“L’alienazione sociale oggi” di Eleonora Piromalli

Prof.ssa Eleonora Piromalli, Lei è autrice del libro L’alienazione sociale oggi. Una prospettiva teorico-critica, edito da Carocci: innanzitutto, perché tornare a parlare di alienazione?
L'alienazione sociale oggi, Eleonora PiromalliLa convinzione che guida il libro è che l’idea di alienazione può ancora essere assai utile per fare luce su forme di malessere e disagio sociale che oggi sono tutt’altro che scomparse: l’alienazione, nella sua definizione più generale, indica infatti l’essere o il sentirsi estranei rispetto a propri vissuti, desideri o azioni, sul piano individuale o collettivo. Le forme di malessere sociale a cui mi riferisco trovano come denominatore comune il sentirsi estranei alla propria vita; non creatori attivi di essa, bensì dominati e sopraffatti da forze estranee, difficili anche solo da individuare e da localizzare con precisione. Tutti noi, almeno una volta, abbiamo esperito un simile vissuto: ad esempio il sentirci costretti − anche se paradossalmente siamo proprio “noi” ad agire − a indossare maschere per rispondere ad aspettative sociali che sentiamo assai distanti da noi; o il temere gli effetti di processi politico-economici, nonché di sconsiderato sfruttamento dell’ambiente naturale, che ci riguardano profondamente ma sui quali non abbiamo voce − e, anzi, sembra che nessuno l’abbia, poiché i corsi d’azione che vengono intrapresi a riguardo nella sfera politica sono presentati come necessari e obbligati. Sono convinta che il concetto di alienazione, se adeguatamente aggiornato, possa ancora essere utile per demistificare rapporti sociali e di potere che appaiono, o che vengono presentati, come necessari e naturali, e che sono invece modificabili e trasformabili. L’alienazione sociale è infatti, sul piano politico, economico e delle forme di vita quotidiane, una potente alleata della riproduzione delle ineguaglianze sociali e di potere, che vengono assunte (e pressoché giustificate) come necessarie e immutabili.

Naturalmente, date le nuove sfide sociali di oggi, nonché la storia dell’idea di alienazione e le obiezioni che a essa sono state rivolte nel tempo, tale concetto va opportunamente aggiornato, delimitato e chiarito nelle sue implicazioni e nei suoi rapporti con altre categorie del pensiero politico, affinché possa ancora essere un valido strumento di diagnosi e critica sociale; questo è uno degli obiettivi che mi propongo in L’alienazione sociale oggi. Non sono, del resto, la sola ad aver recentemente intrapreso la strada di una ripresa e riattualizzazione di questo storico concetto della filosofia politica e della critica sociale: negli ultimi anni abbiamo assistito a proficui tentativi di ripresa e riattualizzazione di questa categoria, in particolare da parte di Rahel Jaeggi, con l’opera Alienazione, e di Hartmut Rosa, con le sue molte pubblicazioni sul rapporto tra accelerazione, alienazione e risonanza. Queste riattualizzazioni mostrano un’ottima consapevolezza delle difficoltà concettuali, di coerenza interna e di delimitazione della categoria, e costituiscono pertanto un buon punto di partenza per ulteriori elaborazioni originali. Al contempo, esse lasciano intravedere nodi ancora da sciogliere e strade ancora da percorrere, costituendo così uno dei punti di partenza del mio volume. Nel libro ripercorro dunque la storia del concetto di alienazione, le sue difficoltà interne e le obiezioni che gli sono state rivolte, per cercare, a partire da questo, di pervenire a un modello di alienazione sociale che, senza disperdere l’eredità del passato, possa misurarsi con le sfide attuali. Dopo aver quindi aver trattato, nella prima parte del volume, la categoria di alienazione dal punto di vista teorico e aver proposto un modello riattualizzato di alienazione sociale, nella seconda parte metto tale modello alla prova della realtà contemporanea: ossia lo applico all’identificazione e alla critica di concrete forme di alienazione sociale inerenti a fenomeni come il turbocapitalismo, la distruzione dell’ambiente naturale, l’oligarchizzazione della rappresentanza democratica, nonché a nuove e vecchie forme di discriminazione, pregiudizio e fanatismo.

Quando è nata e come si è evoluta la categoria di alienazione?
L’idea di alienazione ha una storia antica e complessa; potremmo dire anche tormentata, e perciò assai interessante. Essa nasce come categoria giuridica nell’ambito del diritto romano: con alienatio si intendeva la cessione ad altri di un bene o di un diritto – significato, questo, che permane ancor oggi, e che ha attraversato l’età moderna mediante le teorie degli autori contrattualisti, primi fra tutti Grozio e Rousseau. Nel medioevo l’idea di alienazione viene traslata in senso religioso: nella teologia medievale, essa va a significare la separazione dell’uomo da Dio.

