Trama
Il racconto inizia con la protagonista che sale, con una valigia in mano, delle scale e bussa a una porta: ad aprirle è sua sorella Adriana, non l’aveva mai vista prima.
«A tredici anni non conoscevo più l’altra mia madre», queste parole danno inizio alla storia; «quella che mi aveva concepito», è il primo modo con cui va a definire l’altra madre. Non ha nome la protagonista, è l’arminuta: la ritornata, dal dialetto abruzzese; così è conosciuta.
La protagonista ritorna a casa: ha tredici anni e fino a quel momento non ha mai conosciuto la sua famiglia, ha vissuto in un’altra famiglia. Cresciuta in città, tra corsi di nuoto e danza, nel benessere, adorata figlia unica di una coppia di genitori, viene rispedita a una famiglia che non sapeva essere la sua. Non sapeva di avere fratelli, numerosi, non sapeva di provenire da un piccolo paesino, né poteva immaginarsi a vivere in quella casa affollata, a condividere il letto con una sorella, e soprattutto: non capisce il motivo di tutto ciò.
L’arminuta cercherà in tutti i modi di scoprire la verità su quello che le è successo, su di sé.
Non sarà facile per lei riuscire ad avere informazioni da una nuova vecchia famiglia, in cui lei è straniera, lontana, diversa, cresciuta in tutt’altro contesto, con agi di cui non si era mai resa conto e lontana da difficoltà che nemmeno poteva immaginare. Ugualmente le sarà difficile avere notizie da parte di quella famiglia che l’ha cresciuta, da quella mamma, che ora dovrebbe forse chiamare zia, che è scomparsa dalla sua vita.
Toccherà a lei, da sola, ricomporre il puzzle della propria infanzia con l’adolescenza che incombe, alla ricerca di una sua identità. Lentamente inizierà a ricostruire la sua storia, di come a soli sei mesi sia stata data via, a dei lontani parenti senza figli, da una famiglia povera e con a carico una prole già numerosa, fino ad arrivare a scoprire le cause di quella restituzione, del perché sia stata trattata come “un pacco”, come la stessa protagonista dice, spedita, presa e rispedita indietro.
«Ero figlia di separazioni, parentele false o taciute, distanze. Non sapevo più da chi provenivo. In fondo non lo so neanche adesso.»
Recensione
Trentatré capitoli formano questo romanzo breve ma non per questo meno intenso. La prosa scarna, essenziale, in cui si inseriscono talvolta brevi frasi in dialetto, tratteggia in modo nitido ed evocativo il mondo e le esperienze dell’arminuta, senza perdersi mai in lungaggini o sensazionalismi. È proprio questa caratterizzazione dal punto di vista della scrittura, con questa spigolosità che permette di far risaltare la tenerezza e i turbamenti che la storia contiene.
Gli eventi si succedono cronologicamente, raccontati dal punto di vista della protagonista, che trascina con la sua voce limpida il lettore in una sequenza di eventi, scene familiari o di vita, che possono sembrare persino scollegati tra loro, ma che il lettore facilmente comprende essere legati e ricostruisce – così come la narratrice sta ricostruendo la sua di storia – il valore che ognuna di quelle scene ha, l’importanza che hanno per lo sviluppo della storia e le conseguenze che hanno sulla vicenda stessa.
Il romanzo tratta tematiche come quella della famiglia, dell’appartenenza e dell’identità; con la protagonista che ha difficoltà a legarsi alla sua famiglia, se si esclude la sorella Adriana e il fratello Vincenzo, tanto quanto a riallacciare i rapporti con quella madre che l’ha rimandata indietro; figlia di due madri, entrambe assenti.
«Da quando le sono stata restituita, la parola mamma si è annidata nella mia gola come un rospo che non è più saltato fuori» dice la narratrice, parlando della sua madre biologica a cui è ritornata e del complesso rapporto che ha con lei; un problema quello del rapporto con la madre che si porterà dietro per sempre: «nel tempo ho perso anche quell’idea confusa di normalità e oggi davvero ignoro che luogo sia una madre. Mi manca come può mancare la salute, un riparo, una certezza. È un vuoto persistente, che conosco ma non supero. Gira la testa a guardarci dentro. Un paesaggio desolato che di notte toglie il sonno e fabbrica incubi nel poco che lascia. La sola madre che non ho mai perduto è quella delle mie paure». Come la sua identità originale questa madre – e questa famiglia – sembra irrecuperabile, qualsiasi essa sia.
Altro grande pregio del romanzo è quello di mostrare lucidamente le differenze che ci sono tra la protagonista e i fratelli, le sue possibilità di studio e agiatezza la rendono non solo diversa, ma fortunata: lei ha delle opportunità; cosa spesso ribadita nelle pagine. Ambientando il romanzo in un’Italia in crescita, Di Pietrantonio fa vivere ai suoi personaggi questo cambiamento: l’aumento delle possibilità e lo scontro con un mondo che non ne ha avute.
Una lettura piacevole e coinvolgente, che tocca nel profondo e non scompare, catartica quanto introspettiva. Un romanzo sui legami, su come siano questi a salvarci. Come Adriana e la protagonista, che si salvano, a vicenda, con la loro complicità.
«Mia sorella. Come un fiore improbabile, cresciuto su un piccolo grumo di terra attaccato alla roccia. Da lei ho appreso la resistenza. Ora ci somigliamo meno nei tratti, ma è lo stesso il senso che troviamo in questo essere gettate nel mondo. Nella complicità ci siamo salvate.»
Gabriele Bertinetto