“L’antipolitica come professione. Un’interpretazione della crisi della Seconda Repubblica” di Michele Prospero

Prof. Michele Prospero, Lei è autore del libro L’antipolitica come professione. Un’interpretazione della crisi della Seconda Repubblica edito da FrancoAngeli: in che modo l’antipolitica ha segnato la storia della Seconda Repubblica?
L'antipolitica come professione. Un’interpretazione della crisi della Seconda Repubblica, Michele ProsperoL’antipolitica è una mentalità che in forme quasi naturali attraversa le diverse esperienze storiche. Il problema non è tanto quello di rintracciare le espressioni che accompagnano una ostilità alle forme della politica. Anche nella prima repubblica o addirittura nelle fasi storiche antecedenti (l’età liberale intendo) si possono rinvenire sensibilità che respingono il senso della funzione politica. Quello che dagli anni ’90 si presenta in forme originali è la quantità della forza accumulata dalle culture antipolitiche capaci di diventare egemoni. Da fenomeno marginale che accompagna ai fianchi la democrazia come un ronzio ineliminabile sebbene fastidioso, l’antipolitica diventa un motore centrale che imprime il suo marchio agli accadimenti. La genesi della seconda repubblica rinvia alla potenza di fuoco dell’antipolitica che assume sia una funzione destrutturante verso partiti ormai troppo indeboliti per resistere sia un compito istituente nel senso che la transizione è vinta da forze irregolari che si fanno strada osteggiando le forme, le procedure, gli istituti della politica tradizionale.

Quali diverse ondate si sono succedute sullo scenario populista dell’ultimo trentennio?
Ci sono state tre distinte ondate. La prima è quella del 1992-94, con l’antipolitica esterna (Lega, Forza Italia) che in nome della società civile, della gente prevale sui tentativi interni di cavalcare il sentimento antipolitico (Pds, Segni profeti della democrazia del cittadino con uno scettro recuperato dalla oppressione della partitocrazia). La seconda si ha nel 2011-13, con l’eclisse del berlusconismo determinata dal ritornante vincolo esterno europeo, e la crescita di una ribellione contro la “casta” alimentata dai due giornalisti del Corriere della Sera e raccolta tempestivamente da Beppe Grillo che diventa l’esecutore testamentario. La terza ondata si è presentata nel 2018 con una nuova antipolitica esterna (anche se già presente in parlamento il M5S è all’opposizione non negoziabile contro la casta e il governo di coalizione Pd-Pdl) che trionfa sulla versione di antipolitica interna accarezzata dal Pd (rottamazione, cancellazione del finanziamento pubblico ai partiti). Il risultata di ciascuna di queste ondate è l’ingresso in parlamento di un 65-70 per cento di personalità nuove, un ricambio così ampio si ha di norma nelle cadute dei regimi.

Dove vanno ricercate le cause dell’ondata di antipolitica che caratterizza l’epoca attuale?
Le cause sono riconducibili alla crisi della “forma” democratica costruita nel secondo dopoguerra (partiti, rappresentanza, diritti di cittadinanza, crescita economica). Con la globalizzazione lo spazio dell’economia si libera dalle precedenti “vegetazioni tropicali”, come Schumpeter chiamava le forme del diritto, e non è più regolato dalla vecchia forma. Così la politica, nei paesi a debole potenza nelle relazioni internazionali, non dispone delle risorse per orientare le scelte, redistribuire la ricchezza sociale, integrare bisogni e interessi nuovi. L’insostenibilità del Welfare in un solo paese, a seguito dell’infittirsi della mondializzazione dei mercati, solleva una carenza di rappresentanza sociale che erode l’insediamento dei partiti. L’evaporazione della economia mista post-keynesiana in paesi come l’Italia rompe il precedente modello di crescita senza ridefinire uno altrettanto efficace. Le privatizzazioni, la retorica per cui il piccolo è bello, hanno indebolito le capacità di crescita, innovazione, creazione di occupazione. L’antipolitica in Germania trova argini che la marginalizzano, in paesi a più fragile capitalismo e a più accentuata scomposizione del sistema dei partiti invece trionfa per l’intrecciarsi di una stagnazione pluridecennale dell’economia e una caduta delle classi dirigenti non selezionate attraverso robusti canali di partito. Alla crisi di legittimazione non si dà che una risposta apparente con il meccanismo dei partiti digitali nei quali si formula un quesito e un mini populus degli iscritti alla piattaforma risponde con percorsi micro plebiscitari.

