
La politica dovette porsi il problema di come reagire a questo cambiamento e di come governarlo. Ciò non sembrò più possibile con coalizioni in cui il peso del conservatorismo di destra bloccava ogni discorso innovativo e ciò spinse a cercare una “apertura” verso quel campo che era stato storicamente quello della accettazione e a volte esaltazione della modernità come progresso, cioè il campo socialista.
Come si articolò il lungo dibattito sulla necessità o meno di «aprire a sinistra»?
Il problema di “aprire a sinistra” doveva fare i conti con due pregiudizi radicati. Il primo era in generale la natura sia “rivoluzionaria” che culturalmente “trasgressiva” del socialismo (un tema che risaliva ai contrasti già di fine Ottocento). Il secondo era l’unità d’azione che all’inizio era stata stabilita fra PSI e PCI, che sembrava insuperabile sulla base dell’antico assioma per cui il fascismo aveva vinto perché la sinistra si era divisa fra i due partiti. Il dibattito durante tutto il decennio fu incentrato sul superamento di questi pregiudizi. Il partito cattolico doveva tenere conto della presa che questi pregiudizi ancora esercitavano fra il suo elettorato, nella sua classe dirigente e nella maggioranza delle gerarchie cattoliche sotto la cui egida aveva conquistato buona parte del suo primato elettorale. Il partito socialista si sentiva snaturato a rinunciare alle sue rivendicazioni di “diversità culturale” (ad iniziare dal rapporto col marxismo), ma aveva anche difficoltà ad abbandonare il rapporto particolare col PCI perché sembrava di rompere il sacro dogma dell’unità della classe operaia.
Chi furono i protagonisti di quella svolta storica?
La vicenda è complessa e i protagonisti sono molti, naturalmente con ruoli diversi: ci sono quelli che favorivano e promuovevano, quelli che contrastavano anche in maniera quasi forsennata, quelli che si inserivano con ruoli di contorno, ma non irrilevanti. I tre personaggi centrali come protagonisti positivi di quello che fu quasi un dramma, come documento con le loro stesse parole, furono per la DC Amintore Fanfani, il decisionista coraggioso, Aldo Moro, il grande tessitore, per il PSI Pietro Nenni, il leader che aveva un acuto senso della storia europea ed italiana nella prima parte del Novecento. I grandi oppositori furono sul fronte politico Giovanni Malagodi, il liberale convinto che si dovesse costruire “un vallo contro i barbari” e sul fronte ecclesiastico i card. Siri ed Ottaviani, ossessionati di essere espropriati dalla guida del gregge cattolico da laici che non ritenevano titolati a farlo (poi tutto veniva ideologizzato come un dovere di lotta al marxismo anticristiano…).
Attorno a queste figure si muovono molti personaggi: i vari membri dei gruppi dirigenti della DC e del PSI, alcuni sostenitori altri contrastatori più o meno decisi della svolta; alcune personalità della segreteria di stato vaticana, soprattutto mons. Angelo Dell’Acqua politicamente ben più fine dei vertici delle gerarchie e dunque un aperturista per quanto cauto; alcuni dirigenti del PCI a cominciare da Togliatti, sempre duttile nell’analisi, ma ferreo nella tattica.
Quali resistenze incontrò l’apertura a sinistra?
Le resistenze venivano tutte dagli ambienti che temevano, in gran parte a ragione, che l’apertura a sinistra fosse la certificazione della fine di un’epoca in cui avevano avuto posizioni di grande potere e in pochi casi anche rilevanti privilegi. Gli ambienti ecclesiastici, capitanati in certa misura da Siri e Ottaviani, vedevano tramontare tutto un mondo in cui si erano identificati. Il predominio elettorale del partito cattolico non portava all’instaurazione di “regime cristiano” come immaginavano (e qualche nostalgia per il modello della Spagna franchista non mancava), ma soprattutto franava la centralità del modo di vedere tradizionale del cattolicesimo rural-popolare. Essi attribuivano il fenomeno al predominio del “laicismo”, ma era semplicemente ciò che più tardi si sarebbe definito come “secolarizzazione”. In ultimo essi facevano fatica a considerare su un piede di parità i laici che facevano politica, perché erano convinti di essere “magistero” in ogni campo. Una mentalità che alla fine della nostra storia il Concilio Vaticano II, aperto nell’ottobre 1962, avrebbe almeno ufficialmente archiviato.
