“L’arte di legare le persone” di Paolo Milone

«Avendo fuggito ogni altro lavoro per paura, mi ritrovo a fare il lavoro che fa più paura di tutti».

Paolo Milone è psichiatra, ha lavorato in un Centro Salute Mentale e in un reparto ospedaliero di psichiatria d’urgenza. Ha trascorso la vita a contatto ravvicinato con il dolore mentale; non psicologico ma psichiatrico, quello difficile da raccontare e per cui spesso anche le parole sono inutili. Il senso di questo mestiere è al centro del suo libro d’esordio L’arte di legare le persone, edito da Einaudi.

Nonostante la poesia stia nel dolore psicologico – nella sofferenza amorosa, nell’attacco d’ansia, nella depressione – e non nel dolore psichiatrico – come lui scrive, «La poesia non frequenta la psichiatria, si ferma sulla soglia» – la forma con cui Milone racconta la sua esperienza è il frammento di poesia lirica.

Il libro si suddivide in dieci capitoli, ognuno contenenti frammenti poetici uniti da un tema di sottofondo. Il primo capitolo, Reparto 77, prende il nome dal reparto psichiatrico dell’ospedale di Genova. Qui iniziamo a conoscere i pazienti: la giovane Lucrezia, che gioca a nascondino con le lamette, il robusto Danilo, che per dimostrare il bene che vuole a Milone gli rompe, abbracciandolo, due costole. Emerge anche la difficoltà di trovare una stanza per i colloqui, la lotta che l’autore fa per portare la parola in un luogo di «urla e pianti muti».

Attraverso il rapporto con i tirocinanti, Milone ci conduce all’interno del percorso di formazione come psichiatri: c’è chi, per paura di disintegrarsi, dal dolore si difende, restando a distanza di sicurezza dai pazienti e chi invece dà troppo, sottovalutando le conseguenze di un rapporto ravvicinato. Percorrendo gli stessi corridoi d’ospedale, ogni medico cerca le proprie misure, bilanciando la vicinanza indispensabile per esser d’aiuto con la distanza necessaria a non farsi contaminare dalla follia e rimanere un buon medico.

«Per diventare psichiatri non occorre essere intelligenti, né sensibili, né avere talento.
Per diventare psichiatri basta avere un genitore, un nonno, un po’ matto, anche un pochino,
e volergli abbastanza bene.
I matti sono nostri fratelli. La differenza fra noi e loro
è un tiro di dadi riuscito bene
– l’ultimo dopo un milione di uguali –
per questo noi stiamo dall’altra parte della scrivania
».

Nel capitolo La stanza del glicine al centro è il colloquio clinico. Quella del glicine è una stanza dove solo all’autenticità di ciascuno è permesso entrare. Una stanza dove si parla di debolezze, paure, abitudini inconfessabili di cui fuori nessuno, tranne il medico, saprà mai nulla.

«Non usare con me parole nuove, moderne, appena nate,
camminano a quattro zampe, si infilano dappertutto
e le trovi dove non possono stare.
Non usare con me parole vecchie, auliche, importanti,
paiono voler dire chissà che ma poi non dicono nulla.
Non usare con me parole di altri, appena udite e subito imparate,
io mi distraggo e guardo dalla finestra
più interessato al gracidare delle rane.
Non usare con me altre parole che non siano le tue
».

Non esiste lavoro in cui si entri più in confidenza con le persone. Lo psichiatra conosce i pazienti nelle loro zone più intime e da umano che è, capita anche a lui di innamorarsi. Nel capitolo Se tu non fossi tu, se io non fossi io, è l’infatuazione per una paziente a essere al centro delle liriche. A parole, Milone di Chiara conosce tutto – la sua infanzia, la morte della madre, i tradimenti del marito – ma vivere giorno per giorno, fuori dalla sua stanza, non l’ha mai vista. Se potessero conoscersi fuori dalla stanza del glicine, ovvero se lui non fosse lo psichiatra e lei la paziente, si amerebbero?

Lavorare in psichiatria è anche intrattenere un rapporto ravvicinato con quella che Milone chiama “la Signora”. Miriam, paziente che non si fa in tempo a conoscere, si getta dalla finestra a poche ore dal ricovero. La morte di Lucrezia, giovane paziente schizofrenica in cura da anni, ossessiona Milone per tutta la vita: perché l’ha fatto?

Il punto di vista preferenziale che l’autore ha sul suicidio ci porta a riflettere in maniera nuova sul tema: chi pone fine alla propria vita, è libero? Ha deliberatamente scelto di compiere quel gesto? Mentre per la filosofia il suicidio è l’espressione estrema della libertà dell’uomo, per gli psichiatri clinici è invece la prova estrema della mancanza di libertà. Attraverso le storie dei suoi pazienti, Milone ci mostra come quello di uccidersi sia un impulso, più che una scelta. Chi sopravvive, infatti, può arrivare a credere di non esser stato lui a buttarsi giù dalla finestra, ma che sia stato qualcun altro a spingerlo.

«Pensare che il suicidio sia un atto volontario serve solo a rassicurarci: se non voglio, non lo faccio.
Ma è così?
»

Milone è entrato nel Centro Salute Mentale di Genova negli anni ’80, quando la contenzione era ancora uno degli strumenti principali del lavoro. Lo racconta nel capitolo Legare le persone, sfatando ogni stereotipo legato ai vecchi metodi della psichiatria.

La contenzione non è privare il paziente della libertà, ma proteggerlo da se stesso. Contenere è il primo gesto terapeutico, e rimanda al contenimento materno tramite cui ognuno di noi diventa un essere umano.

«Noi veniamo al mondo
non quando usciamo dal corpo della madre,
ma quando la madre ci abbraccia e ci riconosce
e, senza parole, ci contiene ancora in sé:
in questa matrice noi ci costruiamo.
La sacralità di questo abbraccio primigenio
si riverbera e balugina
in alcune contenzioni che noi facciamo
».

Legare le persone è l’arte dello psichiatra. Legarle a un letto quando l’impulso è quello di distruggere se stessi e gli altri, legarle alla realtà quando i deliri le portano via, legarle a te affinché non siano più sole, legarle a se stesse per farle guarire. Con voce pura e ingenua, propria di chi abita il confine fra normalità e follia, Milone ci conduce all’interno di quest’arte, nutrendo il lettore con abbondanti dosi di sensibilità e facendo evaporare in lui ogni stereotipo e paura.

Giada Finucci

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