
di Andrea Colamedici e Maura Gancitano
Mondadori
Di fronte alle incertezze dell’epoca attuale, «dobbiamo domandarci se è la prima volta che gli esseri umani si siano mai sentiti così. Questo tempo è davvero nuovo, è davvero inedito? È mai esistita un’epoca precedente alla nostra in cui è avvenuto un cambiamento simile? Cosa hanno fatto le persone allora? Possiamo imparare da loro, anche soltanto a non commettere gli stessi errori?»
Sono le domande alle quali si propone di rispondere il libro dei due fondatori di Tlon, certi che «qualcosa di simile a quello che stiamo vivendo è già successo due millenni e mezzo fa quando nacque la filosofia, durante uno sconvolgimento molto più simile al nostro di quanto possiamo immaginare. In quel tempo si spaccò la terra sotto i piedi degli umani e si creò una frattura affine a quella che si è aperta adesso, e alcune persone ebbero il potere di scegliere dove condurre se stesse.»
Scopo del libro «è raccontare cosa ci sta accadendo, cosa rischiamo di perdere e come possiamo inventare nuove collettività, aiutandoci a non franare nelle stesse insidie in cui caddero i nostri vicini antenati nella Grecia antica. A fare la differenza, in particolare, sarà il modo in cui sapremo ristabilire il nostro rapporto con il divino: se la filosofia è nata, come vedremo, proprio a partire dall’abbandono del politeismo e dall’interruzione di un rapporto diretto con una pluralità di potenze invisibili eppure onnipresenti, oggi la filosofia morendo può favorire l’alba dei nuovi dèi, già presenti e attivi tra noi eppure ancora senza nome, nonostante i grandi tributi che quotidianamente offriamo loro.»
Colamedici e Gancitano ripercorrono la storia del pensiero umano alla ricerca di punti fermi: «Quando ci guardiamo indietro, sviluppiamo una visione unitaria sul passato. Come ha scritto Umberto Eco, il presente ci sembra molteplice e il passato unitario, ma per esempio ciò che intendiamo oggi con «bellezza classica» non è mai esistito realmente. Quando ci volgiamo al passato ci appare tutto più semplice, laddove invece il presente sembra un tempo complesso e contraddittorio. Sono posizioni che tornano forti in particolare nei momenti di transizione, quando nella navigazione esistenziale si intravede ancora la terraferma e si rischia di fare quello che Zygmunt Bauman chiamava «retrotopia»: convincersi che il tempo ideale sia posto nel passato, e cercare di fare di tutto per ritornarci. «Ieri» è visto come un tempo più semplice, in cui i ruoli erano definiti, i fenomeni spiegabili, e non si viveva il caos dei tempi moderni.
Oggi come allora la filosofia ha il compito di accompagnarci in una nuova navigazione. E come in ogni navigazione, saremo costretti ad abbandonare la terraferma, a rischiare di affrontare le intemperie senza vedere un qualche porto di fronte a noi. Quando Bauman iniziò a parlare della nostra come di una società liquida, non intendeva dire semplicemente che ciò che era solido stava cambiando stato fisico, ma che quel mondo corporeo, tangibile, misurabile lo stavamo abbandonando. La nostra non è una società liquida perché le cose hanno cambiato forma, ma perché abbiamo dovuto abbandonare il porto sicuro e siamo nel bel mezzo di una navigazione complessa. Siamo liquidi perché stiamo navigando sul pelo dell’acqua un nuovo fiume, ancora da attraversare.»
Concludono quindi i due Autori: «Quella in cui viviamo […] potrebbe essere l’alba di nuovi dèi, intesi come forme di narrazione che guidino la nostra azione collettiva, punti di riferimento capaci di dare senso alle vite che viviamo, antidoti al cinismo e al senso di abbandono. Quello che più manca, infatti, è l’entusiasmo di vivere: l’enthusiasmos, da en theos ousia, letteralmente la «presenza del Dio nell’essenza», l’invasamento o l’indiamento descritto da Marsilio Ficino e Giordano Bruno, la mescolanza estatica tra umano e divino. Abbiamo bisogno di riconoscere gli dèi che ci abitano e che abitano il nostro metaverso per osservare le nostre forme interiori e trovare nuovi modi per coltivare il senso. C’è ancora intorno a noi qualcosa di ineffabile – quasi tutto, a dire il vero – e non è certo un male: è molto più sopportabile e fertile lo spaesamento prodotto da un mondo sorprendente poggiato sull’ignoto che la pesantezza di un mondo scontato costruito sulla certezza.»