“L’apprendista stregone. Consigli, trucchi e sortilegi per aspiranti studiosi” di Daniele Archibugi

Prof. Daniele Archibugi, Lei è autore del libro L’apprendista stregone. Consigli, trucchi e sortilegi per aspiranti studiosi edito da Luiss University Press: quale stereotipo affligge la narrazione sugli aspiranti studiosi in Italia e quali ne sono le cause?
L'apprendista stregone. Consigli, trucchi e sortilegi per aspiranti studiosi, Daniele ArchibugiNon è una narrazione felice: in genere, i giovani studiosi italiani sono ritratti come vittime di un sistema ingiusto. Si pensi a film quali Smetto quando voglio oppure Tutta la vita davanti. In entrambi i casi si vedono giovani di grande talento che, invece di essere valorizzati, sono mortificati nel mondo del lavoro. Oppure pensiamo alle indagini dei programmi televisivi, che vanno a scovare le fin troppe magagne del sistema accademico, senza però soffermarsi su quanto c’è di positivo. Sembra che nel nostro paese i giovani siano destinati ad un infinito precariato e a subire umiliazioni perenni da parte dei professori più potenti, i cosiddetti baroni. Quando poi si bandisce finalmente un concorso, il posto non è assegnato ai candidati più promettenti, ma a quelli più raccomandati.

Purtroppo, lo stereotipo contiene una buona dose di verità, anche se poi rischia di far di tutta erba un fascio e oscura le non poche luci esistenti. Non ci scordiamo, ad esempio, che i dottori di ricerca italiani sono spesso reclutati all’estero riuscendo a fare brillanti carriere. Il che indica due cose: primo, abbiamo scuole e università di ottima qualità che continuano a sfornare talenti. Secondo, non offriamo abbastanza opportunità professionali, e questo spiega come mai, invece di importare talenti, li esportiamo.

Nel calcio la situazione è opposta: importiamo molti giocatori di talento e ne esportiamo pochi. In termini relativi, i nostri studiosi sono più capaci dei nostri calciatori. Se si spendesse di più per la ricerca scientifica e meno per il calcio riusciremmo a trovare collocazione professionale non solo agli studiosi formati in Italia, ma addirittura ad ospitare quelli provenienti da altri paesi.

Chi sono gli studiosi?
In una società in cui la conoscenza diventa sempre più importante, siamo un po’ tutti studiosi. Finanche per far funzionare al meglio una lavastoviglie occorre leggere e comprendere le istruzioni. Nella società post-industriale, il numero di coloro che si dedicano saltuariamente agli studi è crescente. Si tratta di un serbatoio potenziale di conoscenza esistente nelle imprese, nella pubblica amministrazione, nelle famiglie che bisogna valorizzare.

Tra di loro, c’è un gruppo più ristretto di persone che sono studiosi di professione. Sono quelli che, per dirla con Adam Smith, osservano tutto e non fanno nulla. In effetti, sono quelli che, nelle università, nelle imprese e negli enti di ricerca, si dedicano al compito di creare nuove conoscenze come proprio principale lavoro. Sperando poi che ci sia qualcun altro che le trasformi in prodotti, processi e servizi.

I dati a disposizione indicano però che in Italia gli studiosi di professione sono assai meno che negli Stati Uniti, in Germania, in Giappone. Si deve senz’altro aumentare l’occupazione nelle università e negli enti pubblici di ricerca, ma è assolutamente necessario che tutto il sistema-paese si avvantaggi di competenze più qualificate. Questo vale per le materie scientifiche, una area in cui produciamo pochi dottori di ricerca e ce ne facciamo scappare all’estero uno su quattro. Ma vale anche nelle materie umanistiche.

Faccio un solo esempio che i più giovani conoscono benissimo: Tik-Tok. È un social network sempre più popolare tra i giovanissimi, è nato in Cina sfidando colossi americani quali Facebook, Instagram e Twitter. Perché non abbiamo nulla di simile in Italia e neppure in Europa? Servirebbero competenze sofisticate che vanno dall’informatica all’intelligenza artificiale, dalla statistica alla grafica. Ma soprattutto, la capacità di raccogliere e raccontare storie, quello che gli umanisti italiani hanno fatto per secoli. Ecco, sono questi gli studiosi di cui il paese ha bisogno.

