di ‘arte accademica’ usato per indicare i dipinti e le sculture realizzate da giovani artisti nell’ambito delle Accademie, in primis quella parigina, sedi istituzionali dell’insegnamento artistico che dettavano le regole dell’esecuzione delle opere, ne fissavano i generi (quello storico era il più nobile e apprezzato) e organizzavano i famosi Salon, esposizioni biennali dell’arte tradizionale e ufficiale dove venivano premiate in particolare la perfezione tecnica, l’imitazione dell’antico, la precisione nella citazione delle fonti. A Parigi, nella famosa Academie des beaux Arts, il vincitore dell’ambito Prix de Rome poteva passare un periodo di studio a Roma, capitale dell’arte, per perfezionarsi e trarre ispirazione dai capolavori dell’antichità.
Soggetti prediletti dalla pittura accademica furono gli episodi cardine della storia antica, greca e romana, e della mitologia, ritenuti adatti sia all’imitazione dello stile dei classici, sia alla riproposizione dei buoni valori dell’antichità.
Con il Congresso di Vienna il neoclassicismo tese a scomparire come movimento artistico di portata anche politica e ideologica ma, nonostante il romanticismo imperante a partire dagli anni Trenta dell’Ottocento, esso continuò ad esistere come fatto stilistico per quasi tutto il secolo, soprattutto nelle Accademie di Belle Arti e nella produzione artistica ufficiale. La cd. arte accademica, perciò, continuò a proliferare con la produzione più varia di dipinti a tema storico o mitologico. Essi tendevano a celebrare i miti della patria, della famiglia, della religione, dei buoni sentimenti, spesso abbinandoli alle mode esotiche dell’epoca e all’esaltazione dell’amore passionale. E nel 1831 il Salon parigino, da biennale divenne annuale e fu per decenni il luogo di incontro alla moda della buona società: le opere presentate si moltiplicarono perché i giovani artisti vi vedevano un’ottima opportunità di successo. Ma fu uno stile spesso stantio, che venne derisoriamente definito, dalla metà circa dell’Ottocento, Art Pompier, forse dall’uso di David e allievi di rappresentare i guerrieri nudi con l’elmo in testa. Tuttavia, com’è noto, accanto a questa vetrina dell’arte ufficiale, cominciarono a proliferare organizzazioni ed esposizioni alternative degli artisti esclusi dai Salon: fu in quest’ambito che, a partire dal 1874, cominciarono ad esporre i pittori del movimento impressionista (prima mostra collettiva nello studio del fotografo Félix Nadar). Con loro la pittura ufficiale di storia volse, almeno per il momento, al declino.
Tuttavia, nonostante la nascita e la diffusione di stili pittorici che prediligevano soggetti intimistici, la pittura di storia, e in particolare di storia romana, non venne meno. Anzi per varie ragioni ebbe grande sviluppo almeno fino alla prima metà del novecento. Fu in particolare Jean-Léon Gérôme (1824 –1904), pittore francese di stampo conservatore nonché duro critico del nuovo movimento impressionista di Monet e Manet, a sviluppare l’idea della rievocazione dell’antico sotto le spoglie del quotidiano, con la raffigurazione di temi storici, mitologici e orientalistici. E tuttavia le opere di Gérôme presentano ancora l’accentuazione epica della vecchia tradizione neoclassica. Al contrario il pittore olandese Alma Tadema, il più noto rappresentante del movimento ‘neopompeiano’ (che nel 1864, al ritorno dal suo primo viaggio a Pompei, incontrò a Parigi Gérôme e da lui fu certamente influenzato), portò al definitivo distacco dall’idea di storia come modello introducendo la moda della predilezione per l’antico vissuto nel quotidiano e per la conoscenza minuta e la conseguente resa pittorica delle scoperte archeologiche. Infatti, alla dimensione aulica della vecchia pittura di storia, Alma Tadema sostituì una dimensione più intima e raffinata, in cui personaggi di mitica bellezza si muovono languidamente in atmosfere rarefatte e luminose e all’interno di ambienti dove i capolavori dell’arte greco-romana emergono quasi dal nulla, spesso assemblati in modo apparentemente incoerente. E alla vecchia idea dell’antico come exemplum per il presente, l’Autore contrappose l’idea di un antico simile al presente, nei sentimenti e nelle emozioni degli uomini.
