“L’altra Turchia. Storia di un Paese che resiste a Erdoğan” di Massimo D’Angelo

Dott. Massimo D’Angelo, Lei è autore del libro L’altra Turchia. Storia di un Paese che resiste a Erdoğan, edito da Spring. Lei ha vissuto in maniera continuativa a Istanbul dal 2013 al 2015, per poi tornarvi numerose volte: che cambiamento ha vissuto la città di Istanbul e, con essa, la Turchia tutta?
L'altra Turchia. Storia di un Paese che resiste a Erdoğan, Massimo D'AngeloSono arrivato a Istanbul la prima volta nell’estate del 2013, nel pieno delle proteste che sono passate poi alla storia come Gezi Park. Credo che arrivare in quel preciso momento storico abbia contribuito molto a farmi innamorare della città e del Paese. Mi ha colpito soprattutto la straordinaria coscienza civica, politica e sociale dei turchi e delle turche. In Italia, i movimenti giovanili di protesta popolare sono riapparsi più tardi, come ad esempio quello dei Friday for futures, ma in quegli anni la mia generazione italiana appariva senza dubbio più assuefatta allo status quo. In Turchia invece, le generazioni più giovani e le élite più cosmopolite contestavano apertamente un regime considerato paternalistico e autoritaristico. Per mesi sono scesi in piazza e si sono presi manganellate e lacrimogeni. Dall’altra parte, per la prima volta il governo guidato da Erdoğan si è sentito minacciato e la repressione è stata durissima. Secondo molti il 2013 è stato l’anno della vera svolta autoritaria del Paese. Da quel momento in poi, è accaduto di tutto: un tentativo di colpo di stato, la repressione spropositata del governo, la guerra in Siria, una crisi economica durissima e infine, il terribile terremoto del febbraio 2023. Ciò che mi colpisce, è che la società civile turca è sicuramente fiaccata – le grandi manifestazioni di protesta non si vedono più – ma ancora attiva. Questo è quello che ho provato a raccontare nel libro “L’altra Turchia”: nonostante il regime abbia stretto sempre più la morsa sulla società civile turca, il Paese presenta ancora numerosissime esperienze civiche, all’interno delle quali la gente non ha paura di esprimere liberamente il proprio pensiero. La tentazione, dopo l’ennesima vittoria elettorale di Erdoğan, potrebbe essere quella di abbandonare quella gente. Io penso che sarebbe un errore e dobbiamo continuare a dare loro tutto il nostro supporto e visibilità.

Che tipo di regime è quello di Recep Tayyip Erdoğan?
La definizione che più mi piace è quella di autoritarismo competitivo. Il regime è autoritario ma, almeno sulla carta, le opposizioni hanno possibilità di vincere. È quello che è accaduto durante le elezioni municipali di Istanbul nel 2019, quando per la prima volta il partito di Erdoğan ha perso la guida della più grande città del Paese, con una popolazione di 17 milioni di abitanti, più dell’intera Austria. Inoltre, sbaglia chi crede che il presidente vinca le elezioni grazie ai brogli: Erdoğan vince le elezioni perché ha un grande consenso nel Paese. La sera delle elezioni ero a Istanbul e la città era invasa dai caroselli di auto che sfilavano per festeggiare la vittoria del proprio leader. Anche durante questa campagna elettorale, i suoi comizi raccoglievano folle oceaniche che in Europa nemmeno immaginiamo. Allo stesso tempo, la competizione non può dirsi pienamente corretta: i media sono totalmente controllati dal partito di governo. I giudici sono fortemente influenzati dall’esecutivo. Quest’ultimo, inoltre, procede spesso a una distribuzione sfacciata di mance elettorali e a ridosso delle elezioni, e questo è quello che è accaduto anche questa volta. Un esempio curioso: la sera dello spoglio del primo turno guardavo il canale della televisione nazionale turca in lingua inglese: mentre il candidato dell’opposizione – che aveva ottenuto circa il 45 percento dei voti – teneva il suo discorso ufficiale, il canale in lingua inglese all-news TRT aveva deciso di trasmettere un’intervista a una ricercatrice italiana piuttosto vicina al regime! Il Paese è profondamente polarizzato tra conservatori religiosi e laici che guardano all’Europa e all’occidente come proprio punto di riferimento. Le due società difficilmente dialogano, anzi direi che si odiano. Recentemente è uscita una bella serie tv che si chiama Ethos, nella quale questa divisione della società è descritta in maniera eccellente. L’attuale opposizione è stata al governo per decenni in passato, e purtroppo le pratiche messe in atto nei confronti dei “pii religiosi” non erano affatto diverse da ciò che Erdoğan oggi fa con gli attuali gruppi di opposizione.

Nel libro Lei evidenzia che esiste un grande popolo, spesso poco conosciuto, fatto di gente che resiste al regime autoritario di Erdoğan: che forme assume la loro ribellione?
Questa è la cosa che più mi ha sorpreso, sia da ricercatore, sia da semplice abitante della città di Istanbul. L’immagine che qualcuno potrebbe avere è quella per cui, in un regime autoritario seppur competitivo, gli spazi per il dissenso siano inesistenti. Non è affatto così, e la città di Istanbul ne è la dimostrazione. Nonostante gli arresti di massa perpetrati negli anni nei confronti di molte categorie, primi fra tutti giornalisti e accademici, la gente non ha paura di scendere in piazza o di esprimere liberamente il proprio pensiero. Le ONG sono sempre pronte a denunciare i soprusi del governo. Le proteste al regime paternalistico e autoritario assumono le forme più varie: certo, esistono ancora le classiche manifestazioni di piazza, come quelle che ogni anno si svolgono il primo maggio o il 25 novembre, ma ci sono anche forme diverse per contestare il potere politico: penso ai contest di drag queen che racconto nel libro, oppure alle proteste silenziose degli studenti dell’Università del Bosforo. Il Paese è inoltre pieno di movimenti civili, di artisti che con la loro arte cercano di resistere al modello che il governo vuole imporre sulla società intera.

