“L’annessione. Violenza politica nell’Italia postunitaria” di Dario Marino

Dott. Dario Marino, Lei è autore del libro L’annessione. Violenza politica nell’Italia postunitaria edito da GOG: quale giudizio storico è possibile dare del fenomeno del brigantaggio postunitario?
L’annessione. Violenza politica nell'Italia postunitaria, Dario MarinoI giudizi storici, elaborati nel corso dei decenni, sul fenomeno del brigantaggio postunitario sono cospicui ed eccedono per numero le analisi razionali delle fonti storiche su cui pure dovrebbero basarsi. Quella che io definisco la storia “monumentale” del Risorgimento, con poche varianti di rilievo, ha spiegato il brigantaggio postunitario come un fenomeno delinquenziale endemico di un territorio arretrato, fuori dall’orbita del progresso civile europeo, fomentato dalle forze reazionarie, codine, dello Stato della Chiesa e dei Borboni. Questo giudizio, pressoché invariato da oltre centocinquanta anni, era stato elaborato dagli intellettuali e politici moderati dell’epoca, o meglio, per usare un’espressione di Gramsci, dalla classe dirigente e dominante del Paese (dominante nei confronti delle classi meno abbienti e dirigente rispetto alle altre correnti politiche del Risorgimento). La volontà di questa interpretazione è sempre stata quella di eliminare un’enorme porzione di storia a favore di pochi fatti e uomini (Mazzini, Cavour e Garibaldi), abbelliti come monumenti, pur di omettere le strategie e i giochi di potere che si nascondono dietro la solennità dell’origine dello Stato italiano moderno e della sua classe dominante. Ieri come oggi, vi è il bisogno di alimentare lo stereotipo dell’arretratezza delle terre meridionali per giustificare gli atti di palese illegalità o violenza da parte dei governi centrali e delle amministrazioni locali nel Mezzogiorno.

Una parte dei giudizi storici revisionisti sul Risorgimento, invece, spiegano il brigantaggio attraverso una delle seguenti chiavi interpretative: resistenza al genocidio piemontese, guerra di classe, difesa del popolo a favore del legittimo sovrano di un regno retto dalla giustizia e prosperità, opposizione alla spoliazione economica del Sud Italia oppure come difesa dei valori della religione contro uno Stato ferocemente laico. Molte di queste tesi, soprattutto quelle partorite dal revisionismo di stampo giornalistico, operano eccessive semplificazioni del fenomeno brigantaggio, accentuano arbitrariamente gli aspetti sensazionali di quelle vicende e finiscono per avere nella parzialità del giudizio storico il segreto stesso della loro efficacia emotiva. Spesso anche gli autori mossi da un sincero sentimento di denuncia o di contrapposizione alla storia ufficiale, senza il contributo di conoscenze analitiche, rischiano di alimentare lo stereotipo di un Mezzogiorno affetto dalla sindrome del deresponsabilizzato. Ogni giudizio storico assume un senso sempre in relazione ai valori dominanti del presente. Intendo dire che una narrazione storica che attribuisce tutti i mali del Sud Italia alle scelte del governo di Torino o ai successivi governi italiani, non sta aiutando la classe civile ed intellettuale del popolo meridionale ad essere protagonista della propria storia attuale. Non si può continuare ad attendere passivamente che gli eventi scorrano, lamentandosi però se non lo fanno nella direzione desiderata, proprio come spesso è avvenuto per la classe politica meridionale nel corso degli ultimi due secoli. Per la storiografia neoborbonica vale la teoria di Jung quando scriveva “Chi guarda all’esterno, sogna. Chi guarda all’interno si sveglia“. Nel mio libro, quindi, cerco di proporre al lettore una visione articolata delle diverse cause all’origine del complesso fenomeno passato alla storia come “brigantaggio”, rifuggendo sia dalla tesi aprioristiche della storia ufficiale che dalle semplificazioni di un certo tipo di revisionismo.