Questo nuovo stile ebbe risonanza anche in Italia: anzi nell’Italia post-unitaria esso spesso si tinse di sentimenti patriottici, come accade negli affreschi romani di Palazzo Madama o della Corte di Cassazione realizzati da Cesare Maccari.
Ultimo periodo in cui la storia, anche giuridica, di Roma antica fu oggetto di rappresentazione pittorica, per poi scomparire del tutto (almeno fino ad ora), fu quello dell’Italia fascista dove, almeno a partire dal 1921, la romanità divenne per Benito Mussolini il principale strumento simbolico, idoneo a definire i suoi obiettivi, i suoi valori di fondo, la sua ideologia. In principio, anche a seguito del suo sodalizio, sia personale che istituzionale, con Margherita Sarfatti (1880-1961), giornalista e critica d’arte, il richiamo alla cultura antica si realizzò attraverso la costituzione nel 1922 di un gruppo di artisti denominato ‘Novecento’ (fra cui Achille Funi e Mario Sironi). Ma con gli anni Trenta, le velleità coloniali e l’avvicinamento alla Germania nazista spinsero Mussolini a privilegiare la via della monumentalità, puntando sulla convergenza fra architettura e decorazione nell’ambito della progettazione ed edificazione, a Roma e in molte città italiane, di imponenti ‘palazzi del potere’. Il grande tribunale di Milano e gli edifici dell’EUR a Roma ne sono esempi illuminanti. Qui gli artisti, sovvenzionati dal regime, si dedicarono alla cd. ‘pittura murale’, un’arte che doveva parlare al popolo dei grandi valori della tradizione italica.
Quali opere sono, a Suo avviso, maggiormente evocative degli ideali della romanità?
Come si è visto, a partire dal Medioevo e fino alla I metà del Novecento, le vicende storiche di Roma antica sono state spesso oggetto di rappresentazioni pittoriche per scopi via via diversificati. Qui, tuttavia, vorrei porre l’accento sull’adozione di modelli legati alla storia di Roma e al suo mirabile diritto soprattutto nei grandi monumenti civili dell’Ottocento e del Novecento italiani.
Un primo esempio significativo è quello del grandioso Palazzo di Giustizia che, dopo lo spostamento della capitale dell’Italia unita da Torino a Roma, fu edificato a Roma a partire dal 1889 su proposta di Giuseppe Zanardelli, allora Ministro dei Lavori Pubblici nel governo Depretis. Il cd. ‘Palazzaccio’, nelle intenzioni del promotore, doveva avere un aspetto monumentale, grandioso e severo «come si conviene al tempio della giustizia» dell’Italia unita e il suo stile doveva riassumere in sé, al di là dei particolarismi, la cultura dell’intera compagine nazionale. Da qui la scelta di adornarlo con i più svariati segni della romanità, dando particolare risalto alla concezione laica della giustizia che il nuovo Stato voleva incarnare. E, per sottolineare la continuità tra il diritto di Roma antica e quello dell’Italia unita, si decise di erigere una serie di monumentali statue di famosi oratori e giureconsulti romani nonché gruppi scultorei rappresentanti gli ideali della giustizia e della legge. Ma ancor più evocativa del carattere quasi ‘templare’ del complesso architettonico è l’Aula Magna (Massima) strutturata come la navata di una chiesa, allungata e chiusa da un abside, e adornata di affreschi il cui tema, scelto da Zanardelli, furono I grandi fasti della giurisprudenza. La sua decorazione ad affresco fu affidata per concorso nel 1903 a Cesare Maccari, che già aveva decorato negli anni Ottanta dell’Ottocento Palazzo Madama, la sede del Senato. La scelta cadde su Maccari sia per le sue tendenze pittoriche classicheggianti, sia per l’accademismo delle sue opere e gli spiccati accenti simbolisti, ritenuti adatti alla retorica ufficiale del nuovo Stato unitario. Tuttavia l’opera fu completata nel 1918 dall’allievo di Maccari, Paride Pascucci, per la paralisi che nel 1909 aveva colpito il maestro.
