
Nella storia delle mobilità, gli archivi consentono di ridare profondità a quello che viene presentato come un eterno presente, rintracciando le connessioni, inaspettate e plurime, tra persone, gruppi, oggetti e ricostruendo storie, esistenze, identità. Il ritrovamento di documenti appartenuti alla propria famiglia o al proprio passato diviene talvolta per le persone migranti una possibilità di acquisizione di diritti altrimenti negati. Archiviare è dunque un atto dalle complesse conseguenze politiche, anche – e soprattutto – quando esso concerne fonti private o intime, come diari e memorie. Gli archivi possono cambiare le vite delle persone in essi documentate e di coloro che vi accedono. Ma questo potere non va considerato, con un’interpretazione ingenua e semplicistica, come unicamente orientato al miglioramento delle condizioni di chi consulta o appare nelle fonti. Le connessioni non sono prive di conflittualità e rischi e l’uso pubblico della storia può alimentare storture e ineguaglianze.
Una nuova storia delle migrazioni nel Mediterraneo non significa narrare una storia depurata dai conflitti o di relazioni pacificate: al contrario, essa rivela rotture e contraddizioni, biografie rivoluzionarie, tensioni che sfidano ciò che parrebbe immutabile. L’importanza di individuare, raccogliere, documentare i movimenti collettivi di gruppi e organizzazioni migranti e ripercorrerne la storia diviene fondamentale per delineare le istanze che oggi compongono le società e ne rinegoziano continuamente identità e sistemi di valore. Rintracciare le aspirazioni e le repressioni di cui donne e uomini migranti sono portatori diviene esso stesso forma per ridare presenza all’assenza, tra i significati del discorso storico. In alcuni casi, l’esistenza stessa degli archivi ridefinisce i processi di costruzione identitaria individuali e collettivi e determina concorrenze di memorie.
Chi sono i soggetti produttori di documenti e come si sviluppa la loro produzione documentaria?
Sono tantissimi e diversi: istituzioni (dalle organizzazioni internazionali agli istituti nazionali e agli enti non governativi), associazioni, individui, donne, uomini e bambini. Anche le tipologie di fonti prodotte sono le più diverse: non sono dunque solo corrispondenze, report di missioni, verbali di riunioni, risoluzioni, dossier del personale, documentazione finanziaria, ma anche diari, fonti orali, video e oggetti. Basti pensare, arrivando al presente, agli oggetti rinvenuti nella discarica di Lampedusa, traccia del passaggio di migliaia di individui, in alcuni casi recuperati e trasformati in reperti di museo.
Come gestiscono i propri archivi le organizzazioni internazionali e quelle non governative?
Non c’è uniformità nella gestione, pur esistendo precisi standard di conservazione. Questo è valido sia per le istituzioni internazionali, come nel caso delle agenzie delle Nazioni Unite, sia per le ong. Dalla fine degli anni Novanta del Novecento, il Consiglio internazionale degli archivi (ICA) ha dedicato un’attenzione inedita al tema degli archivi delle ong e alla loro conservazione e accessibilità. Nel 2001 venne sottolineata la necessità di porre la definizione delle azioni per la tutela degli archivi delle ong tra le priorità dell’ICA. Nel 2004 è stata pubblicata una guida multilingue, che si presenta come un vero e proprio manuale per un’efficace catalogazione e amministrazione degli archivi da parte delle ong, secondo il principio per cui una corretta gestione degli archivi consente di migliorare la diffusione delle informazioni e la stessa capacità di intervento da parte delle organizzazioni produttrici della documentazione stessa. Il lavoro condotto dall’ICA risponde a interrogativi diffusi tra le ong, soprattutto di area anglofona e francofona, dove negli ultimi decenni si è affermata progressivamente la consapevolezza dell’importanza di conservare i propri archivi, per esigenze amministrative e ai fini di una più efficace comunicazione della propria storia e memoria. Generalmente, la strutturazione di archivi da parte di organizzazioni si realizza in una fase di espansione delle stesse: l’incremento della complessità operativa e amministrativa impone procedure più efficienti di reperimento della documentazione necessaria al lavoro corrente, ma anche per far fronte alla volontà di comunicare il proprio lavoro, e dunque la propria storia, ai propri membri e soprattutto all’esterno. La definizione di