
Il narratore è Hans, e il romanzo si apre con l’entrata in scena di Konradin, che compare come una visione davanti ai compagni. “Fissavo lo strano ragazzo, che aveva esattamente la mia età, come se fosse giunto da un altro mondo”, spiega Hans. “Non dipendeva dal fatto che fosse conte. Nella mia classe c’erano parecchi von, ma nessuno di loro pareva diverso dal resto della scolaresca, composta da figli di commercianti, di banchieri, di pastori, di sarti o di funzionari delle ferrovie. […] Tutto in lui risvegliava la mia curiosità: la cura con cui sceglieva la matita, la posizione in cui stava seduto – tanto eretto da far pensare che fosse sul punto di alzarsi per impartire un ordine a un esercito invisibile -, la mano che passava sui capelli biondi.”
Nonostante il nuovo venuto ispiri a Hans un misto di curiosità e soggezione, tanto che in un primo momento gli sembra impossibile anche solo riuscire a rivolgergli la parola, egli capisce che il nuovo venuto è destinato a diventare suo amico e si ingegna per trovare la maniera di conquistarlo: “Cosa dovevo fare per conquistarlo, chiuso com’era dietro le barriere della tradizione, dell’orgoglio naturale e dell’altezzosità acquisita? Senza contare che sembrava perfettamente soddisfatto di starsene da solo e di non mescolarsi agli altri, che frequentava solo perché vi era costretto.”
Finalmente Hans, grazie ad alcune monete antiche, riesce a risvegliare l’interesse di Konradin nei suoi confronti; due diventano ben presto amici inseparabili, vanno e vengono a scuola insieme e si frequentano in ogni momento libero.
Ma sono gli anni della crescita del partito nazista, e la Germania in cui si trovano a vivere i due ragazzi sta profondamente cambiando. In un primo momento sembra che questi avvenimenti siano lontani dalle loro vite, e che non possano turbarle. “Dall’esterno del nostro cerchio magico provenivano voci di sovvertimenti politici, ma l’occhio del tifone era lontano: a Berlino, dove, a quanto si diceva, si erano verificati scontri tra nazisti e comunisti. Stoccarda continuava ad essere la città tranquilla e ragionevole di sempre. Per la verità, anche lì avvenivano di tanto in tanto degli incidenti, ma non erano che episodi di poco conto. Sui muri erano comparse delle svastiche, un ebreo era stato molestato, alcuni comunisti percossi, ma in generale la vita proseguiva come al solito.” La politica sembrava una cosa distante, che doveva riguardare solo gli adulti, e anche la religione non sembrava avere alcun peso nella quotidianità, nemmeno in quella di Hans, che pure apparteneva a una famiglia di tradizione ebraica. “Certo, non potevamo negare che eravamo di “origine ebraica”, né ci interessava farlo. […] Ma questo nostro essere di “origine ebraica” non aveva altre implicazioni oltre al fatto che una volta all’anno, e precisamente il giorno del Yom Kippur, mia madre andava alla sinagoga e mio padre si asteneva dal fumo e dai viaggi, non perché fosse un credente convinto, ma perché non voleva urtare i sentimenti altrui.” Il padre anzi non teme il nazismo, convinto che non sia altro che “una malattia passeggera, come il morbillo” e che la Germania, nella quale la sua famiglia ha sempre vissuto e alla cui crescita economica ha contribuito, si mostrerà immune dalle “sciocchezze” propinate da Hitler.
Mano a mano che il racconto procede, diventa però sempre più evidente che i due amici non potranno rimanere per sempre immuni da quanto sta accadendo intorno a loro.
Il primo episodio che viene a intaccare la loro spensieratezza è l’incendio di una casa di conoscenti, in cui muore tutta la famiglia comprendente anche tre bambini piccoli. La tragedia porta i due ragazzi a confrontarsi sull’esistenza di un Dio onnipotente e benevolo. Mentre Hans finisce per discostarsi dalla religione e dubitare dell’esistenza di Dio, Konradin, di fede protestante, accetta le spiegazioni del proprio pastore sulla necessità del male affinché possa esserci il bene.