L’altro aspetto interessante è notare come i tanti gruppi e le organizzazioni che ho incontrato negli anni, sono fatti da ragazzi e ragazze meno legati alle esperienze spesso opprimenti del regime kemalista e allo stesso tempo intolleranti nei confronti del bigottismo di Erdoğan: il loro lavoro è alla ricerca di una pacificazione tra le diverse culture del Paese. La Repubblica di Turchia è erede dell’Impero Ottomano, e per definizione gli imperi sono formati da tante etnie, nazionalità, credi e culture. Una nuova generazione meno legata al passato potrebbe fare proprio un modello multiculturale vincente.

Lei ha vissuto in prima persona gli anni tumultuosi di Gezi Park: che eredità ha lasciato la rivolta spontanea dei ragazzi e delle ragazze di Istanbul?
Negli scontri di Gezi Park del 2013 tra alcuni pezzi della società civile e il governo, il vincitore è stato certamente Recep Tayyip Erdoğan. A mio avviso, Gezi Park e il tentativo di colpo di stato del 2016 sono stati i due episodi che hanno spaventato sul serio Erdoğan, tanto da fargli temere prima per la perdita del proprio potere politico, e poi per la sua stessa vita. Chi pensa che Erdoğan si sia orchestrato il golpe da solo, sbaglia. Infatti, la reazione del governo sia a Gezi Park sia al golpe è stata esageratamente brutale: arresti, repressione violenta, addirittura omicidi da parte della polizia. Purtroppo, se è vero che chi è rimasto è ancora pronto a esprimere liberamente il proprio pensiero, tanti altri hanno abbandonato il Paese. La Turchia ha perso gran parte della classe dirigente più progressista che è scappata all’estero. Conosco ahimè molte persone persone, in particolare giornalisti e ricercatori universitari, che se ne sono dovute andare e che sanno che rischierebbero il carcere qualora dovessero tornare. Attualmente vivo in Regno Unito, dove è pieno di accademici che un tempo lavoravano in prestigiose università turche che hanno preferito auto esiliarsi. Lo stesso accade negli Stati Uniti. Tanti altri giovani, di altre professioni, hanno semplicemente abbandonato la Turchia perché stanchi di vivere in un regime tanto opprimente.

Quale futuro, a Suo avviso, per il Paese anatolico?
La Turchia, e con essa la città di Istanbul, resta un Paese con una storia, una cultura e una vitalità uniche. I turisti che ogni anno si recano a visitare quei luoghi ne rimangono sempre affascinati. Inoltre, i fatti politici turchi potrebbero in qualche misura scoraggiare i turisti italiani a visitare la penisola. In realtà il Paese è estremamente sicuro per i turisti, almeno nella sua zona nordoccidentale. Certo, attualmente non sta vivendo una buona fase economica, ma il tessuto sociale e culturale rimane estremamente dinamico. Questo era anche il senso del mio libro: rappresentare un Paese diverso da quello della sua classe dirigente e per questo meno noto.

Due sono le considerazioni principali che farei: la prima, mi auguro che un dialogo serio e onesto con l’Unione Europea possa riprendere al più presto. Abbiamo notato come su numerosissimi fronti i due attori abbiano bisogno l’uno dell’altro per rispondere alle difficoltà comuni, dalla guerra in Ucraina, alla pandemia o la crisi dei rifugiati. All’inizio degli anni 2000 si era intrapreso un discorso interessante che, purtroppo per colpa di entrambi, si è bruscamente interrotto. C’è una larga fetta del paese che guarda a noi e che sarebbe un vero errore continuare ad alienarsi.

Dall’altra parte, spero che in Turchia ci possa essere presto un cambio generazionale in termini di leadership politica. Erdoğan appare molto affaticato e, con ogni probabilità, questi saranno i suoi ultimi cinque anni al potere. Tuttavia, la sua recente vittoria è anche il risultato di una altrettanto stanca e affaticata opposizione. Il candidato d’opposizione Kemal Kılıçdaroğlu aveva 74 anni, era leader del partito da dodici anni e con lui i repubblicani avevano perso ogni competizione. Inoltre, appariva ancora troppo compromesso con l’opprimente tradizione kemalista. Una nuova generazione politica si è affacciata sulla scena, penso ad esempio al sindaco d’Istanbul, ma fatica a scippare il potere alla vecchia guardia. Il mio augurio è che questa nuova classe politica arrivi al più presto, e che si dimostri capace di allentare le tensioni tra le due anime – quella laica e quella religiosa – che troppo a lungo si sono combattute.

Infine, e questo davvero voleva essere lo scopo del libro, mi auguro che l’interesse verso un Paese tanto importante per noi mediterranei ed europei possa crescere. Come ha dichiarato presentando il mio libro il direttore della collana Michele Giorgio, scoprire altre culture rimane lo strumento più importante per appianare differenze e divergenze. Spero di aver dato il mio piccolissimo contributo con questo libro e che tutte le persone curiose di Turchia possano appassionarsi.

Massimo D’Angelo è ricercatore di relazioni internazionali presso il campus di Londra dell’Università di Loughborough. Studioso di relazioni internazionali e storia europea, è esperto di Turchia, paese nel quale ha vissuto, alternando periodi di ricerca presso le università Koç, Sabancı e Yıldız.

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