
In che modo gli scritti di Darwin ci aiutano a comprendere al meglio la genesi della teoria dell’evoluzione per selezione naturale?
La genesi della teoria darwiniana va divisa in due periodi ben separati e distinti. Il primo, durato circa cinque anni, è quello che egli dedica alla raccolta delle osservazioni. Tale periodo corrisponde al viaggio attorno al mondo compiuto a bordo del brigantino Beagle (1831-1836). Egli si imbarca a ventidue anni, quasi un ragazzo, e ritorna a ventisette, un giovane adulto. Il secondo periodo, quello della elaborazione delle idee, va dal momento del ritorno a quello della pubblicazione del suo saggio sull’origine delle specie (1859). Si tratta di ben ventitré anni di duro – durissimo – lavoro, di cui c’è una ampia documentazione negli scritti scientifici (taccuini, appunti, abbozzi) e nella corrispondenza personale.
Quando, ragazzo, Darwin si imbarca sul Beagle, tra i libri che porta con sé vi è un testo del reverendo William Paley, Natural Theology, nel quale il mondo viene rappresentato come una creazione in perfetto stato di ordine e d’armonia. Rientrato dal viaggio, mentre già prefigura una situazione di trasformazione delle specie, non ritiene ancora che ciò sia incompatibile con un disegno di ordine, perfezione e armonia. Nel secondo periodo, però, quando cerca risposte al problema della “varietà di forme”, le cose cominciano a cambiare. Leggendo un saggio di botanica sistematica di Augustin de Candolle viene colpito dall’espressione “guerra della natura”. Dal saggio di Thomas Malthus sulla dinamica delle popolazioni trae il prepotente concetto di “lotta per la sopravvivenza”. L’idea di un disegno d’ordine e di armonia comincia a vacillare. Nella sua autobiografia Darwin scriverà: “Ora che cominciavo a intravedere la dinamica della selezione naturale, la vecchia idea di Paley sul disegno della natura, che allora mi sembrava schiacciante, cominciava a sgretolarsi”. Il contrasto tra l’immagine di un creato in ordine e in armonia fatto di specie immutabili e quello in cui le specie competono per la sopravvivenza, mutano e si adattano, è tale che, quando propende per quest’ultima situazione, si sente così a disagio da scrivere all’amico Hooker: “ora sono abbastanza convinto che le specie (è come confessare un omicidio) non sono immutabili”.
L’elaborazione della teoria dell’evoluzione per selezione naturale è un processo lungo e faticoso, pieno di dubbi e di timori, di slanci, di entusiasmo e di ripensamenti. Egli non ha mai pensato, neppure per un minuto, di poter risolvere da solo e in modo autonomo gli enigmi che andavano via via formandosi nella sua mente. Doveva confrontarsi con gli amici, doveva porre loro domande e cercare verifiche sulle ipotesi che formulava, doveva interpellare specialisti di ogni branca delle scienze naturali per trovare conforto sulle proprie intuizioni e per chiedere a chiunque fosse in grado di aiutarlo a fornirgli dati, ipotesi, reperti. Tutto ciò è presente in quantità nella sua corrispondenza. Di fronte all’enorme mole della corrispondenza di Darwin, il mio lavoro è stato simile a quello dell’archeologo che scava qua e là in un immenso territorio alla ricerca di elementi in grado, messi insieme, di raccontare una storia coerente. Dalla corrispondenza ho tratto alcuni dei frammenti che ritenevo tra i più significativi e che raccontassero, passo dopo passo, la storia delle idee che passavano per la mente del naturalista inglese.
Cosa rivelano i suoi scritti sull’uomo Darwin e le sue emozioni?