Nonostante queste divergenze, i due continuano a frequentarsi e anzi la loro amicizia si fa ancora più coinvolgente quando iniziano a frequentare l’uno la casa dell’altro. In un primo momento è Hans ad invitare Konradin nella sua casa, elegante ma borghese. Poi finalmente anche l’aristocratico ragazzino invita l’amico nella “roccaforte degli Hohenfels”. Benché l’invito si ripeta più volte, in nessuna delle occasioni Hans riesce ad incontrare i genitori dell’amico e capisce quindi che Konradin ha tenuto nascosta la loro amicizia, sospetto confermato dal fatto che, quando si incontrano per caso una sera a teatro, Konradin finge di non aver visto l’amico.
Una volta ritrovatisi, Konradin spiega all’amico il motivo di quel suo comportamento “Mia madre appartiene a un’importante famiglia polacca di origine reale e odia gli ebrei. Per secoli e secoli la gente come lei ha ritenuto gli ebrei indegni di qualsiasi considerazione, inferiori ai servi, la feccia della terra, una razza di intoccabili, insomma. E mia madre non solo detesta gli ebrei, ma li teme, anche se non ne ha mai conosciuto uno. Se stesse per morire e non ci fosse nessuno, tranne tuo padre, in grado di salvarla, dubito che si deciderebbe a chiamarlo. Vedi, Hans, mia madre non accetterà mai l’idea di conoscerti.”
I cambiamenti a cui la Germania va incontro si susseguono sempre più rapidi, fino a che, di ritorno dalle vacanze estive, Hans scopre che “per la prima volta dopo la guerra mondiale, la dura realtà era penetrata all’interno del liceo Karl Alexander.” La violenza e la discriminazione sono entrate di prepotenza a far parte della vita dei ragazzi, Hans viene insultato e deriso in quanto ebreo dai compagni di classe e lo stesso Konradin finisce per ignorarlo. “Ormai ero solo. Nessuno mi rivolgeva più la parola. […] Persino i vecchi professori parevano essersi dimenticati di me. […] Il lungo e crudele processo che mi avrebbe portato a perdere le mie radici era iniziato e già le luci che avevano guidato il mio cammino si stavano affievolendo.”
Hans è costretto a lasciare la Germania e viene mandato dai genitori a studiare negli Stati Uniti. Nel salutarlo, Konradin gli consegna una lettera in cui gli augura buona fortuna, ma sottolinea come sia sempre più convinto che Hitler sia la scelta giusta, anzi, l’unica possibile per traghettare la Germania nel mondo moderno al riparo dai rischi del comunismo.
Il romanzo si chiude 30 anni dopo le vicende narrate. Hans, ormai adulto, ha avuto una vita di successo, ma i suoi genitori sono morti in Germania per le persecuzioni naziste e lui non ha mai voluto né dimenticare né perdonare: “Le mie ferite non si sono ancora rimarginate e, ogni volta che ripenso alla Germania, è come se venissero sfregate con il sale”. Cerca di non pensare al passato, fino a che non riceve, dal suo vecchio Liceo, una lettera commemorativa di tutti gli ex- studenti caduti durante la guerra. E viene così a scoprire in che circostanze è morto Konradin, il suo inseparabile amico di allora.
Il romanzo di Uhlman, che affronta uno dei periodi più terribili del XX secolo, avrebbe potuto facilmente cadere nei sentimentalismi, ma ciò non accade mai. In modo semplice ma deciso Uhlman accompagna il lettore attraverso le vicende drammatiche di quegli anni viste attraverso la lente dell’amicizia tra due ragazzi, amicizia che deve necessariamente fare i conti con i cambiamenti sociali e politici. Nonostante la storia sia necessariamente tragica, il finale lascia però uno spiraglio di speranza.
Silvia Maina