Il fenomeno del brigantaggio fu in realtà caratterizzato da una molteplicità di conflitti: guerra di classe, difesa delle tradizioni e della Chiesa, resistenza contro l’occupazione piemontese.
Bisogna scavare a fondo in un fenomeno storico, immergersi completamente in un’epoca, analizzare i tanti documenti degli archivi, svolgere un attento lavoro di ricerca bibliografica, senza pregiudizi e tesi aprioristiche. Allora si scoprirà che una verità univoca non esiste e si può ricostruire soltanto un contesto che sia il più possibile vicino alla realtà.
Il brigantaggio fu, in sostanza, un fenomeno complesso nel quale si rintracciano, in misura più o meno maggiore, i diversi motivi che Lei ha elencato. Anche all’interno delle centinaia di bande armate a piedi e a cavallo appoggiate dalla popolazione povera che diedero vita al brigantaggio, si possono rintracciare notevoli differenze in relazione alla composizione delle bande, ai motivi più o meno nobili che li spinsero a darsi alla macchia e al loro rapporto con la popolazione civile. Nel brigantaggio si esprime innanzitutto il rancore e l’odio dei “cafoni” contro i “galantuomini”, la loro fame di terra, l’aspirazione al recupero dei beni demaniali usurpati e l’ostilità verso uno Stato sentito estraneo, che aveva introdotto una coscrizione obbligatoria al servizio militare assai pesante e aggravato oltremisura il carico fiscale.

Il liberalismo, il nazionalismo e la nascita del capitalismo borghese furono fenomeni che in Italia viaggiarono di pari passo. Per i borghesi meridionali, nel 1860, era arrivato il momento di affermarsi come classe egemone. Appoggiarono Garibaldi per sancire la proprietà sulle usurpazioni dei beni demaniali che si erano accaparrati, mantenere o inasprire l’ordine sociale vigente, guadagnare incarichi pubblici e prestigio personale. Il popolo meridionale sperava che Garibaldi potesse risolvere il problema agrario, ma la realtà dei fatti si dimostrò molto più dura delle speranze e in molti iniziarono a rimpiangere il Re Borbone. La nuova legislazione italiana di fatto legalizzava le usurpazioni con una sorta di prescrizione per non inimicarsi i galantuomini “usurpatori”, che, nelle provincie napoletane, costituirono la classe dirigente sostenitrice del nuovo regime.
La quotizzazione dei demani era, inoltre, ostacolata dai comuni diventati ormai centri di potere degli usurpatori.
Accanto agli usi civici esercitati dai contadini sulle terre demaniali, emerge nel libro il fitto tessuto di strutture associative, come le chiese ricettizie, le confraternite, i monti frumentari, gli enti che gestivano le terre collettive, in grado di garantire quel minimo di condizioni dignitose alla parte più misera della popolazione nella lotta quotidiana per la sopravvivenza. Sull’onda della reazione anticlericale che caratterizzò in Italia la rivoluzione liberale e il Risorgimento, l’ispirazione religiosa che alimentava queste forme di economia civile e solidale fu presa a pretesto dal governo unitario per incamerare anche tali beni, assoggettandoli illegittimamente alle procedure dell’asse ecclesiastico.
La destra moderata esportò l’inflazione nel Mezzogiorno, bloccò gli investimenti pubblici e cancellò quel protezionismo doganale che giovava alla produzione dei prodotti agricoli e manufatturieri. La crisi economica produsse un ulteriore impoverimento delle masse contadine e quel malcontento generalizzato fu una delle causa principali del brigantaggio. Altri errori del governo moderato alimentarono in modo determinante la deflagrazione del brigantaggio. La discriminazione antigaribaldina del governo di Cavour determinò una frattura sul fronte liberale. I governi moderati diedero la loro fiducia, nel Mezzogiorno, a uomini e strutture ex borboniche, ai cosiddetti “nuovi venuti”, preferendo quest’ultimi agli elementi più avanzati del liberalismo.

