
Tra l’altro, credo sia improprio parlare di “sentimenti di robot”. Un robot può possedere sentimenti solo nella misura in cui qualcuno, nell’osservare l’apparire e l’azione del robot, è portato spontaneamente a intravederne dei sentimenti. Un esempio per tutti: il tamagotchi. Il piccolo gadget portatile non possedeva certo sentimenti. Si trattava di un oggetto dalla tecnologia rudimentale con una grafica stilizzata e un’interfaccia ridotta all’osso. Eppure era in grado di “spremere” sentimenti di protezione da parte del suo utilizzatore. Si creava un certo grado di empatica. Si trattava perciò di sentimenti artificiali, che vivevano solo nella mente dell’utente. Esso, pur essendo pienamente consapevole che si trattava di un oggetto di silicio, privo di anima, era indotto a “sentire” una presenza quasi umana dietro quel piccolo display.
A che stadio di avanzamento è l’intelligenza artificiale?
Difficile a dirsi. Il motivo risiede nelle definizioni e nei fraintendimenti. Quando si parla di intelligenza artificiale, subito la mente del lettore va a suggestioni fantascientifiche quali quelle prodotte da film famosi: Blade Runner, A.I., Ex Machina, ecc. E’ come se fosse stato deciso il traguardo dell’intelligenza artificiale: realizzare un cervello artificiale del tutto simile a quello umano. Ammesso che questo conduca a un’intelligenza suprema, ciò non toglie che, come visto in precedenza, esistano altre forme di intelligenza “settoriali” e, almeno nella pratica, molto più utili che non avere un cervello artificiale che pensi, provi sentimenti e smani come uno biologico.
Il desiderio di proiettare le aspettative degli scienziati al futuro non è cosa nuova. C’è un impegno costante e che fa parte di ogni epoca – in questo sono responsabili in prima persona i divulgatori scientifici – nel prendere pretesto da un qualunque piccolo, grande traguardo dell’intelligenza artificiale e nell’annunciare che, presto, tempo una ventina d’anni, gli scienziati avranno capacità creative (realizzare un uomo artificiale nelle apparenze e nelle capacità cognitive indistinguibili dall’uomo) che per il momento sono appannaggio esclusivo di Dio o dell’evoluzione Darwiniana (scelga quale il lettore in funzione del suo credo).
A tal riguardo basta osservare le immagini dei robot umanoidi degli anni sessanta, come l’MM6 del 1958 o l’MM7 del 1961, i quali facevano bella mostra di sé a fianco di modelle sorridenti. Immagini che ora vengono riproposte con i robot umanoidi moderni, come ASIMO o Topio, ancora troppo, troppo, lontani dall’uomo.
Questo tipo di divulgazione sminuisce i molti passi in avanti che l’intelligenza artificiale sta muovendo.
Tanto per citarne uno, recentemente Google ha rilasciato un nuovo traduttore (non ancora operativo per quanto riguarda le traduzioni italiano-inglese), basato su tecniche di deep neural network, i cui risultati stanno facendo tremare i traduttori professionisti.
In che modo la nostra mente si modifica nell’interazione con una macchina?
Questa è una domanda chiave. Per due motivi. Il primo ha a che fare con la portata del fenomeno. Le macchine stanno aumentando di numero in maniera esponenziale. Nel 2008 il numero dei personal device ha superato il numero di abitanti sulla terra. Presto ogni utente avrà talmente tanti sensori e unità intelligenti portatili a disposizione che parlare di cyborg non è esagerato.
Il secondo motivo ha a che fare con l’inconsapevolezza. Ogni volta che utilizziamo una macchina il nostro cervello si modifica attraverso fenomeni di neuroplasticità. Noi ci abituiamo alle macchine, o attraverso training intensivi oppure in maniera spontanea, ma non ce ne rendiamo conto.
Faccio un esempio molto concreto per spiegare come la nostra mente si sia già modificata. La possibilità di accedere facilmente alle informazioni (attraverso i motori di ricerca) ha fatto sì che non ci preoccupiamo di ricordare nozioni precise. Sappiamo però dove reperirle. Io non ricordo più gli autori dell’articolo che presentava il concetto che ho appena descritto, ma so che con un motore di ricerca, inserendo le parole chiavi significative, in un paio di passaggi, riuscirei a recuperare titolo nomi degli autori. È come se nella nostra mente avessimo dei cassetti e non dei contenuti. Ci ricordiamo dove stanno le cose, ma non le cose stesse.
Nel Suo libro Lei scrive del potere della realtà virtuale
La realtà virtuale è un termine moderno, il quale fa spesso riferimento a delle tecnologie (ad esempio, l’Head Mounted Display per immergersi in mondi virtuali). In realtà la tendenza a virtualizzare, cioè a creare scenari o meccanismi virtuali che simulino altri aspetti tipici dell’uomo è sempre stata presente nella storia dell’uomo.
Gli istinti dell’uomo sono stati forgiati dall’evoluzione in un passato profondo. Ora le condizioni ambientali sono cambiate. Tuttavia gli istinti sono rimasti quelli di centomila anni fa. In parte vengono sfogati attraverso la virtualizzazione. Molti aspetti della società moderna non sono altro che virtualizzazioni di situazioni preistoriche.
Quello che prima era un predatore da sconfiggere, adesso è un’azienda concorrente da affossare. Il mercato è un campo di battaglia. Non tutto quel che è prodotto dalla tecnologia risponde alle necessità dell’umanità, bensì serve per alimentare il gioco della competitività.
Anche l’accumulo esasperato di risorse attraverso le regole del mercato è una virtualizzazione di una necessità del passato. Per non morire di fame nel Paleolitico, l’homo erectus, scoperta una risorsa alimentare, non poteva permettersi di accontentarsi aspettando che nuove risorse gli piovessero dall’alto. Doveva cercare subito altre risorse. Questo perché ciò che derivava dalla natura era raro. Andava accumulato perché prima o poi si sarebbe esaurito. Questo è il motivo per cui gli imprenditori continuano ad accumulare senza tregua. Non hanno esigenze reali da soddisfare, hanno bisogni virtuali da sfamare. Viviamo in un mondo che è completamente virtualizzato, già ora. Bene o male che sia, questa è la nostra realtà di specie umana. È il modo in cui perseguiamo la felicità edonistica senza raggiungerla.
Rimanendo nel settore dell’economia, come ho avuto modo di spiegare diffusamente nel saggio, anche il sistema finanziario è una forma di virtualizzazione. In quel caso, la virtualizzazione è ricorsiva. Il sistema finanziario è infatti la virtualizzazione del mercato produttivo, a sua volta virtualizzazione dei conflitti ancestrali per la sopravvivenza di specie.
Sempre nel Suo testo, Lei sostiene che ci stiamo dirigendo verso la “fossilizzazione cognitiva”: cosa significa?
Rispondo con un esempio. La maggior parte dei miei studenti non è in grado di eseguire conti a mente. A onestà del vero, il fenomeno riguarda anche me. Il motivo è che l’uso della calcolatrice elimina l’”allenamento” legato alla capacità cognitiva che permette di eseguire calcoli a mente. A causa della neuroplasticizzazione, se una facoltà del cervello non viene stimolata, essa si atrofizza. Molte delle macchine che utilizziamo fossilizzano la funzione cognitiva che, in precedenza era assolta dalla mente. Tra queste si può annoverare il navigatore satellitare, il cui utilizzo intensivo, tende a fossilizzare quella che viene definita “intelligenza spaziale”.