
Le tragedie e le commedie, i romanzi e i trattati morali, le corrispondenze e la pittura, l’arte in genere del XVIII secolo, accordano all’amore una parte fondamentale nell’elaborazione della felicità.
In tutte le espressioni artistiche e intellettuali dell’età dei lumi, l’amore è rappresentato come quel sentimento che riempie di sé e si impossessa di tutte le facoltà dell’animo, la mente e il cuore, l’immaginazione e la memoria.
L’amore settecentesco (ha osservato giustamente Stéphanie Loubère nel suo bel libro L’art d’aimer au siècle des Lumières [2007]) sembra proporsi continuamente come un oggetto affascinante, “perché mobilita le forze e le debolezze dell’uomo, e chiama in causa le questioni cruciali del potere, della libertà, della felicità”: le questioni, cioè, del senso della condizione umana.
L’entusiasmo che tale sentimento attiva, l’arte o la scienza con cui lo si intende trattare, il desiderio che suscita nel tentativo di metterlo in sistema, di codificarne il piacere e di scoprirne una logica, tuttavia non mostrano mai accenti del tutto puri. Le giustificazioni dell’amore, in nome della felicità, dissimulano spesso un segreto disincanto.
Pur ritenuto da alcuni autori come “la plus importante et la plus sérieuse affaire de la vie” (Prévost, Boudier de Villemert, Rousseau), l’amore viene considerato non tanto “un sommo bene” quanto una sorta di “filtro magico”, tramite il quale si dimenticano tutti i mali.
Come ha ben messo in rilievo Robert Mauzi nel suo magistrale studio sul bonheur del XVIII secolo, l’esaltazione dell’amore si profila però quasi sempre su un fondo di disperazione, perché “le chimere dell’amore” non tardano, sotto l’azione di un tempo che “de-assolutizza ogni cosa”, a mostrare il risvolto amaro della gioia, il suo ineliminabile fondo dolente.
Quale concezione del sentimento amoroso emerge quindi dall’analisi delle opere di quel periodo?
Il Settecento francese, non è il secolo di una tipologia d’amore, ma quello della ricerca dell’amore. Gli autori di questo tempo sanno, con La Rochefoucauld, che difficile (malaisé) è definire l’amore, il quale è paragonabile a un viaggio che apre all’ignoto, all’erramento, alla possibilità di giungere alla meta o di perderla durante la via.
Più propensi a rappresentare le ‘vicissitudini dell’amore’ che a rinchiuderlo in uno spazio definitorio che privilegia l’enquête a scapito della quête, gli autori illuministi sono interessati a raffigurare la duplicità (a volte la doppiezza) dell’esperienza amorosa.
Nel 1723, Voltaire rappresenterà architettonicamente l’ambivalenza dell’amore con la descrizione del Temple de l’Amour, “un vieux Palais respecté par les temps”.
Con la sua allegoria, l’autore di Candide intende ricordare come l’amore sia, all’inizio (egli dice: alla “aimable entrée”), passione inebriante, per rivelarsi invece, in seguito (“quando s’avanza sotto la volta sacra”), fonte di disgusto e di rimpianto.
L’idea della complessità dell’amore, che segna i romanzi di Prévost (Manon Lescaut e Cleveland) e di Rousseau (La Nouvelle Héloïse), è presente (in una sua particolare trascrizione) anche in Choderlos Laclos.
È vero, con l’autore de Les liaisons dangereuses, l’amore diventa opera di seduzione, gioco della distanza, calcolo, premeditazione, depistaggio, mascheramento, mimetismo, crudeltà. Eppure, in fondo a questo lato oscuro dell’amore, dimora (come una seducente tentazione) ‘le véritable amour’ descritto da Rousseau, e che Laclos raffigura in Madame de Tourvel e lascia intravedere, come in un bagliore, anche nell’animo libertino di Valmont (sarà questa l’accusa mossa al visconte dalla marchesa di Merteuil nella lettera CXLV).
Il fine del mio libro è rivolto fondamentalmente a dar conto (con sistematica a-sistematicità e con coerente frammentarietà) della contraddittorietà interna all’idea dell’amore settecentesco, mostrando, per un verso, la sua misteriosa e pure consapevole molteplicità morfologica e descrivendo, per l’altro, i ribaltamenti e i tormenti di un sentimento i cui ingannevoli piaceri offrono istanti che sembrano elevare l’io al di sopra dell’umanità, per immergerlo, subito dopo e improvvisamente, negli abissi dei mali e delle inquietudini.
In che modo la riflessione sull’amore si riverbera su un periodo denso di conquiste civili e intellettuali?
Nella morfologia dell’amore settecentesco – così come nello studio del bonheur nel XVIII secolo – è possibile intravedere la parte in ombra, il sottofondo oscuro, di quel “periodo denso di conquiste civili e intellettuali” che è l’Illuminismo francese. Il quale non è l’epoca in cui brilla solo la luce rischiaratrice del flambeau della ragione, ma anche quel lume funesto della torche che si configura come l’emblema del fanatismo irragionevole.
Lo segnala Voltaire alla fine del suo splendido ‘saggio del dubbio’ che è Le philosophe ignorant (1766), là dove afferma che l’età dei lumi non è il mezzogiorno della ragione, bensì la sua “aurore”, un crepuscolo, quindi, (quello del mattino) che accoglie e tiene insieme, in una compresente e scambievole tensione, notte e giorno, ombra e luce.
Per il ‘philosophe par excellence’ (che nella sua corrispondenza invitava a extirper e a écraser l’infâme), il tempo in cui vive si muove “entre deux pôles” (Robert Mauzi) e mette tutto in opera “simultanément”, ragione e sensibilità, immaginazione e senso, piacere e noia, movimento e riposo, attesa e delusione, speranza e angoscia, bonheur e malheur.
L’amore settecentesco – unico nella sua duplicità, trasparente nella sua ambiguità, semplice nella sua complessità – si pone lungo tutto il secolo XVIII come il riflesso ‘impuramente puro’ di un’epoca in cui evidenti appaiono, nella loro con-temporaneità e nella loro unità contrastante, l’ossessione dell’ombra e la nostalgia della luce.