Un altro errore fatale del governo moderato fu rappresentato dal trattamento ostile riservato ai soldati borbonici e ai renitenti alla leva, che costituirono le prime formazioni della reazione armata.
Inoltre, l’atteggiamento degli ufficiali settentrionali, inviati nei paesi meridionali per “pacificare” quelle provincie, spinse verso la lotta armata un gran numero di giovani. I quadri medio­alti dell’esercito credevano che dietro ogni contadino si nascondesse un reazionario, un nemico della nazione. Reprimevano disordini sociali con lo stesso rigore che utilizzavano contro i moti legittimisti, fucilarono in maniera arbitraria migliaia di contadini, con l’obiettivo di completare l’annessione attraverso violente misure esemplari ai danni della popolazione. Il generale dei briganti, Carmine Crocco, in uno dei suoi scritti, individuò, in maniera molto sintetica e con quella ricchezza di immagini tipiche della cultura contadina, le cause del brigantaggio: “L’invidia e le turpitudine di pochi uomini che si facevano chiamare Signori, erano Signori, sono Signori, e saranno sempre Signori, imperocche la cecità del governo il quale faceva passare per le armi le Locertele e metteva nel suo seno i Serpenti velenosi…

Quali interessi economici favorirono e determinarono l’annessione delle Due Sicilie?
È noto che il Regno di Sardegna, sconvolto da una grave depressione economica per via di numerosi lavori pubblici improduttivi e una politica estera a dir poco sproporzionata rispetto alle risorse disponibili, con l’annessione del Regno delle Due Sicilie acquisì un enorme patrimonio monetario e demaniale che diede man forte allo sviluppo settentrionale. Gli interessi economici erano conosciuti già all’epoca dei fatti anche tra la povera gente. In uno dei documenti che ho ritrovato negli archivi, c’è il testo di una canzone anti- italiana cantata nelle carceri di Vasto dai prigionieri colpevoli di reati di brigantaggio e lì detenuti. Una canzone che era stata ascoltata nel carcere e ricopiata, come ulteriore prova di reato, dall’applicato di pubblica sicurezza Salvatore Carbone della sottoprefettura del paese abruzzese nel 1863 e recitava: “È venuto questo boio di Torino, vo fa lo re senza quatrino / La nazione ci ha spogliato, mò à da essere fucilato…”.

Le politiche messe in atto nelle province meridionali dai governi unitari a partire dal 1861 rappresentarono un’opera di colonizzazione e di sfruttamento sistematico delle risorse del Mezzogiorno.
Vi furono interessi anche da parte di potenze straniere.
È nota l’ostilità britannica verso il Regno delle due Sicilie, che mostrava eccessiva autonomia geopolitica, così come è risaputo l’interesse coloniale inglese nella questione dello zolfo in Sicilia e alla costituzione di una nuova nazione amica (e quindi subordinata all’Impero) per consolidare l’egemonia nel Mediterraneo. Più in generale, però, l’Inghilterra era interessata ad assicurare il successo di quel nazionalismo, sviluppato entro la cornice del liberalismo borghese, che avrebbe legittimato l’ordine sociale ed economico funzionale al progresso del capitalismo mondiale. Già nel 1854, Carlo Pisacane scriveva: “L’Inghilterra vive d’industria, i suoi prodotti sono immensi, e sempre crescenti, quindi essa ha bisogno di mercati vastissimi, essa deve, se le circostanze lo richiedano, aprire col cannone lo sbocco ai suoi prodotti…”. Dopo l’Unità d’Italia fu estesa al resto del paese la tariffa sarda del 1851, voluta da Cavour. Essendo la tariffa più liberista fra quelle degli antichi Stati, essa provocò la crisi delle industrie meridionali, cresciute al riparo di una protezione essenziale per la loro crescita. Il protezionismo di Stato era l’unico modo per difendere l’economia nazionale, per fabbricare autonomamente quei prodotti che il mercato interno avrebbe richiesto. Il liberismo economico della Destra storica nel quindicennio seguente l’unità d’Italia distrusse l’economia meridionale di carattere domestico, consentendo, sia all’industria settentrionale, che ai prodotti dell’industria europea di invadere e conquistare il mercato meridionale.