È in Rousseau (il quale fa uso anche della categoria giuridica di alienazione) che per la prima volta compare un concetto di alienazione propriamente filosofico, usato peraltro come categoria di critica sociale. Nel Discorso sulle origini della diseguaglianza (1755) Rousseau pone l’accento su uno specifico problema relazionale, il «vivere nell’opinione degli altri»: l’uomo civilizzato, sostiene il ginevrino, dà tale importanza al giudizio altrui da stimare se stesso solo in relazione all’opinione dell’altro, da valutarsi positivamente solo se viene positivamente valutato dagli altri; egli desidera solo ciò che lo sguardo altrui fa apparire desiderabile, e perde così il contatto con la sua autentica e vera natura. Rousseau ancora non usa la parola «alienazione» per descrivere questa condizione, ma delinea comunque con estrema chiarezza la “patologia sociale” che con tale termine sarà poi indicata da moltissimi autori successivi; egli è quindi considerato il padre dell’idea filosofica di alienazione.

In Hegel, poi, l’alienazione rappresenta un concetto teorico centrale: essa indica il processo per cui lo spirito, oggettivandosi, dà luogo a un’alterità alla quale si sente estraneo; potrà ritrovare quest’ultima come propria creazione solo attraverso un travagliato processo di riappropriazione, al termine del quale la sostanza finalmente perverrà a riconoscersi come soggetto. Proprio su questo significato di alienazione si innesta, declinandolo in senso pratico-critico, la concezione di Marx. Ma con quest’ultima non finisce la storia del concetto di alienazione, che prosegue per tutto il Ventesimo secolo in maniera alquanto accidentata: nel corso del Novecento tale concetto andrà infatti a dipartirsi tre rami principali, di cui uno è proprio quello derivante dalla concezione hegelo-marxiana, mentre gli altri due sono l’idea di alienazione propria dell’esistenzialismo, e quella operazionalizzata in indicatori misurabili da parte di una specifica branca della sociologia empirica anglosassone.

Come si sviluppa la concezione marxiana di alienazione?
Dobbiamo innanzitutto distinguere tra il Marx degli scritti giovanili e quello, più tardo, della critica dell’economia politica. Tale distinzione ci permette altresì di introdurre due aspetti fondamentali dell’alienazione sociale: l’aspetto soggettivo e quello oggettivo. Una delle opere del giovane Marx più significative per quanto riguarda la delineazione del concetto di alienazione sono i Manoscritti economico-filosofici del 1844: la prospettiva che Marx qui assume è incentrata sull’esperienza del lavoratore, considerato come individuo inserito nel sistema economico capitalistico. La base del problema dell’alienazione è quindi nell’economia; ma in questa fase l’attenzione di Marx, nel delineare l’idea di alienazione, si focalizza sul il vissuto di estraneità degli individui rispetto a elementi che dovrebbero invece appartenere loro. Abbiamo quindi un concetto di «alienazione soggettiva», incentrato sul soggetto e sul suo vissuto di scissione, separazione ed estraneità: per il giovane Marx, il lavoratore è alienato perché, a causa dei rapporti di produzione vigenti nel capitalismo, gli è preclusa la possibilità di riconoscersi nella sua azione lavorativa, nel prodotto di essa, né può relazionarsi propriamente, mediante il suo lavoro, a coloro per i quali produce. Tutte queste dimensioni gli diventano estranee, lo dominano e lo asserviscono, fino a estraniarlo dalla sua stessa essenza umana.

Con opere più tarde, in cui viene in primo piano la critica dell’economia politica (come i Grundrisse e il Capitale) in Marx si fa sempre più marcata la componente oggettiva, sovraindividuale, del concetto di alienazione. Il punto focale non è più l’esperienza individuale del lavoratore, il suo vissuto di soggetto (naturalmente condizionato dalle forme del modo di produzione capitalistico), bensì lo studio dei rapporti economici di ampia scala: in questo contesto, l’alienazione è il fenomeno per cui l’umana attività di scambio e di produzione, l’economia, appare agli occhi dei suoi stessi “creatori” e “attori” (ossia degli esseri umani che giorno per giorno mediante il loro lavoro e la loro vita quotidiana riproducono i processi economici) come una potenza estranea, spesso minacciosa e ostile: essa assume la forma di un potere che sovrasta l’intera società e che si pone di fronte ai membri di quest’ultima come una datità necessaria e regolata da proprie leggi, alle quali è possibile solo adeguarsi. Non è solo l’operaio a essere dominato da una forza che non controlla e non riconosce; anche il capitalista, che rischia di perdere tutto per effetto delle imprevedibili crisi economiche, è tenuto sotto scacco da quelle che appaiono potenze estranee.