criteri di selezione della documentazione, l’elaborazione di sistemi di gestione della documentazione corrente cartacea e digitale, l’inventariazione e conservazione del materiale storico e l’utilizzo per finalità di comunicazione e raccolta di finanziamenti si sono affermati tra le priorità di numerose organizzazioni civili umanitarie. Gli archivi delle ong raccolgono tipologie documentarie diverse e in alcuni casi estremamente sensibili dal punto di vista etico. Tribunali nazionali e corti internazionali hanno utilizzato la documentazione conservata da ong per giudicare violazioni dei diritti di massa, genocidi, crimini contro l’umanità. La storia di migranti e profughi ha negli archivi delle ong una base documentaria spesso unica, data la loro presenza sul campo e grazie alle reti transnazionali tra sedi diverse che alcune di esse generano. In paesi in cui l’amministrazione centrale dello Stato è maggiormente compromessa o inefficiente, questo tipo di fondi consente tentativi di ricostruzioni della storia di popolazioni e comunità altrimenti silenti. La disponibilità degli archivi delle ong è fondamentale per i paesi segnati da dittature e regimi militari, dove altrimenti ampia parte della documentazione sulla difesa dei diritti umani contro le politiche di regimi repressivi sarebbe andata distrutta. I dossier sul personale consentono inoltre la ricostruzione della storia del lavoro e della storia della professionalizzazione delle azioni umanitarie.
Che forme assume la voce pubblica delle migrazioni?
Troppo spesso le migrazioni sono considerate fenomeni “senza storia”, ridotte nella loro narrazione a una presentazione cronachistica che non va oltre il presente. Questa mancanza di contestualizzazione alimenta rappresentazioni distorte e abusi politici. Uno sguardo storico può allora contribuire a smantellare visioni pregiudiziali ricorrenti nel dibattito pubblico e politico, appiattito sulla retorica dell’“ondata” di persone, fornendo un discorso alternativo basato su analisi di medio e lungo periodo attraverso documenti, fondi, collezioni, in una parola: archivi.
In Italia, particolarmente interessante è la collaborazione tra l’Archivio diaristico nazionale di Pieve Santo Stefano e l’associazione Archivio Memorie Migranti, che, attraverso il progetto DIMMI, ha realizzato dal 2014 una raccolta e valorizzazione di fonti autonarrative, di storia orale, visuale e pubblica. Iniziative di questo tipo si inseriscono all’interno della crescente attenzione allo studio delle narrazioni di persone che hanno vissuto esperienze migratorie e in una ricerca di forme diverse di comunicazione pubblica della storia delle migrazioni.
Quali possibili soluzioni per conservare la memoria dell’agency migrante? Archiviare è un atto amministrativo, storico e politico. Decidere cosa conservare e distruggere, come catalogare, a quali fonti dare accesso sono azioni che rispondono a finalità diverse. Esse non sono neutrali, bensì collocate in un contesto sociale, politico e storico, influenzate dal sistema di significati, intenzioni e memorie elaborato dalle istituzioni e dalle comunità produttrici e conservatrici. Questi elementi non sono necessariamente tra loro coerenti: anche l’archiviazione testimonia e genera conflitti d’interpretazione del passato e di lettura del presente tra attori diversi all’interno delle migrazioni e tra le generazioni di migranti stessi.
Gli archivi delle migrazioni, al fondo, sono laboratorio di narrazioni e contronarrazioni, di dissenso e autorappresentazione, di discorso postcoloniale ed elaborazione di nuove forme di cultura materiale. La pluralità di archivi accoglie la molteplicità dei Mediterranei possibili, desiderati o realizzati da donne e uomini in movimento, e ne restituisce tracce e frammenti.
Istituti di conservazione e musei dedicano una crescente attenzione agli archivi relativi alle associazioni di persone e comunità migranti o agli archivi privati di individui e famiglie. Proprio la preservazione di patrimoni documentari che attraversano il passato e il presente rappresentano un’azione culturale e politica fondamentale per restituire dignità a individui e comunità, da raccogliere per il futuro.
Maria Chiara Rioli è Marie Sklodowska-Curie Global Fellow all’Università Ca’ Foscari di Venezia e alla Fordham University di New York. Tra le sue pubblicazioni: A Liminal Church: Refugees, Conversions and the Latin Diocese of Jerusalem, 1946-1956 (Brill, 2020).