Chi furono i principali protagonisti del conflitto?
Innanzitutto il neonato esercito italiano, che in questa guerra civile sperimentò un dannoso processo di logoramento.
Il governo unitario nel Mezzogiorno delegò alle forze armate il difficile compito di “fare gli italiani”. Questa scelta fu determinata dalla mentalità grettamente conservatrice di chi era al potere, dai limiti intrinsechi del Risorgimento sotto la guida dei Savoia e dall’esaltazione del ruolo dell’esercito. La politica abdicò al suo ruolo e l’esercito condusse una “guerra sporca” contro i diseredati meridionali con quei mezzi che sembravano adatti a risparmiare energie ed uomini alle forze armate impegnate contro la guerriglia. La degenerazione delinquenziale di molti briganti fu la conseguenza delle azioni repressive dello Stato, che non disdegnò di condurre rappresaglie terroristiche contro la popolazione civile. Insieme all’esercito italiano troviamo la Legione ungherese, un corpo militare creato nel 1860 in Sicilia durante l’impresa garibaldina e formato da esuli e disertori magiari e croati. Si distinsero nel Mezzogiorno per determinazione e ferocia. Protagonista non secondaria della guerra al brigantaggio fu la Guardia Nazionale che rappresentò una sorta di “braccio armato” di municipalità e sindaci. I “galantuomini” delle provincie nell’agosto del 1860, utilizzando la legge fatta a luglio sull’organizzazione della guardia nazionale, reclutarono corpi armati volontari, soprattutto in Basilicata, Cilento e Calabria, composti da borghesi, artigiani e in misura molto minore da contadini. Grazie a queste forze i possidenti liberali riuscirono a condurre insurrezioni, dichiarando decaduto il potere di Francesco II, e finanche a proclamare governi provvisori, prima ancora che l’esercito garibaldino, arrivasse in quelle zone del Mezzogiorno continentale.

Così avvenne, per esempio, per l’insurrezione lucana che fu decisiva nelle sorti della spedizione garibaldina, perché il nizzardo attraversò lo stretto di Messina solo dopo la notizia della rivolta potentina. Il ruolo principale delle “squadriglie borghesi” era però quello di reprimere la rivolta contadina che dilagava nel 1860 con occupazioni delle terre e tumulti più o meno generali nelle provincie della Basilicata, del Cilento, della Calabria, del Beneventano e degli Abruzzi. Dopo l’impresa garibaldina questa forza armata fu riorganizzata col nome di Guardia nazionale italiana che al Sud avrebbe svolto il compito di repressione del banditismo. Lo scopo del governo di Torino era chiaro. Introducendo un elemento “locale” nella guerra al brigantaggio, non considerato “invasore”, come lo era allora l’esercito italiano, si sperava che la popolazione avrebbe collaborato con la Guardia Nazionale formata da loro concittadini e compaesani. Si voleva, insomma, spezzare quella solidarietà e quell’appoggio che il popolo forniva alla guerriglia. Queste speranze ben presto sfumarono quando prese forma una realtà di guerra civile completamente differente. Nella repressione del brigantaggio erano impiegati anche i carabinieri. Furono utilizzati nel Mezzogiorno, fin dal principio, in prima linea nella guerra al banditismo e la loro condotta non differì molto da quella dell’esercito. Quest’ultimo aveva un’ottima considerazione e fiducia verso i Reali Carabinieri, perché nessun’altra arma di pubblica sicurezza nel Mezzogiorno poteva assicurare maggiore ed incondizionata fedeltà alla monarchia savoiarda. Durante il Risorgimento, infatti, avevano già costituito il baluardo più solido contro i patrioti repubblicani. Per questo motivo gli erano stati affidati compiti, per così dire “ingrati”, come i servizi di polizia militare e di intelligence contro la “rivoluzione” e i soldati indisciplinati. Furono loro, ad esempio, ad arrestare i garibaldini in Aspromonte.

