“L’antichità «crudele». Etruschi e Italici nella letteratura italiana del Novecento” di Martina Piperno

Dott.ssa Martina Piperno, Lei è autrice del libro L’antichità «crudele». Etruschi e Italici nella letteratura italiana del Novecento edito da Carocci: in che modo Etruschi e altri popoli Italici hanno stimolato per secoli l’immaginazione degli scrittori?
L’antichità «crudele». Etruschi e Italici nella letteratura italiana del Novecento, Martina PipernoIl volume L’antichità «crudele» è il frutto di un progetto di ricerca biennale finanziato da una Irish Research Council Government of Ireland Postdoctoral Fellowship e svolto presso University College Cork. Mi fa piacere ringraziare Daragh O’Connell e agli altri membri del Dipartimento di Italiano per il sostegno prezioso. L’Irish Research Council, insieme a National University of Ireland, ha anche sostenuto le spese di pubblicazione. L’idea è nata nelle prime fasi della mia carriera postdottorale a Warwick, in Regno Unito (grazie a Fabio Camilletti e David Lines, miei mentori di allora), e ho iniziato a lavorarci durante una Visiting Fellowship a Seton Hall University, in New Jersey (USA), in conversazione con Gabriella Romani, che ringrazio.

Una caratteristica della storia dell’Italia preromana è che è molto lacunosa, e ci è giunta per lo più attraverso fonti indirette, scritte da altri popoli (i Greci, i Romani) e in altre lingue. Già nel ‘700 Mario Guarnacci, un precursore della moderna etruscologia, si doleva profondamente della mancanza dei “libri etrusci”, come li chiamava. Guarnacci scrisse anche una tragedia “etrusco-centrica”, il Muzio Scevola, che non dipinge gli Etruschi semplicemente come nemici dei Romani, ma invece vuole sottolineare l’enormità del debito che la civiltà romana ebbe con i suoi precursori. Nell’800 uno scrittore molisano, Vincenzo Cuoco, aveva testato il potenziale narrativo della leggenda italica. Ne era uscito un singolare romanzo, il Platone in Italia, oggi quasi dimenticato ma allora letto con interesse. Più tardi Carducci ambienterà diverse poesie in luoghi della memoria preromana, e D’Annunzio sceglierà Volterra, città carica di drammatici ricordi etruschi, come ambientazione per il suo romanzo Forse che sì forse che no.

I saggi contenuti in L’antichità «crudele» (il titolo è tratto da una frase di Carlo Levi in Cristo si è fermato a Eboli) si concentrano su alcuni casi di studio novecenteschi, connettendo fra loro tematicamente le suggestioni emerse da un corpus di opere appartenenti a generi diversi (poesia, romanzo, memoir, prosa d’arte, critica letteraria) e offrendone una prima sistematizzazione. Ma la ricerca continua: presso il laboratorio MDRN dell’Università di Lovanio, dove continuo le mie ricerche su archeologia e miti preromani in letteratura, è attivo il progetto Literary Knowledge: Modernism and the Sciences in Europe (http://www.mdrn.be/projects/literary-knowledge-1890-1950-modernisms-and-sciences-europe) dedicato ai rapporti fra letteratura e scienze, con un ramo riservato all’archeologia. Sia i miei interessi di ricerca che quelli dei giovani colleghi impegnati nel progetto stanno convergendo in una analisi della contaminazione fra letteratura e nuove scienze in Europa nel primo Novecento con molta attenzione alle scienze del mondo antico. Dov’è il confine fra scienza e letteratura? Possiamo veramente tracciare una demarcazione fra ricostruzione e invenzione dell’antico? I testi dell’archeologia sono attraversati da suggestioni letterarie, e viceversa?

Come si manifesta, nella letteratura italiana del Novecento, la ricezione della storia dell’Italia antica?
La scoperta della grande statua nota come Apollo di Veio, nel 1916, dà luogo ad una vera e propria mania, in maniera non troppo dissimile da quello che accadde nel 1506 con la scoperta della statua del Laocoonte a Roma; ma con l’ausilio, stavolta, di strumenti tecnici di riproduzione fotografica che diffondono velocemente l’immagine della poderosa statua in tutta Europa. È allora che si addensa un “motivo etrusco-italico” nella letteratura italiana, specie nella prosa d’arte di viaggio (Cardarelli, Savinio, Ungaretti, Alvaro, Gadda, Garrone). Tuttavia, raramente Etruschi e Italici “fanno tema”, o diventano veri e propri protagonisti di prose, romanzi, o anche poesie: gli spazi dell’archeologia preromana diventano tòpoi narrativi evocativi, misteriosi, inquietanti; o contribuiscono ad articolare i temi della perdita, del lutto, della dannazione in maniera originale (penso alla lirica Nostalgia di Cardarelli). Si può dire quindi che stanno quasi sempre per qualcos’altro: sono significanti, più che significati.