Quali diversi paradigmi di declinazione del concetto è possibile individuare?
Eccoci a ciò a cui facevo riferimento prima: la tradizione hegelo-marxiana è alla base di uno dei tre principali modelli di alienazione che vengono sviluppati nel corso del Novecento. In base a esso, l’alienazione è un fenomeno con delle cause sociali che possono essere identificate, criticate, e sulle quali si può agire per mitigare o eliminare i loro effetti. Non solo: l’alienazione (che qui è propriamente alienazione sociale, in quanto riferita a cause sociali), può essere analizzata sia nella sua dimensione individuale e soggettiva, ossia in relazione al vissuto dei soggetti, sia in rapporto alla dimensione sovraindividuale o oggettiva, riferita ai fenomeni sociali di ampia scala e ai loro effetti sulla società nel suo complesso. La finalità della teoria, in questo modello, è identificare le cause sociali dell’alienazione stessa, nonché avanzare un’idea di emancipazione collettiva dall’alienazione sociale e dal dominio che ne costituisce il fondamento. A questo paradigma dell’alienazione, come agli altri, sono naturalmente state rivolte diverse obiezioni nel corso dei decenni: in primo luogo quella di economicismo, in quanto l’idea marxiana di alienazione era integralmente sviluppata in relazione all’ambito dell’economia. Ad essa è stata rivolta anche una critica di essenzialismo (sarebbe una sorta di “vero sé”, di incontaminata e invariabile essenza umana, quella che dovremmo ritrovare per uscire dall’alienazione?), nonché l’obiezione di paternalismo (con quale diritto si fa riferimento a un’idea di «alienazione inconsapevole», in base alla quale si stabilisce che determinati individui sono alienati anche se essi non si riconoscono come tali?).

Il secondo principale paradigma dell’alienazione sviluppato nel corso del Ventesimo secolo è quello esistenzialista: esso, rappresentato in particolare da Heidegger e Sartre, intende l’alienazione come una forma di inautenticità. Quest’ultima caratterizzerebbe sempre, almeno in una certa misura, l’esperienza di vita umana, e potrebbe essere mitigata o superata mediante un percorso individuale (anziché, come nel modello precedente, collettivo) di recupero dell’autenticità, come l’«essere-per-la-morte» heideggeriano o la «scelta» sartriana. In quanto categoria esistenziale inerente all’umano, l’alienazione in questo paradigma non discende primariamente da cause socialmente modificabili. Tra le obiezioni che sono state rivolte nel tempo a questo modello vi è quella di essenzialismo in relazione alla pretesa di ricavare un sé autentico e incorrotto, vista dai critici come infondata e irrealizzabile.

L’ultimo paradigma al quale possiamo fare riferimento è notissimo nel mondo anglosassone, ma assai meno conosciuto da noi. Esso viene inaugurato nel 1959 da Melvin Seeman (On the Meaning of Alienation) e proseguito da autori come Gwynn Nettler, Dwight Dean e Anthony Davids. Esso non ha una base filosofica o sociologica unitaria: partendo da categorie e riferimenti teorici diversi, gli autori in questione mirano a scomporre l’idea di alienazione in diverse “dimensioni” che possano essere operazionalizzate in indicatori misurabili nel contesto di ricerche empiriche. Per Seeman, l’alienazione si compone delle cinque dimensioni costituite da mancanza di potere, mancanza di senso, anomia, isolamento e autoestraniazione. Per Davids, essa consta di egocentrismo, diffidenza, pessimismo, ansietà e astio. Questo modello è stato criticato in quanto ognuna delle dimensioni dell’alienazione consiste in una categoria a sé stante per la quale già esiste una definizione, nonché per il moltiplicarsi, alquanto arbitrario, di concetti di alienazione formati da diverse categorie a seconda delle scelte dell’autore. Ad accomunare le diverse categorie sotto il termine «alienazione», inoltre, vi è sostanzialmente solo l’uso comune del verbo to alienate, il quale ha i significati di allontanare da sé, inimicarsi, rendere a sé ostile, isolarsi da qualcosa o da qualcuno, e non una riflessione teorica rigorosa.