Per quanto riguarda gli ambienti economici, che si ramificavano in molti partiti, il timore era di non poter mantenere quel modello di preminenza degli interessi dei vari settori imprenditoriali rispetto alle esigenze di ridistribuzione delle risorse acquisite con l’avvento della cosiddetta “affluent economy”. Di qui l’ostilità alla negoziazione coi sindacati, il rifiuto di attività di coordinamento ed indirizzo da parte della mano pubblica (la famosa “pianificazione”), il tentativo di difendere un contesto di scarsa regolamentazione che lasciava mano libera anche alle speculazioni (come si vide nell’opposizione riuscita alla riforma urbanistica tentata dal ministro Sullo nel 1962, ma che non poté arrivare a termine). Tutto veniva ingigantito. La nazionalizzazione dell’energia elettrica, che pure fu indennizzata generosamente dallo stato con una montagna di soldi, veniva presentata come il primo passo verso la bolscevizzazione dell’economia!
L’espressione «convergenze parallele» è ormai divenuta proverbiale e, diremmo, rappresentativa del cosiddetto “politichese”: in cosa consistette tale formula politica?
La vicenda è curiosa e nel libro la racconto in dettaglio. Il governo Tambroni, monocolore dc passato grazie ai voti del MSI, aveva fatto scivolare il paese in una pericolosa avventura: nel luglio 1960 c’era stata una sollevazione popolare contro il congresso del MSI a Genova, città simbolo della resistenza antifascista, sollevazione rapidamente estesa in altre città. Tambroni aveva represso con estrema durezza le manifestazioni compiacendosi di apparire come l’uomo dal pugno di ferro contro la “teppaglia rossa”, ma il paese aveva rischiato il baratro di un preludio di scontro generalizzato. Per contrastarlo si era giunti ad un largo accordo di partiti che costringevano Tambroni a dimettersi, mentre si insediava un nuovo governo Fanfani di larga coalizione: DC, PSDI e PRI nel governo e astenuti (in pratica un sostegno esterno) PSI, PLI, monarchici e sudtirolesi. Il tutto era presentato come la “convergenza” di tutti i partiti “democratici” (all’opposizione venivano confinati MSI e PCI) nella difesa dell’equilibrio costituzionale Per tutta la durata di questo governo quei partiti venivano definiti non solo dalla stampa, ma anche nei loro documenti ufficiali come i “convergenti”.
Tutti, chi per una ragione chi per l’altra, tenevano però a sottolineare che si trattava di convergenze che non portavano i partiti ad arrivare ad una vera e propria alleanza di coalizione. Per questo venne coniata l’espressione che si trattasse di convergenze non convergenti, ma parallele (un ossimoro evidentemente). A lungo l’invenzione di questo termine è stata attribuita alla creatività linguistica di Moro, che non ha mai usato nei suoi scritti e discorsi questa espressione. Quasi tutti gli storici hanno invece notato che l’espressione era stata usata da Eugenio Scalfari in un suo articolo su “L’Espresso” per spiegare come Moro intendeva l’operazione. In realtà ho trovato che Nenni in una nota del suo diario del 15 luglio 1960, dunque prima dell’articolo di Scalfari che è del 24 luglio, parla espressamente di un accordo di governo delle “convergenze parallele”. Se si trattasse di una invenzione linguistica del leader socialista o se circolasse già negli ambienti politici e giornalistici non è dato sapere. Certamente è divenuta una frase storica per parlare di accordi emergenziali con riserva di scioglierli appena possibile.
Come si giunse al centrosinistra organico?
Era evidente che la convivenza fra forze conservatrici di destra come i liberali e i monarchici e forze che premevano per affrontare i problemi della modernizzazione come i repubblicani di La Malfa e una parte cospicua della DC non poteva durare. Nel congresso di Napoli del gennaio 1962 Moro riuscì a portare la grande maggioranza del partito ad accettare la prospettiva dell’alleanza col PSI, pur condendo il tutto di attenzioni e paletti (un “cauto connubio” lo definì Andreotti che lo contrastava a sua volta con cautela). Si giunse così a varare nel febbraio 1962 quello che fu definito un “centrosinistra programmatico” (IV governo Fanfani), perché basato su una intesa di programma fra DC, PRI e PSDI, che però trovava il sostegno esterno del PSI che si asteneva sulla fiducia, ma era pronto a votare singole leggi. Questa scelta dipendeva dalla difficoltà che Nenni aveva a far accettare a tutto il partito l’alleanza con un partito come la DC che non solo era stato sino a pochi anni prima etichettato come clericale e conservatore, ma che si sapeva avere nel suo seno una forte componente più che moderata.