In L’antichità «crudele» ho voluto dare un po’ di spazio anche all’ambiguità politica – intesa in senso lato – del mito etrusco-italico. Se da una parte è vero che l’esaltazione delle radici territoriali dialoga perfettamente con l’ossessione localista di alcuni movimenti culturali legati al Fascismo (per esempio il cosiddetto “strapaese”), che il “mito” etrusco-italico fu alimentato dalla propaganda fascista in cerca di narrazioni autoctone, tanto che l’archeologia etrusco-italica nacque come scienza indipendente proprio in quel periodo, è altrettanto vero che questo nucleo propagandistico è in contraddizione con il mito della romanità esaltato sempre dalla narrazione fascista. Savinio, Levi e Bassani, forse riprendendo David H. Lawrence (Etruscan places, 1932), tentano di problematizzare se non rovesciare l’appropriazione politica del mito preromano da parte del regime, mostrandone la contraddittorietà (a prezzo anche qui di inevitabili semplificazioni storiche): si può esaltare allo stesso tempo la civiltà romana e quella dei popoli conquistati dai Romani?

Come si sviluppa la questione del “Dante etrusco”?
La questione della continuità fra sostrato etrusco e Toscana medievale è antica e se ne possono trovare tracce già nel Quattrocento. La questione che ho studiato nel libro, dalla fine dell’Ottocento al Fascismo, riguarda si può dire la fortuna di un verso di Carducci, che in Giambi ed epodi definisce Dante “etrusco pontefice redivivo” (Avanti, Avanti!, v. 112). L’auctoritas carducciana fa sì che questa connessione fra Toscana antica e medievale, la continuità fra il “genio” etrusco e quello dantesco (che implicitamente viene fatto “risorgere” nuovamente in Carducci) diventi una suggestione letteraria ricorrente: esempi si trovano in D’Annunzio (il quale chiama Dante “etrusco pellegrino” e gli attribuisce una caratteristica tradizionalmente associata agli Etruschi, la malinconia), Papini (che attribuisce alla sopravvivenza di caratteri etruschi l’inclinazione dantesca per l’aruspicina), nel critico letterario Carlo Curto. Da lì, come vedrete se leggerete il libro, questo motivo finisce direttamente per essere usato dalla propaganda razziale fascista, autorizzando o confermando una visione “autoctonista” e nazionalista della sopravvivenza della civiltà etrusca come “radice” locale persistente.

Quali suggestioni etrusche rivivono in Giorgio Bassani?
Tutti sanno che Il giardino dei Finzi-Contini di Bassani (1962) inizia nel cimitero etrusco di Cerveteri, e che da lì nasce la narrazione del più fortunato romanzo italiano sulla Shoah (o meglio, sui mesi cruciali che portarono al martirio degli ebrei italiani, insieme ai correligionari europei e a zingari, omosessuali e oppositori politici, nei campi di concentramento nazisti). Nel mio lavoro ho ipotizzato che ci siano delle chiavi semantiche specifiche del sepolcrale etrusco, osservando anche esempi di continuità con altri testi: non solo le note elegiache scelte da Bassani hanno dei precedenti in opere, molto diverse, di Cardarelli e di Savinio, non solo questi autori associano agli stessi spazi riferimenti figurativi simili (tutti e tre pensano al pittore svizzero Arnold Böcklin, forse allo stesso quadro, L’isola dei morti), ma l’inquietudine che caratterizza la rappresentazione letteraria del territorio intorno a Cerveteri (l’«ininterrotto cimitero», scrive Bassani) e lungo l’Aurelia, la strada delle vacanze, dello spasso e dell’evasione, ricorre in altri testi di Bassani, in particolare nella sua poesia tarda. Penso per esempio alla bella lirica Santa Severa, in cui il poeta torna a guardare dal mare il territorio selvaggio «che ci sta dietro» come una cattiva coscienza, dove si nasconde il cimitero etrusco: la lirica sembra dire che il poeta si sente stratificato e pesante e carico di ricordi come quel territorio «completamente disabitato» e inquietante. Oppure a Isola Bisentina, poesia dedicata all’isola al centro del lago di Bolsena (città etrusca), che riprende la suggestione dantesca immaginando che la tranquilla navigazione lacustre sia in realtà un viaggio infernale sul traghetto guidato da Caronte. E così via, finendo a concludere in un altro spazio archeologico speculare a Cerveteri, non centro-italico ma magnogreco, nella lirica La porta Rosa: qui Bassani scopre le carte e rivela che il suo lavoro di scrittore è analogo a quello dell’archeologo, e che la sua Ferrara perduta e cancellata dalle leggi razziali è nella sua immaginazione un sito deserto e irto di rovine.

Non lasciarmi solo a scavare nella mia città a resuscitare
grado a grado alla luce
ciò che di lei sta sepolto là sotto il duro
spessore di ventimila e più giorni
è là Rosa mia mia Regina che io sono giovane e bello e puro
ancora
là l’esclusivo padrone e signore per sempre il solo
Re

Martina Piperno, Ph.D. in Italian Studies presso University of Warwick (UK), poi Postdoctoral Fellow presso University College Cork (Irlanda), è ora FWO Senior Postdoctoral Research Fellow presso KU Leuven (Belgio). Ha pubblicato saggi su Giacomo Leopardi, Giambattista Vico, Primo Levi, Carlo Levi, e il volume Rebuilding Post-Revolutionary Italy: Leopardi and Vico’s New Science (Oxford 2018), vincitore del premio Aldo and Jeanne Scaglione for Italian Studies 2019 offerto dalla Modern Language Association of America.

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