A cosa è dovuto l’oblio dell’idea di alienazione dopo gli anni Settanta?
Abbiamo ripercorso a grandi linee la storia del concetto di alienazione e siamo arrivati agli anni ’60 e ’70 del Novecento, in cui i tre principali paradigmi dell’alienazione si contendevano la scena, comunicando assai poco l’uno con l’altro e ognuno convinto di rappresentare l’unica vera concezione di alienazione. Anche per effetto dei processi storico-sociali che si sviluppano a partire dagli anni ’50 (la crescita degli apparati amministrativi e della grande industria, il radicarsi dei partiti di massa spinti in avanti dalle grandi ideologie, l’aumento di importanza dell’ambito istituzionale), nei due decenni successivi l’idea di alienazione attraversa una diffusione senza precedenti nella filosofia, nella critica sociale, nella letteratura e nella cultura popolare. La categoria di alienazione sociale diviene onnipresente e i suoi confini concettuali, che non erano mai stati particolarmente netti, si fanno ancor più sfumati; tutto o quasi viene etichettato come alienazione, tanto che vi è anche chi, con ironia, scrive necrologi per l’alienazione: «in quanto termine che si vorrebbe scientifico, l’alienazione è morta per eccesso di pretese e sovraffaticamento. […] Requiescat in pace» (A. McLung Lee, An Obituary for Alienation, in «Social Problems», 1972 (20), n. 1, p. 126).

L’alienazione, dopo gli anni ’70, appare quindi sempre più come un concetto eccessivamente vago, impossibile da usare in maniera rigorosa, e, con la caduta del Muro di Berlino e la fine delle grandi ideologie, a esso viene associato altresì un carattere obsoleto; tanto più che le obiezioni a esso rivolte, alle quali ho fatto cenno in precedenza, non avevano trovato risposta.

Quale teoria dell’alienazione sociale propone nel volume?
In anni recenti vi è stata una ripresa di interesse per il concetto filosofico di alienazione, sulla base del fatto che sono tornate a farsi assai evidenti vecchie e nuove forme di disagio e di malessere sociale che, per poter essere comprese, sembrano necessitare di tale categoria. Ma, per poter riprendere il concetto di alienazione e riportarlo a pieno titolo tra le categorie dell’attuale critica sociale, sono fondamentali tanto una precisa delimitazione del concetto stesso, quanto il raggiungimento di una sua coerenza interna (lavoro, questo, già meritoriamente iniziato da Jaeggi e Rosa). L’obiettivo che mi pongo in L’alienazione sociale oggi è quindi tracciare una teoria dell’alienazione internamente coerente e dotata di utilità pratica, che possa cogliere, descrivere e analizzare nel modo più preciso e dettagliato possibile quelli che si possono determinare come fenomeni di alienazione, per comprenderli e per proporre percorsi di soluzione. Essa deve essere in grado di descrivere e analizzare, senza riduzionismi e da prospettiva sia “sovraindividuale” che “soggettiva”, forme di alienazione sociale riferibili a diversi contesti dell’interazione umana: dall’economia, alle elaborazioni ideologico-culturali, alla sfera politica; di spiegare le dinamiche complessive attraverso cui si generano fenomeni di alienazione sociale; di riconoscere e analizzare quelle che possono dirsi nuove forme di alienazione sociale; di non cadere nei problemi teorici associati tradizionalmente al concetto di alienazione, e di proporre altresì un concetto positivo contrario a quello di alienazione, che possa valere da base per proposte politiche concrete. Nella prima parte del volume cerco quindi di pervenire a livello teorico a un tale concetto di alienazione, nel confronto con le sue fonti storiche e contemporanee oltre che con le obiezioni che a esso sono state rivolte, e differenziando la categoria di alienazione da categorie adiacenti nel pensiero-filosofico-politico; nella seconda parte, sulla base di tale concetto, analizzo e sottopongo a critica forme di alienazione a mio parere rintracciabili nella società contemporanea, nelle diverse sfere dell’economia, della politica e delle forme di vita quotidiane.

Eleonora Piromalli è ricercatrice in Filosofia politica presso il Dipartimento di Filosofia di “Sapienza” Università di Roma. Si occupa soprattutto di teoria critica della società. Ha pubblicato articoli scientifici su numerosi periodici italiani e internazionali ed è autrice delle monografie L’alienazione sociale oggi: una prospettiva teorico-critica (Carocci, 2023), Una democrazia inclusiva: il modello di Iris Marion Young (Mimesis, 2017), Michael Mann: le fonti del potere sociale (Mimesis, 2016), e Axel Honneth: giustizia sociale come riconoscimento (Mimesis, 2012).

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