
In che modo artisti come Pollock, Rothko, Fontana, Burri, Hopper, Bacon, Abramović, González-Torres, Mueck e Hirst incarnano il vasto territorio della contemporaneità?
Attraverso un linguaggio nuovo, talvolta radicale, a tratti lontanissimo da quello che si è soliti riconoscere come artistico: l’astrattismo di Pollock e Rothko, l’informale di Fontana e Burri, la figurazione di Hopper e Bacon, la performance di Marina Abramović, il neodadaismo poetico o rivoltante di González-Torres e di Hirst, l’iperrealismo di Mueck. Eppure, questi uomini e queste donne sono vicinissimi a noi, perché condividono le nostre ansie e le nostre paure. A indagare le loro vite, li scopriamo così inaspettatamente normali, insicuri, tormentati, pieni di dubbi, così lontani dall’immagine dell’artista eroico e irraggiungibile. Le loro storie possono essere le nostre o quelle dei nostri familiari o dei nostri amici. Non solo: ben più degli artisti del passato, che spesso lavoravano per gli ambienti esclusivi delle corti, gli artisti contemporanei ricercano il pubblico, hanno bisogno di riscontrare una profonda empatia, di condividere con gli altri la propria condizione interiore. Si mettono a nudo come raramente è stato fatto nelle epoche precedenti. È quindi assai paradossale che le loro opere tendano a suscitare la diffidenza di tanti. A maggior ragione, è allora necessario decodificare la loro produzione, spiegarne gli intenti, per permettere al pubblico di andare oltre le apparenti (solo apparenti) insensatezze o le presunte banalità di certe opere, che al contrario sono ricche di significati. Spiegare l’arte contemporanea è necessario per consentire al pubblico di incontrare, abbracciare, idealmente, ognuno di questi artisti, percepirne la condizione di vicinanza. Nel libro io faccio spesso riferimento a Leopardi, perché sostengo che le radici della nostra contemporaneità affondano nel Romanticismo, di cui siamo eredi: anzi, ritengo che in qualche modo la nostra sia un’epoca post-romantica. Ebbene, Leopardi, nel suo Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, si pone una domanda, anzi la domanda fondamentale: e io che sono? È la domanda che ogni uomo si è posto in ogni epoca, e resta la nostra domanda, quella che echeggia nel lavoro degli artisti raccontato da questo libro.
Perché è difficile raccontare l’arte contemporanea?
Perché l’arte contemporanea è ancora vittima di stereotipi e pregiudizi. Da noi, in Occidente, resta radicata l’idea che l’arte vada identificata unicamente con un certo tipo di arte, quella prodotta dai Greci, ereditata dai Romani e adottata in Europa a partire dal Rinascimento. Un’arte che si identifica nella ricerca di bellezza e di armonia, un’arte che quindi possa e sappia rassicurare, elevare, nobilitare l’animo umano. Un’arte marcatamente idealizzante e come tale sublime. Tutti hanno ben chiaro che Fidia, Botticelli, Michelangelo e Raffaello sono, proprio per le opere che hanno prodotto, artisti eccelsi. E per lo stesso motivo, tanti diffidano di chi ha voluto lasciare quella strada. È sempre stato così, d’altro canto: pensiamo a quanto sono stati contestati, ai loro tempi, Caravaggio, gli impressionisti, Van Gogh, Munch, che invece oggi sono comunemente apprezzati e addirittura venerati. Ma solo perché poi è arrivato qualcun altro che ha osato ancora di più. I quadri di Van Gogh erano considerati delle patetiche croste, quando l’artista era ancora in vita; oggi, chi tra il pubblico giudica i tagli di Fontana come una presa in giro non può che vedere in Van Gogh un moderno Raffaello. Il punto, però, è proprio questo: l’arte non è solo quella che i Greci ci hanno insegnato a riconoscere come arte. L’arte non è solo la ricerca del bello, l’affermazione del sentimento, forma e colore, simmetria ed equilibrio; l’arte non deve solo riproporre l’armonia della Natura. L’arte è molte cose, ed è sempre stata molte cose. Se guardiamo alla produzione artistica mondiale di tutti i tempi, la presunta “vera arte” si rivela assolutamente minoritaria.
Quando si parla di arte del secondo Novecento si tende a pensare subito ai gocciolamenti di Pollock o alle tele tagliate di Fontana e altre apparenti bizzarrie: in che modo, tra gli anni Quaranta e Settanta, la dimensione informale e concettuale dell’arte ha prevalso su quella figurativa e cosa ha significato tutto ciò?