È proprio dalle lettere che emergono i tratti salienti dell’uomo Darwin. Molto spesso le questioni scientifiche e quelle umane sono embricate le une nelle altre. Ogni nuovo elemento che si incastra bene con un altro viene accompagnato da espressioni di soddisfazione, ma temperate da un sempre vigile senso di autocritica. Al contrario, quando gli elementi non si incastrano, quando i dubbi prevalgono sulle certezze, quando occorrono mesi di lavoro per mettere a fuoco determinate dinamiche, questi momenti sono accompagnati da scoramento, insoddisfazione, mortificazione, un ridotto senso di autostima, come quando si sente incapace di racchiudere l’immane lavoro in un tutto organico o di portare a termine il suo “libro senza fine”.
Noi conosciamo Darwin attraverso una iconografia che lo dipinge scienziato pensieroso, concentrato sul lavoro, eternamente meditabondo: è un’immagine autentica, questa. Ma nelle lettere vediamo trasparire lati meno noti dello stesso uomo. Sono quelli della spossatezza, dell’incertezza, e anche di una rabbia che sembra autentica, quando scrive, per esempio, al suo amico Lyell: “… ci deve essere una regione degli inferi destinata alla punizione dei geologi dove io credo che tu, mio grande maestro, dovrai immancabilmente finire!”. Quando Alfred Wallace gli fa avere la bozza di un articolo nel quale in poche pagine riassume una teoria dell’evoluzione assai simile alla sua, lo sconforto è più che evidente: “sembra proprio che io sia stato preceduto … l’originalità del mio lavoro, qualsiasi cosa questa possa contare, se ne andrà in frantumi … È difficile per me pensare di dover perdere la priorità, frutto di così tanti anni di lavoro. Sarebbe per me disonorevole pubblicare in questo momento”. Straordinariamente umana, poi, la lettera testamento del 5 luglio 1844 indirizzata alla moglie Emma cui affida l’onere di far pubblicare L’Origine delle Specie, qualora egli dovesse morire prima di riuscire nell’impresa.
Il lato umano di Darwin è tutto nelle sue lettere. Curiosamente, l’uomo Darwin che traspare dalla sua autobiografia è meno umano di quello che traspare dalle lettere. La causa di ciò sta nelle piccole manomissioni, omissioni e censure apportate dalla moglie e dai figli in occasione della pubblicazione dell’autobiografia.
Il lavoro di Darwin non è nato da ricerche solitarie, ma da un continuo relazionarsi e confrontarsi con altri naturalisti: quale ruolo hanno avuto nello sviluppo delle sue teorie scienziati come Charles Lyell, Joseph D. Hooker e Thomas H. Huxley?
Nel progresso del sapere, la metafora dei “nani sulle spalle dei giganti” è sempre vera anche se, di fronte a innovatori di particolare grandezza – pensiamo a Copernico, Darwin, Pasteur, Einstein – a volte si potrebbe avere l’impressione di “giganti sulle spalle di nani”. Certe innovazioni rivoluzionarie sembrano voler indicare che determinate scoperte o sintesi del sapere siano dovute esclusivamente all’azione lungimirante del singolo. Nella storia, compaiono a volte personaggi che hanno la capacità di vedere prima e meglio di tutti gli altri soluzioni che altri non avevano neppure immaginato, o di porsi domande che altri non erano stati in grado di porsi. Darwin è certamente uno di questi. Tuttavia un fatto è certo: la scienza è sempre un’impresa collettiva. Di questa collettività, però, non fanno parte solo gli addetti ai lavori. Oltre a questi, altri elementi e altre situazioni concorrono a costituire questa collettività. Le tecnologie, le aspirazioni e una particolare visione del mondo entrano a far parte a pieno titolo di quel particolare terreno di coltura all’interno del quale certe scoperte maturano. Il lavoro di Darwin si avvalse certamente dell’atmosfera di progresso della sua epoca, un’atmosfera che concorse a formare una larga schiera di scienziati. Egli si avvalse di una vasta rete di specialisti i quali, ciascuno con le proprie conoscenze, portò uno specifico contributo alla sintesi che Darwin fu in grado di fare. Alcuni di questi, in particolare Charles Lyell, Joseph Hooker e Thomas Huxley, divennero intimi amici e confidenti del naturalista inglese.