Vale la pena fare lo studioso?
Dipende da che cosa si ricerca nella vita. Per alcuni – me compreso – non si potrebbe fare alcuna altra professione. Non perché si guadagna tanto, non perché si lavora poco, ma perché è una delle professioni in cui si è liberi di pensare e di agire, assai più di quanto accada non solo per militari e politici, ma anche per giornalisti e imprenditori e tanti altri professionisti.

È pur vero che il mondo accademico è un po’ troppo litigioso: non ho mai capito perché ci siano tanti bisticci, in Italia più che altrove, forse per le eccessive complicazioni amministrative. O forse perché l’accademia è troppo chiusa in se stessa e chi ci lavora non pensa che – alla fine della giornata – deve consegnare risultati che possano essere utili a tutta la società.

Come si snoda il percorso per diventare studiosi?
Chi vuole diventare uno studioso di professione, e quindi essere retribuito per questo lavoro, deve acquisire competenze professionali qualificate. In molte discipline, esse si ottengono con un dottorato di ricerca, in altre aree tramite accademie e scuole di specializzazione. Ma non basta iscriversi per imparare bene il proprio mestiere. Come per il viaggio dell’eroe, così ben descritto da Joseph Campbell, lo studioso deve prima di tutto trovare alcuni mentori che siano desiderosi di trasferire il proprio mestiere. Nella repubblica della conoscenza, come nell’artigianato, ci sono infatti molte competenze che sono tacite, e che si riescono ad apprendere solo stando vicino al capomastro. Non tutti i mentori, tuttavia, sono ben disposti a trasmettere il proprio sapere, per cui un giovane studioso deve prima di tutto scegliere colui che è disposto a trasferire le proprie competenze.

Il secondo aspetto è acquisire le competenze alla fonte, recandosi nei centri di eccellenza mondiali. La scienza è sempre di più globale, ma ciò nonostante ci sono ancora istituzioni che eccellono in un determinato campo. Uno studioso deve essere disposto a recarsi in questi “santuari” del sapere per imparare quanto necessario.

Il terzo è avere il coraggio non solo di ripetere e replicare quel che si è appreso, ma anche di introdurre innovazioni. Qui entra in ballo la capacità di ciascuno, ma molto spesso ci sono giovani molto dotati che hanno timore di osare. Per cui, oltre al talento, serve anche essere arditi.

Quali sono vantaggi e svantaggi del dottorato di ricerca in Italia?
Il dottorato in Italia ha molti vantaggi. Anche se non sempre sono ben organizzati, c’è stato un miglioramento continuo e chi li ottiene può contare su una borsa di studio pluriennale che dà la tranquillità di andare avanti con gli studi. Ma c’è anche una trappola: quella della eccessiva consanguineità tra studenti e docenti. Molti dottorati di ricerca sono vinti dai candidati interni, e questo rafforza una tendenza italiana per la quale dalla culla alla bara bisogna rimanere nella stessa sede. Per apprendere bisogna invece viaggiare. Se un dottorando rimane ancorato solo nella sua sede di appartenenza rischia di essere meno creativo.

Ci sono, ovviamente, delle possibilità di fuga. Ad esempio, il Ministero dell’Università e della Ricerca consente ad un dottorando di passare la metà del proprio tempo presso sedi estere, addirittura con una maggiorazione della borsa. Solamente il 40 per cento degli studenti usufruiscono di questa possibilità, a dimostrazione del fatto che molti dottorati sono eccessivamente provinciali. Il mio consiglio, sia ai giovani che agli organizzatori dei corsi, è di stringere più sistematici rapporti di collaborazione con sedi straniere. Tanto per spedire i propri dottorandi all’estero che per riceverne.

Detto questo, non scordiamoci che un numero alto e purtroppo crescente dei dottori di ricerca sfornati dalle università italiane trova ottime opportunità professionali all’estero. Il che dimostra che la qualità dell’insegnamento impartito è competitiva.