Quali responsabilità ha, al riguardo, il sistema elettorale?
Il discorso sul sistema elettorale va articolato. L’introduzione del sistema misto a prevalenza maggioritario, il cosiddetto Mattarellum, caricò la consultazione del 1994 di un significato di svolta epocale. Dai partiti che avevano espropriato agli elettori di ogni sovranità il potere tornava finalmente ai cittadini liberi e informati chiamati ad eleggere direttamente il governo (come si diceva con una forzatura evidente, amplificata peraltro con la consuetudine incostituzionale di indicare sulla scheda il nome del cosiddetto candidato premier o capo coalizione). Questa retorica facilitò il successo di Berlusconi che caricò l’evento di una portata rigeneratrice e gli errori tattici e strategici compiuti dalla sinistra e dal centro si sono rivelati catastrofici e dall’impatto addirittura trentennale. Dopo poco più di dieci anni, viene adottato una diversa tecnica elettorale, il cosiddetto Porcellum, che malgrado il dispositivo del vincitore certo giudicato incostituzionale dalla Consulta, non ha impedito l’emersione di un terso soggetto grillino che archivia il bipolarismo meccanico, a induzione tecnico-elettorale. Con il Porcellum e anche con l’attuale formula elettorale si consolida un perverso meccanismo per cui il cittadino approva le liste chiuse e bloccate compilate senza alcuna possibilità di legittimazione degli istituti di rappresentanza per via della ossificazione della democrazia intra-organizzativa. Si ha una anomala rappresentanza dall’alto che capovolge il senso costruttivo del consenso politico.

Quale esito, a Suo avviso, per il generale clima di disaffezione politica che alimenta, tra l’altro, un sempre maggiore astensionismo?
Con una accorta gestione del governo Draghi, che si presenta “senza formula politica”, i partiti potrebbero approfittare per rilanciare una essenziale invenzione organizzativa e una vocazione progettuale. Radicamento e cultura politica sono le due carenze fondamentali dei partiti odierni che, nel loro volto asfittico, si allontanano enormemente dalle tipologie dei partiti altrove operanti. Se in altri sistemi europei la personalizzazione della leadership è comunque una fenomenologia ben controllata da modelli di partito, comunque persistenti anche in una età di sensibile indebolimento della membership, in Italia nessuna formazione politica presenta le sembianze di un partito di stampo continentale. Congressi, iscrizioni, confronti politico-programmatici, sedi di elaborazione e confronto culturale sono scomparsi dall’orizzonte della politica italiana per un malinteso processo di costruzione del leader come un ritrovato delle tecnologie della comunicazione. In realtà tutte le figure che si sono presentate sulla scena esibendo la maschera del leader e scomodando persino la scomoda etichetta weberiana del carisma, sono risultate delle costruzioni effimere, dei fenomeni estemporanei dalla durata passeggera. Il leader ha pur sempre una forza legata a quella della propria organizzazione, non esiste, se non nelle fantasie dei politologi, un principe digitale, un partito personale che confida sul trascinamento del singolo attore individuale. L’eccezione è stata quella di Berlusconi ma, più che un partito personale, il suo era un partito neo-patrimoniale con azienda, denaro e media a supporto. Senza la ricostruzione di parvenze almeno di partito, l’antipolitica non trova antidoti reali e la lunga stagnazione italiana (dell’economia, della società, della cultura) rischia di diventare irreversibile. Non esiste una società moderna, complessa e differenziata senza una testa politica vale a dire senza partiti che producono cultura e selezionano classi dirigenti di apprezzabile qualità. L’istanza weberiana della politica come attività complessa che non è delegabile ai dilettanti o allo spirito letterario rimane una sollecitazione ancora fortemente attuale.

Michele Prospero è professore ordinario di Filosofia politica nella Facoltà di Scienze politiche, Sociologia e Comunicazione dell’Università di Roma “La Sapienza”. Tra le sue principali monografie si segnalano: Politica e vita buona, 1996; Alle origini del laico (2006); La costituzione tra leaderismo e populismo (2007); Filosofia del diritto di proprietà (2009), Hans Kelsen (2012); Il nuovismo realizzato (2014), La teoria politica di Marx (2021). Dirige la rivista Democrazia e Diritto.

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