Ciò è accaduto ben prima del secondo dopoguerra, e sin dai primi anni del XX secolo, con l’Astrattismo e il Dadaismo delle prime avanguardie. Io, però, partirei dalla premessa che l’arte è sempre stata contemporanea – rispetto al tempo in cui è stata prodotta, ovviamente – e che quindi tutta la storia dell’arte è piena di artisti contemporanei, i quali, non di rado, sono stati rivoluzionari e come tali giudicati con diffidenza o addirittura osteggiati. I cambiamenti non sono mai stati visti di buon grado. Eppure, Giotto ha letteralmente raso al suolo la precedente pittura di stampo bizantino, a Masaccio tanti preferirono, inizialmente, gli artisti tardogotici, Caravaggio fece inorridire molte persone, gli impressionisti e i simbolisti vennero sbeffeggiati (ricordiamo che Van Gogh, Toulouse-Lautrec, Munch e Camille Claudel finirono in manicomio), gli artisti delle avanguardie considerati dei pazzi e con Hitler sarebbero stati perfino internati nei campi di concentramento se non fossero scappati. L’arte occidentale, ben lungi dall’essere tutta uniforme e omogenea, si è sempre evoluta, nella consapevolezza che tempi nuovi richiedono un’arte nuova. Ciò premesso, da sempre alcune opere ci mostrano qualcosa per rimandare ad un significato che va al di là di ciò che i nostri occhi vedono. A partire dal Romanticismo, questa tendenza divenne più diffusa. Il viandante sul mare di nebbia, celeberrimo dipinto del romantico tedesco Friedrich, mostra oggettivamente un uomo che ammira uno sconfinato paesaggio immerso nella nebbia ma non vuole certo rappresentare un signore che fa trekking. Al contrario, è una metafora dell’uomo, di ogni uomo, che di fronte all’infinito si interroga sul senso della sua presenza nel mondo. Ai primi dell’Ottocento, un pittore non avrebbe mai potuto rinunciare alla figurazione per affrontare tematiche così universali, doveva necessariamente ricorrere alla metafora, all’allegoria e al simbolismo. Con il tempo, gli artisti hanno deciso di svincolarsi dall’obbligo di raffigurare scene per parlare di vita, morte, ansia, dolore, per manifestare i propri dubbi, esprimere i propri interrogativi, per raccontarsi intimamente, per sviluppare dei ragionamenti, che non di rado sono filosofici. Essi hanno dunque adottato nuovi linguaggi, gli ennesimi nuovi linguaggi, per affrontare argomenti che, in fondo, sono sempre stati presenti nell’arte. Di dolore e di morte già parlavano i dipinti rupestri del Paleolitico, per dire. Io trovo tutto questo straordinario: nei 40.000 anni in cui l’arte ha testimoniato il percorso spirituale dell’umanità, i grandi temi, alla fine dei conti, sono rimasti sempre quelli. Insomma, l’arte informale e concettuale è tutt’altro che strana o bizzarra: va solo guardata con sguardo libero da pregiudizi e capita.
Nel libro, Lei racconta le vite, le storie e le opere di questi artisti vissuti tra gli anni Quaranta del Novecento e i nostri giorni, dei quali ci svela ambizioni e debolezze, soprattutto umane. Come ha condizionato i loro percorsi artistici questa profonda umanità?
È questa, credo, la vera grande novità dell’arte dei nostri giorni, almeno per sua larga parte. Un tempo, l’arte era soprattutto mestiere, richiedeva grande competenza tecnica e puntava a soddisfare esigenze estetiche, educative e celebrative. Pur producendo grandi capolavori, intendiamoci. Ma non necessariamente parlava degli artisti medesimi, di ciò che provavano e di ciò che pensavano. Le opere di Filippo Lippi o di Perugino ci dicono qualcosa di loro? Non mi pare. Quelle di Michelangelo in parte sì, e infatti Michelangelo ha sempre rischiato e il suo Giudizio Universale è stato censurato. Quelle di Caravaggio pure, e sappiamo che fine ha fatto il pittore, condannato a morte ed esiliato. Contaminare l’arte con il proprio sentire non era cosa apprezzata, un tempo. Solo nell’Ottocento, a partire dal Romanticismo, gli artisti hanno cominciato a identificare più regolarmente la propria arte con la propria vita, additati come fanatici da chi produceva o voleva quadri con graziose fanciulle greche opportunamente svestite o aitanti giovanotti nudi che gareggiavano o guerreggiavano. In questo caso, non si può prescindere dall’artista per capire la sua arte. Si può davvero comprendere la pittura di Van Gogh o di Munch senza conoscere la loro storia? Ovviamente no. Questo vale anche per gli artisti contemporanei, almeno per quelli di cui tratto nel libro. Pollock era un uomo fragilissimo, malato di alcolismo, drammaticamente teso all’autodistruzione, che