Dall’altra parte troviamo l’enorme schiera di pastori, contadi­ni, tagliaboschi, soldati borbonici sbandati e renitenti alla leva, garibaldini delusi e qualche pregiudicato. Nella maggior parte dei casi si diedero alla macchia non certo per delinquere, ma per avere salva la vita, dal momento che il rigore repressivo dell’esercito fu indiscriminato.
Infine vi era il popolo meridionale che più di tutti fu vittima di questa guerra. Il brigantaggio era una lotta di popolo che riscosse il consenso e l’appoggio delle popolazioni rurali, un consenso che le autorità definivano come “manutengolismo” o brigantaggio urbano. In un rapporto del 65° reggimento di fanteria, ancora nel 1865, rilevava che: “Il numero di questi [manutengoli] ascende ai due terzi della popolazione”

Dove vanno ricercate le vere cause della questione meridionale?
Questa è una domanda che meriterebbe studi approfonditi, ma conviene ora tentare di dare una risposta necessariamente non esaustiva di tale argomento e riferirla al periodo storico del brigantaggio. Innanzitutto, bisogna rilevare il grande “bagno di sangue” che la guerra del brigantaggio e la repressione dell’esercito italiano causarono alle popolazioni meridionali. Si può affermare, con assoluta certezza, che dieci anni di dispotismo militare, operante nel disprezzo delle garanzie statuarie, mieté più vittime di quante ne avessero fatte l’assolutismo borbonico nella storia del Regno delle Due Sicilie o le guerre d’indipendenza del Risorgimento. Ma le conseguenze di tali processi andarono ben oltre il semplice conteggio delle vittime. Il governo fu sempre accomodante con la ricca borghesia meridionale, mentre agì in maniera rigorosa contro la povera gente vilipesa ed oppressa, instaurando un sistema che di fatto ignorava la giustizia sociale.
Lo Stato unitario, quindi, ebbe, agli occhi dei cafoni meridionali, sempre il volto di un detestabile regime di classe, del regime dei galantuomini. Nei primi anni di unità, le azioni terroristiche del governo alimentarono una certa sfiducia nei confronti dello Stato e tale sfiducia delle classi subalterne del Mezzogiorno trovò in seguito nuova linfa in altri episodi della storia patria.

Nel libro dimostro che anche le proteste pacifiche, come le occupazioni delle terre da parte dei contadini, vennero represse nel sangue. Nelle masse contadine, al sentimento di rabbia e ribellione verso lo Stato si sostituì quello della rassegnazione, vissuta come l’unico espediente per la sopravvi­venza. Il brigante Carmine Crocco, dal carcere dove da lunghi anni era detenuto, scrisse: “Mi trovo schiavo, sotto il peso della catena, oppresso della miseria, derelitto dagli obbrobrii, Vecchio ed infermi, non istruiti, e pure se potessi parlare, a mio bellaggio, resterei ai posteri un’istoria, che gioverebbe ai figli della miseria, se non tutto almeno in parte, onde essere cauti. Nelle calamità dei tempi, accorrere pressi gli fautori per poi avere forca e catene… Imperocche chi è nato povere stia pure nella sua povertà, e vedrete che sarai felice più del ricco, chi governo lascia che faccia come gli pare…”. Tale consapevolezza si sedimentò a livello culturale, quasi come storia condivisa di tutti i contadini, e contribuì a determinare quella mancanza di senso civico nelle popolazioni meridionali a tutti nota. Per chi rinunciava a rassegnarsi alla propria miserevole condizione, a quell’ordine sociale immobile, non rimaneva altra strada che quella dell’emigrazione. Tuttora, l’emigrazione rappresenta il migliore antidoto alle tensioni sociali, il più grande ostacolo ad ogni cambiamento, la ragione che impoverisce ulteriormente il substrato sociale e culturale delle regioni meridionali.
I dieci anni di dispotismo militare ipotecarono lo sviluppo dell’opinione pubblica nel Mezzogiorno, immiserendo anche i termini del dibattito politico.
Riguardo al presente, la questione meridionale, oltre alle cause a tutti ben note, a mio parere va ricercata soprattutto nella mancanza di consapevolezza di noi stessi meridionali e nelle colpevoli omissioni della classe intellettuale del nostro Paese.

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