Nell’abside della grande sala è raffigurata La consegna delle Pandette da parte di Triboniano a Giustiniano e Teodora assisi in trono; nel ‘cielo’ dell’aula, all’ingresso e prima dell’abside, compaiono, invece, due affreschi sul tema della Giustizia, dapprima presentata nelle vesti di una donna incoronata con una bilancia e una spada nelle mani, poi di una donna sempre armata di spada ma bendata, cioè imparziale; altre vicende rappresentate sono La denuncia dei Baccanali in senato da parte della liberta Fenenia Ispala, L’incarico dell’imperatore Adriano a Salvio Giuliano di fissare il contenuto dell’editto perpetuo e La pubblicazione delle XII Tavole nel 451-450 a.C. da parte dei decemviri legibus scribundis guidati da Appio Claudio.
Cesare Maccari, La pubblicazione della legge delle Dodici Tavole,
affresco, 1903-1909, Aula Massima del Palazzo di Giustizia, Roma
Il secondo esempio è il Palazzo di Giustizia di Milano, grandiosa struttura monumentale progettata dall’architetto del Fascio Marcello Piacentini e realizzata tra 1929 e il 1940. Il Palazzo fu studiato per essere una grande celebrazione del regime attraverso l’esaltazione della sua arte (architettonica e decorativa) col fine espresso – sono parole di Piacentini – di realizzare «il più grande esempio … di un complesso e di una fusione organica di opere d’arte, integratrici di un altissimo concetto architettonico … a onore del Regime e di Milano». Da qui la ricchezza di affreschi, sculture, mosaici, bassorilievi sul tema della giustizia (biblica, romana e fascista) che si susseguono ininterrottamente negli ampi corridoi, nelle piccole aule, sopra le porte di accesso ai locali, in un ciclo ininterrotto di opere d’arte ispirate a quattro precisi ambiti iconografici fra cui gli autori, secondo l’indicazione di Piacentini, avrebbero dovuto scegliere tematiche e simbologie: le fonti bibliche, le fonti romane, il repertorio allegorico e quello di regime.
A questa attività decorativa parteciparono i più grandi artisti dell’epoca e, fra i pittori, in particolare, oltre a Carlo Carrà, Ferruccio Ferrazzi, Salvatore Fiume, Achille Funi, Alberto Salietti, Antonio Giuseppe Santagata, Mario Sironi. La tecnica utilizzata fu quella dell’affresco o pittura murale, tecnica del resto prediletta dagli autori dell’epoca: infatti, come si legge nel cd. ‘Manifesto della pittura murale’ promosso da Mario Sironi ma firmato anche da Massimo Campigli, Carlo Carrà, Achille Funi e pubblicato nel 1933, questa tecnica era ideale a trasformare la pittura da attività isolata e tutta chiusa nei sentimenti dell’artista, ad attività eminentemente sociale, educativa e, come tale, capace di operare «sull’immaginazione popolare» comunicando alla collettività valori condivisi. Infatti – continuava il Manifesto – «ad ogni singolo artista si impone un problema di ordine morale. L’artista deve rinunciare a quell’egocentrismo che, ormai, non potrebbe che isterilire il suo spirito, e diventare un artista militante, cioè a dire un artista che serve un’idea morale, e subordina la propria individualità all’opera collettiva. … Noi crediamo fermamente che l’artista deve ritornare a essere uomo fra gli uomini, come fu nelle epoche della nostra più alta civiltà». Da qui anche la ragione della scelta di tematiche tipiche della romanità (e non della grecità) reinterpretate, tuttavia, in una chiave di continuità col presente. Infatti – scriveva Sironi – soltanto chi ha una profonda comprensione del nostro tempo può creare un’affinità elettiva col passato, non però fine a sé stesso ma come tramite per l’esaltazione dei valori della società attuale, come il lavoro e il sacrificio per la famiglia e la patria.