Tuttavia fu quel governo Fanfani a varare le due riforme simbolo del centrosinistra, ovvero la nazionalizzazione dell’energia elettrica (che doveva servire a far arrivare anche al Sud una fonte energetica essenziale per uno sviluppo civile ed industriale), nonché la scuola media unificata, cioè l’abolizione della coesistenza per gli alunni che concludevano il ciclo elementare di uno sbocco nella scuola media ed uno nella scuola professionale (un evidente sistema che a 10 anni di età condannava una parte dei giovani ad una istruzione di serie B). Non riuscì invece il tentativo di varare una riforma della legge urbanistica.
Evidentemente avrebbe dovuto trattarsi di una transizione morbida verso un ingresso a pieno titolo dei socialisti nel governo, ma tutto si complicò perché la polemica scatenata dalle destre contro le riforme innovatrici dipinte come anteprima di una svolta bolscevizzante provocò un’ondata di panico e un arretramento della DC nelle elezioni del 1963. La destra cattolica interna ed esterna al partito provò a spingere per un arretramento, ma l’unico risultato che ottenne fu di spingere il PSI ad accettare un accordo di governo che lasciasse da parte le proposte più coraggiosamente riformatrici, sicché Moro e Nenni poterono veder realizzato il loro progetto di un governo di centrosinistra “organico” varato nel dicembre 1963 (mentre Fanfani, deluso per la piega degli eventi, si metteva astiosamente da parte).
Quali conseguenze ebbe tale storica svolta?
Il primo governo Moro ebbe una vita breve e stentata. Le resistenze conservatrici erano ancora forti e vennero consolidate da una congiuntura economica che conosceva una flessione nello sviluppo (molto drammatizzata all’epoca sia pure senza fondamento) e dalla presenza alla presidenza della repubblica di Antonio Segni che aveva ancora una mentalità da guerra fredda, sicché riteneva di dover essere preparato anche a contrastare rivoluzioni comuniste (del tutto improbabili). Nonostante la crisi del 1964 la formula di centrosinistra però resse e continuò ad essere praticata, sebbene Moro in uno dei suoi memoriali scritti nel carcere delle BR annotasse che dopo di allora si era tornati più che altro ad un centrismo riverniciato.
Tuttavia in una prospettiva storica bisogna tenere presente che in realtà la battaglia per la modernizzazione del sistema politico e culturale italiano fu vinta e nella sostanza da questo non si tornò più indietro. Le visioni dei conservatori del decennio 1953-1963 furono archiviate come obsolete da quegli stessi ambienti, la spinta a fare riforme continuò ad esistere e, con le altalene che sono tipiche della storia, ne vennero in seguito realizzate diverse e significative. In fondo l’unica cosa su cui i conservatori avevano ragione era che l’apertura al PSI sarebbe stata sia pure con tempi lunghi l’anticamera del superamento della “conventio ad excludendum” verso il partito comunista (visto che i socialisti non erano in grado di prosciugarlo come alcuni avevano sperato era inevitabile accettare anche il PCI nel sistema democratico italiano). Era l’andamento della storia che avrebbe portato peraltro, con tutte le lentezze del caso, anche al superamento dell’esclusione verso il partito dell’estrema destra.
Ciò non toglie che, come dimostra la lettura del mio libro, vada prestato il giusto riconoscimento a chi ebbe il coraggio di rischiare la propria posizione politica e il proprio rapporto col suo mondo di provenienza per fare dell’Italia una parte dell’evoluzione dell’Europa moderna.
Paolo Pombeni è professore emerito presso il Dipartimento di Scienze politiche e sociali dell’Università di Bologna. Tra le sue pubblicazioni: Giuseppe Dossetti (2013), La questione costituzionale in Italia (2016), Che cosa resta del Sessantotto (2018), La buona politica (2019) e Sinistre. Un secolo di divisioni (2021), tutti con il Mulino