
Nell’Europa medievale e moderna, era frequente che certi archivi passassero da un governo all’altro o fossero ‘catturati’ come preda di guerra perché contenevano dei titoli di sovranità o servivano all’amministrazione, o perché avevano un particolare valore simbolico. Oppure venivano distrutti in segno di sottomissione. Insomma, anche gli archivi erano parte della guerra. In genere, però, si trattava di quantità modeste di documenti.
Quando, nel 1809, l’esercito napoleonico sconfisse la Quinta Coalizione, occupò Vienna e iniziò a prendere gli archivi relativi ai territori conquistati e al Sacro Romano Impero, che era stato dissolto pochi anni prima. Agendo in fretta, però, i francesi confiscarono centinaia di casse di incartamenti, senza andare per il sottile (molti documenti, del resto, erano scritti in tedesco in carattere gotico e i francesi non sapevano distinguerli).
Già per la quantità di materiale preso, il sequestro degli archivi di Vienna era eccezionale. Inoltre, in quel momento, l’impero di Napoleone era al massimo della sua potenza – anzi, non finiva più di espandersi. Napoleone voleva consolidarlo, anche simbolicamente. Per di più, era in aperto conflitto con il papa, e sperava pure di riconquistare i dominî coloniali che la Francia aveva perduto. Perciò, Napoleone volle che si portassero a Parigi anche gli archivi vaticani e quelli spagnoli (in Spagna regnava suo fratello Giuseppe, e Roma era stata annessa alla Francia). Da queste prime confische, poi, prese rapidamente forma un vero e proprio piano di ‘esproprio’ della memoria storica dei territori annessi e dei paesi satelliti. L’idea era di creare un archivio universale che fosse anche un monumento della grandeur dell’impero.
Come si articolò la gigantesca attività di confisca degli archivi?
Tra il 1810 e il 1812, l’impero napoleonico copriva quasi tutta l’Europa continentale, o per annessione (per esempio l’attuale Belgio, una parte dell’Italia, poi le Province Unite), o attraverso stati satelliti governati da parenti e generali di Bonaparte (come la Spagna), in qualche caso per alleanza. Dopo una prima fase “militare”, l’attività di confisca si concentrò sui territori annessi, sui quali l’impero aveva controllo diretto, attraverso la rete dei prefetti che dipendevano dal ministero degli Interni. Gli archivi stessi dipendevano da questo ministero. In molti territori, per esempio nei dipartimenti italiani, gli archivi degli antichi regimi erano già in fase di riordino e di concentrazione (una specie di archivi di stato ante litteram).
Certo, non si poteva prendere tutto – in Italia, specialmente, esistevano centinaia di depositi ricchissimi. Quindi, prima Parigi si faceva spedire gli inventari disponibili, poi inviava degli agenti in missione per verificare i fondi e organizzare le spedizioni, con l’aiuto di funzionari civili e militari. Furono confiscati (o almeno selezionati) centinaia di migliaia di volumi, registri e cartelle, che furono spediti in convogli via terra accompagnati da gendarmi. Arrivate a Parigi, le casse venivano aperte, e i pezzi rinumerati e sistemati nel palazzo degli Archivi nel Marais (ancora oggi sede delle Archives Nationales). La Francia, del resto, aveva ormai una grande esperienza nella confisca di opere d’arte, libri, manoscritti e altri oggetti: sin dalla prima guerra rivoluzionaria, erano state organizzate delle missioni ad hoc per selezionarli e portarli in Francia. Anche per gli archivi fu messa in funzione questa ben rodata macchina logistica della spoliazione culturale. Fu un’operazione colossale, e una vicenda appassionante, che fu interrotta solo dal precipitare degli eventi bellici dopo la campagna di Russia e la sconfitta finale di Napoleone.
Quali motivazioni spinsero Napoleone a tentare tale impresa titanica, forse la più folle tra le sue imprese?