Un bellissimo esempio di tale modalità pittorica è l’affresco di Carlo Carrà che adorna un’aula della Corte d’Appello Civile del Palazzo di Giustizia: esso raffigura l’imperatore Giustiniano che, seduto in trono, alza la mano sinistra per liberare uno schiavo, mentre nella mano destra tiene il rotolo della legge e, sotto il piede destro, il globo simbolo del potere sul mondo. Davanti a lui lo schiavo seduto, una donna con un bambino in braccio e, sul lato opposto, un uomo e una donna con le braccia alzate. Lo spazio circostante è aperto e spoglio, i colori tenui, le figure nude ed essenziali. Giustiniano vi appare come un legislatore autorevole, che non dà sfoggio delle insegne del potere ma, al contrario, nudo fra uomini nudi, sa riconoscere – come lui stesso scrive nelle Istituzioni I.5pr. – che per diritto naturale tutti gli uomini sono liberi e che soltanto la calamità della guerra, comune a tutti i popoli, ha portato con sé l’istituto della schiavitù e con esso il beneficio della manomissione.
Carlo Carrà, L’imperatore Giustiniano dà nuove leggi e libera uno schiavo,
1938, affresco, cm 490 x 480, Aula C della Corte d’Appello Civile, Palazzo di Giustizia, Milano
Quali reinterpretazioni ha suscitato nella storia dell’arte la figura di Augusto?
Augusto è un personaggio che ha suscitato nella storia – e nella storia dell’arte in particolare – varie reinterpretazioni: annoverato dalla letteratura romana, ad es. nelle opere di Virgilio ed Orazio, come l’ultimo rampollo della gens Iulia discendente da Venere a cui si doveva la fondazione stessa dell’urbe, egli venne poi elevato dai Cristiani ad anticipatore della venuta di Cristo e così ricordato anche nella Divina Commedia. Nel rinascimento, poi, la sua figura fu esaltata in ragione dell’intento dei Signori di presentarsi al pubblico come i nuovi reggenti sulla base di un ideale classico. Ma anche nel corso del XIX e XX secolo, con la costruzione dell’unità d’Italia e poi con il fascismo, Augusto assunse un ruolo ‘culturale’ primario essendo spesso reinterpretato come la rappresentazione dell’ideale stesso della romanità, di cui Mussolini in particolare volle riproporre l’immagine e i simboli.
Una figura ampiamente positiva, dunque, se non eroica, a tal punto da essere scelto dalla tradizione cristiana come il ‘veggente’ a cui la Sibilla Tiburtina confidò la venuta imminente del Salvatore del mondo. Eppure le fonti antiche non sempre presentano in questi termini il primo imperatore dei Romani: al contrario ricordano spesso la sua durezza nei confronti della figlia Giulia e la condanna senza appello all’esilio che le inflisse costringendola ad una dura vita di privazioni nell’isola di Pandataria, oggi Ventotene. Tale aspetto meno edificante del primo imperatore fu taciuto per lunghi secoli e incominciò ad essere rappresentato nelle opere d’arte soltanto quando, nel corso dell’Ottocento, l’antichità romana e classica in genere venne smitizzata e l’attenzione degli artisti e del pubblico venne attirata dalle vicende di vita quotidiana degli antichi. Un esempio significativo è l’incisione di Ludovico Pogliaghi , dove Giulia, l’unica figlia di Augusto, viene trascinata via da un servitore dalla vista del padre, che l’allontana volgendole le spalle. Si tratta di una delle illustrazioni del volume di Francesco Bertolini, Storia di Roma dalle origini italiche alla caduta dell’impero d’Occidente (Treves Editori [Storia d’Italia], Milano, 1886), affidate a Pogliaghi, pittore accademico per eccellenza e artista eclettico del panorama milanese, il quale illustrò l’opera con piena fedeltà alla tradizione della pittura di storia, ma anche con aneliti romantici e qualche concessione al nuovo stile Liberty.
Lauretta Maganzani è Professore Ordinario di Istituzioni di diritto romano nell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. È direttore della rivista giuridica della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università Cattolica di Milano ‘JusOnline’ (Fascia A, open access). Ha pubblicato numerose opere scientifiche, fra cui cinque monografie. Si è dedicata sia a studi tipicamente romanistici, sia a studi sull’evoluzione della tradizione giuridica occidentale, dal diritto romano a oggi.