quando era sobrio e non si trasformava, novello dottor Jekyll, in un Mr Hyde violento e rissoso, indagava la propria psiche. Rothko era un melanconico, un uomo dall’indole profondamente spirituale, che nelle proprie tele cercava di rappresentare un oltre e un altrove verso cui guardare, rispetto alla miseria della quotidianità, nella costante ricerca di una luce salvifica che non riconosceva, fino all’esito del suicidio. Fontana, al contrario, fu un uomo di grande lucidità, e anche un teorico di livello, che conferì al gesto artistico un inedito valore e tagliò le sue tele alla ricerca di un varco, invitandoci a guardare oltre la superficie delle cose. Burri, uno degli artisti più difficili da inquadrare, perché sfuggente e deliberatamente fuorviante nelle sue dichiarazioni, fu un uomo taciturno e solitario, arroccato nella sua Umbria meravigliosa, che ha lavorato materiali poveri trasfigurandoli attraverso l’azione artistica. Difficile non riconoscere in tante sue opere le ferite di una umanità violentata. Hopper è stato il pittore della solitudine (coerentemente, mi verrebbe da dire, essendo stato egli stesso un arroccato nella propria solitudine) che ha saputo proiettare la condizione di tanti nelle sue figure sospese, colte in attesa di un qualche accadimento, di qualcosa o di qualcuno capaci di dare un senso nuovo alla loro esistenza. Bacon e González-Torres furono omosessuali dichiarati, in tempi di omofobia ancora ben radicata. Il primo, picchiato dal padre e cacciato da casa appena adolescente, proprio per il suo orientamento sessuale, ha maturato un pessimismo esistenzialista radicalmente ateo e oscuro e ha dipinto, in quadri di per sé urlanti, la disperazione di uomini prigionieri e fagocitati dal buio. Torres ha invece cercato di affrontare, attraverso l’arte, la disperata condizione di chi ha perso l’amore della propria vita, di elaborare un lutto lacerante, creando installazioni commoventi e cariche di poesia. Marina Abramović è una donna straordinariamente determinata, una autentica sentinella delle nostre coscienze, che ha rischiato perfino la propria incolumità pur di mettere a nudo le gravi contraddizioni del nostro tempo. Le figure iperrealiste di Mueck ci parlano di una umanità sfiorita e triste. Le macabre e disturbanti installazioni di Hirst, non di rado costituite da animali squartati e imbalsamati, vogliono ricordarci in modo impietoso che alla fine siamo tutti fatti di carne e sangue.
Non è un caso che io abbia voluto dar voce a questi artisti, facendo spesso un passo indietro rispetto al mio lavoro di storico, riportando frasi e riflessioni tratte dalle interviste che hanno rilasciato e dagli scritti che hanno prodotto. Nel mio libro essi ci parlano, si raccontano in prima persona, spiegano cosa hanno voluto fare; condividono, attraverso il racconto di sé, la propria ricerca e il proprio travagliato percorso interiore ed esistenziale. Qualcuno ha paragonato questo libro a un documentario; qualcun altro mi ha detto che a fine lettura resta il rimpianto di non aver potuto o di non poter conoscere questi uomini e questa donna di persona. Mi sembrano dei bellissimi apprezzamenti.
Qual è lo scenario artistico del XXI secolo?
Molto articolato e variegato. È finito il tempo dei movimenti e delle correnti artistiche. Ogni artista viaggia per sé, qualcuno si autopromuove su internet. È un’epoca complicata per la critica d’arte, che deve individuare in questo mare magnum ciò che davvero merita di restare nel tempo. A tacere del fatto che poi proprio il tempo è il giudice definitivo, deputato a cancellare certi effimeri fenomeni di successo. Ciò detto, il mio libro si addentra nella contemporaneità dei nostri giorni, segue gli artisti più giovani del gruppo dei 10 fino all’oggi. E questo per rendere palese ciò che in fondo tutti già sappiamo: che nulla, alla fine, è stato risolto. Ma in fondo, gli artisti non devono trovare le risposte, solo formulare le domande, per se stessi e anche per noi.
Giuseppe Nifosì (1964) è storico dell’arte e dell’architettura e docente di Storia dell’Arte. È impegnato nell’insegnamento e nella divulgazione dell’arte e dell’architettura attraverso pubblicazioni, lezioni e conferenze in tutta Italia. Come esperto di didattica della Storia dell’Arte, tiene incontri e corsi di formazione per i docenti. Ha creato e cura il blog e il podcast Arte Svelata. Per Laterza ha realizzato una serie di manuali per la scuola, tra i quali L’arte svelata (2021), L’arte allo specchio (2021) e A passo d’arte (2020).