Charles Lyell era il più influente geologo del tempo. Nel suo libro più famoso, Principi di Geologia, egli affermava che la terra era soggetta a lenti e continui cambiamenti, e che le forze che agivano al tempo presente erano le stesse in azione fin dai tempi dei tempi. Lyell rappresentava per Darwin il genio indiscusso della geologia e lo considerava a tutti gli effetti uno dei suoi principali maestri. Tra i libri che portò con sé nel suo giro del mondo, il Principi di Geologia non poteva certo mancare. Divenne ad un certo punto evidente agli occhi di Darwin che il concetto di “lento e incessante mutamento” in azione in ambito geologico poteva e doveva avere il suo corrispettivo in ambito biologico. Per moltissimi anni Lyell non accettò la teoria di Darwin, ma essendone divenuto amico intimo e avendo visto il metodo, l’ardore, e la precisione del suo lavoro, finì lentamente per avvicinarsi alle sue tesi, apprezzandone i principi generali. Egli fu per Darwin una specie di padre o di fratello maggiore e, pur con i propri distinguo, ne sostenne sempre il lavoro scientifico.
Joseph Hooker, insigne botanico direttore dei Reali Giardini Botanici di Londra, fu il miglior amico e confidente di Darwin. C’erano giorni in cui si scambiavano anche due lettere al giorno (la posta inglese recapitava in giornata, due volte al giorno). Ben prima che esistessero le email, i due erano in connessione permanente. Data la specializzazione dell’amico, Darwin si rivolgeva a lui per ogni genere di spiegazione e di chiarimento sugli aspetti riguardanti le piante, incluse le tematiche complesse come quella sulle modalità attraverso le quali le piante migrano, si insediano in certi territori e vi si adattano, un argomento importante all’interno della teorizzazione dell’evoluzione. L’amicizia legava le due famiglie, quella di Darwin e quella di Hooker. Si vedevano di frequente e Darwin teneva in gran conto i giudizi della signora Hooker (Frances Harriet Henslow, traduttrice e brillante scrittrice), che consultava in merito alla chiarezza dei propri scritti. Così egli scrive all’amico dopo aver dato da leggere alla moglie le bozze dell’Origine delle Specie: “Il fatto che la tua signora Hooker l’abbia trovato poco chiaro mi fa tremare. Farò del mio meglio correggendo le bozze”.
Lyell e Hooker organizzarono la lettura comune presso la Linnean Society degli estratti dei lavori di Darwin e di Wallace, allo scopo di attribuire loro pari priorità sulla ideazione della rivoluzionaria teoria sulle specie.
Più giovane di Darwin di una quindicina d’anni, Thomas Huxley era un biologo autodidatta. Di forte personalità, era interprete di una generazione di scienziati più aggressiva e volitiva rispetto a quei perfetti gentlemen che erano Darwin, Lyell, Hooker. Fortemente avverso alla teoria fissista (la teoria che non negava le estinzioni ma negava i progressivi mutamenti delle specie) egli, benché inizialmente nutrisse qualche dubbio sulla gradualità dell’evoluzione, abbracciò immediatamente la teoria di Darwin e prima ancora che egli la rendesse pubblica, nel corso di un viaggio in Australia, aveva raccolto ulteriori elementi a supporto. Dopo la pubblicazione de L’Origine delle Specie, quando gli animi si infiammarono e su Darwin piovve ogni genere di accusa, fu lui che, col massimo fervore e capacità oratoria, difese Darwin in qualunque consesso pubblico e privato. Per questo suo fervore e per la suo onnipresenza nel dibattito fu soprannominato “il mastino di Darwin”. Darwin, che rifuggiva dal dibattere in pubblico idee che avrebbero richiesto lunghi ed elaborati ragionamenti, era contento di avere dalla sua parte un così abile difensore che, al contrario, amava esibirsi negli accesi dibattiti pubblici. Di lui, il naturalista inglese scriveva: “É un ottimo amico sempre pronto a prendersi ogni sorta di fastidi per me. È il miglior parlatore ch’io conosca. La sua intelligenza è rapida come il lampo e tagliente come il rasoio”.