Le ragioni sono molte: alcune erano di ordine pratico (disporre di documenti utili per il demanio, e per l’amministrazione della vita ecclesiastica, per esempio), molte altre di ordine politico e simbolico. Probabilmente, all’inizio l’aspetto utilitaristico era predominante, ma molto rapidamente cedette il passo a considerazioni diverse, più politiche. Possedere gli archivi ha sempre avuto una dimensione simbolica molto forte: nell’Europa moderna, gli archivi erano visti come una concrezione materiale del passato, fonte di legittimazione. L’impero napoleonico era una creazione recente, nata dalla Rivoluzione, ma nel tornante del 1809-1810 Napoleone sperava di fondare una dinastia e cercava quindi una più forte legittimazione storica.
Per di più, grazie alle confische degli anni precedenti, Parigi era diventata la capitale culturale dell’Europa; creare la più grande collezione di documenti d’archivio mai vista avrebbe contribuito alla gloria dell’impero, al pari del Louvre e della Biblioteca imperiale.
Infine, non fu secondaria la volontà di dominare i territori annessi, privandoli della propria memoria storica. La storia si poteva solo scriverla dal centro, e dal regime. Si doveva controllare il racconto del passato ed esaltare il ruolo civilizzatore dell’impero, erede dei Lumi e della Rivoluzione.
Negli attuali scenari di guerra dell’informazione, quale attualità mantiene quest’episodio poco conosciuto della storia moderna?
Il desiderio di accumulare enormi depositi di informazione, archivi generali su tutto e tutti, è una tendenza ricorrente nella storia dell’Occidente. Tanto più la quantità dell’informazione aumenta, tanto più si rafforza tale tendenza.
All’inizio dell’età moderna, per esempio, l’invenzione della stampa da un lato, e la scoperta dei Nuovi Mondi dall’altro, hanno dilatato in modo incredibile l’orizzonte del sapere e dell’informazione, il che ha stimolato la creazione delle grandi biblioteche principesche, e al tempo stesso l’invenzione di strumenti di ricerca come gli indici, nel tentativo di controllare e gestire una massa vertiginosa di nuove conoscenze.
La volontà di controllare l’accesso ai materiali per elaborare la narrazione storica è un’altra costante nella storia delle civiltà, non solo in Occidente. La libertà della ricerca storica è un’ “invenzione” recente, frutto di lotte, e non può mai essere data per scontata: qualunque regime autoritario tende ad accaparrarsi il controllo delle fonti. E a manipolarle, con gli strumenti del suo tempo. Con il suo Archivio del mondo, Napoleone voleva controllare la narrazione della storia in funzione di quella che credeva essere una nuova era, l’era del dominio francese sul mondo.
Possiamo fare altri esempi. Durante la Guerra Fredda, i due blocchi si facevano una feroce guerra di propaganda, che era anche una guerra di accesso agli archivi, con il fine di tenere segreti (o viceversa, svelare) gli aspetti oscuri del sistema. Oggi non si tratta più di carte e pergamene, ma di archivi dematerializzati. In apparenza, tutto è più aperto – e per certi aspetti lo è davvero-, ma in realtà gli “imperi” moderni continuano a farsi la guerra per il controllo degli archivi fisici, e in più di quel grandissimo contenitore che è la rete. Si scontrano su cosa deve essere di pubblico dominio, come e perché. Basti pensare ai vari casi di fughe di notizie come Wikileaks: archivi riservati governativi o industriali, pubblicati da gruppi che militano per la trasparenza, ma anche usati per finalità geopolitiche.
Non è solo una questione di accumulare, ma anche di fornire le chiavi di accesso. Tutta l’informazione è archiviata, ma quanto più è grande l’archivio, tanto meno è fruibile senza strumenti di ricerca: chi li prepara? con che criterio, con che fine? Le fake news prodotte dagli algoritmi non si basano forse su elementi di realtà e su spezzoni di vere notizie? La storia degli archivi serve a riflettere sulla natura mai neutra dell’accumulazione e della selezione delle fonti d’informazione.