Quale importanza riveste la pubblicazione dei risultati dei propri studi e quali insidie nasconde?
Da una parte, è bene che uno studioso impari – e il prima possibile – che i progetti di ricerca hanno un inizio e una fine. Finito un progetto, occorre pubblicare i risultati, anche se incompleti o non risolutivi. Nulla impedisce poi che gli stessi studiosi sviluppino il tema in altre ricerche. Ma soprattutto, pubblicare i risultati rende esplicito quel che ciascuno sa fare, e questo è fondamentale per ricercare opportunità professionali anche al di fuori della propria sede di origine.

Dall’altra, il sistema accademico – all’estero più che in Italia – sta diventando eccessivamente metrico. Il mantra è “publish or perish”, e questo può creare l’erronea convinzione che l’obiettivo del lavoro intellettuale non sia quello di aumentare la conoscenza, ma di aumentare le pubblicazioni.

È quindi una fortuna che ci siano sistemi di valutazione che non premiano il numero di pubblicazioni, ma la loro qualità. Ciò consente di lavorare duramente per scrivere e elaborare studi ispirati. Detto questo, molti giovani, specie all’inizio della propria carriera, non riescono ad articolare i propri risultati. Hanno quindi bisogno di essere spronati, perché non c’è nulla di peggio che studi incompiuti. Bisogna invece valorizzare una dimensione artigianale del lavoro intellettuale: da uno studio ne nasce un altro, alcuni verranno meglio, altri peggio. Ma se non si inizia, è difficile migliorare.

Come avviene la valutazione della ricerca?
In Italia la valutazione della ricerca è meno sviluppata che in altri paesi. Si fanno da quasi vent’anni complicati esercizi di valutazione, tanto a livello nazionale con l’Agenzia di valutazione del sistema universitario e della ricerca, che a livello di università e enti pubblici. L’effetto è stato positivo, e molti docenti e ricercatori che avevano smesso di fare ricerca si sono rimessi a lavorare. Tuttavia, l’effetto della valutazione sulla attività di ricerca è troppo lento e alla fine non riesce a modificare sostanzialmente le strategie delle istituzioni. Spero che in futuro diventi più tempestiva, e soprattutto che si sappiano in anticipo quali sono le regole del gioco.

Qual è il consiglio più importante che si sente di dare a un giovane aspirante studioso?
Per generare nuove conoscenze ci vuole passione. Senza passione si può essere degli impiegati accademici, ma non dei veri e propri studiosi. In molti casi, tuttavia, non basta solo avere passione e talento. Bisogna anche conoscere le regole esplicite ed implicite della repubblica della conoscenza. In questo libro ho fatto un piccolo tentativo per diffonderle.

Il libro è dedicato a Federico Caffè, un economista misteriosamente uscito di scena ben 35 anni fa. Come mai?
Ho avuto il privilegio di essere allievo e amico di Federico Caffè, un uomo che si è dedicato anima e corpo all’insegnamento e alla sua Facoltà. È stato un esempio di chi, nel settore pubblico, si prodiga per migliorare le condizioni quotidiane, spesso dovendo fare delle vere e proprie gimcane per aggirare i molti ostacoli burocratici e amministrativi.

Da Federico ho anche imparato che lavorare con i giovani di talento è un privilegio. Lui era eccezionalmente capace nel cercare di capire quali fossero le loro aspirazioni e sentimenti, convinto com’era che se fossero adeguatamente motivati avrebbero trovato la propria strada lavorativa, ma anche dato un contributo utile alla società. Anche per me il contatto diretto con tanti giovani di talento è stata una inesauribile fonte di idee. Grazie a tutti loro mi sono illuso di invecchiare più lentamente.

Daniele Archibugi è Dirigente del Consiglio Nazionale delle Ricerche ed è Professor of Innovation, Governance and Public Policy all’Università di Londra, Birkbeck College . Si occupa di filosofia politica ed economia e politica della scienza, tecnologia e innovazione. Ha insegnato presso le Università del Sussex, Cambridge, London School of Economics, Harvard, Ritsumeikan Kyoto, Swufe Chengdu, Luiss e Venice International University. Ha formato un vasto numero di studiosi e tenuto corsi in varie università sulle cosiddette soft-skills accademiche.

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