Quale spaccato dell’Inghilterra vittoriana ci offre il Suo libro?
Vi sono sempre stretti rapporti tra le scienze e le società all’interno delle quali esse si sviluppano. Non si sbaglia se si afferma che le une si rispecchiano nelle altre, o anche, che le une tengono per mano le altre in un reciproco rapporto di sostegno. La società vittoriana aveva in sé tutte le premesse perché al suo interno prendessero corpo mutamenti paradigmatici, come in effetti fu con la teoria dell’evoluzione. Per certi aspetti statica, conservatrice e con un forte dominio della Chiesa Anglicana sulla sfera politica, la società vittoriana era animata da un enorme fermento e scossa da drammatiche tensioni interne. Per illustrare l’intrecciarsi dei fermenti sociali e scientifici che accompagnarono il lavoro di Darwin, le prime dieci pagine del libro sono costituite da una tavola sinottica in cui si riportano, affiancati e in ordine cronologico, gli episodi più significativi della vita sociale e politica inglese e quelli scientifici e personali di Darwin.
Alla metà dell’ottocento, il colonialismo inglese era al suo apice. In una curiosa concomitanza di eventi (che è comunque un chiaro segno dei tempi), fu proprio tra il 1858 e il 1860 – quando Darwin rese pubblica la propria teoria – che il governo inglese avocò a sé la gestione e l’amministrazione di ogni possedimento della Compagnia Britannica delle Indie Orientali. Questo fu un esplicito atto politico di supremazia, una supremazia che aveva un preciso corrispettivo anche nelle scienze. Viaggi, esplorazioni, cartografia e tutto ciò che vi era in qualche modo collegato – la geologia, la botanica, la zoologia, l’antropologia – rappresentavano l’analogo scientifico della potenza imperiale. Una potenza che trovò degna rappresentazione nella Grande Esibizione Internazionale del 1851, la cui immagine iconica – l’immensa struttura in vetro e acciaio del Crystal Palace – aveva impressionato il mondo. È in questa società che tutta la scienza inglese, Darwin compreso, si muove. È all’interno di questo contesto sociale che Thomas Malthus pubblica il suo saggio sulle popolazioni dove descrive gli uomini in una perenne lotta per la sopravvivenza. Darwin ne sarà folgorato perché vi trovava non solo risposte a molte domande, ma quasi una ineluttabile legge di natura che ben si applicava alle proprie teorie. L’Arduo cammino di Darwin illustra il contesto sociale che fu premessa e terreno favorevole affinché nel suo seno maturasse la teoria rivoluzionaria cui Darwin seppe dare corpo e forma. Il fatto che un altro naturalista figlio della medesima società, Alfred Wallace, fosse sul punto di presentare una analoga teoria sull’evoluzione delle specie è forse l’esempio più chiaro dell’importanza del contesto sociale nel porre le precondizioni necessarie al maturare di una così importante svolta scientifica.
Piero Borzini (1950), una carriera ospedaliera nell’ambito dell’ematologia, del trapianto, della terapia rigenerativa. Da una ventina d’anni si dedica ad argomenti all’interfaccia tra scienze biomediche, evoluzione biologica e culturale, epistemologia. Ha pubblicato: Immunologia, evoluzione, pensiero (Aracne, 2009); Diventare umani (Aracne, 2013); William Bateson, l’uomo che inventò la Genetica (Biblion, 2015); Non fare troppe domande (Ledizioni, 2016); Ignác Semmelweis, eroe romantico (Scienza Express, 2019) Ha pubblicato articoli per Methodologia-on-line e collabora con saltuari articoli con la rivista PaginaUno. Tiene un blog (doveosanolegalline.blogspot.com) dedicato ai rapporti tra scienza e società.