
In che modo il concetto di “globale” caratterizza la riflessione sulla bioetica contemporanea?
Vivendo in una realtà sempre più globalizzata, oramai qualsiasi evento che si verifica a livello locale è interdipendente dal tutto e influenzato dalle forze che operano su scala globale. Per comprendere e affrontare ogni problema, sia esso socio-economico, politico o ambientale, sembra allora indispensabile divenire consapevoli delle interconnessioni e delle interdipendenze presenti e operanti. Una tale consapevolezza appare necessaria anche per la bioetica affinché proponga una riflessione in merito alla vita e alle sue molteplici espressioni in un quadro d’insieme e in una prospettiva a lungo termine. Detto altrimenti, il concetto di “globale” invita la bioetica ad adottare un approccio di più ampio respiro affinché le varie questioni bioetiche vengano esaminate in un’ottica globale attenta alle conseguenze immediate e future dell’agire umano.
Quali temi costituiscono l’agenda della bioetica dei giorni nostri?
Oggigiorno la bioetica è chiamata sempre più ad affrontare temi di portata globale, quali l’equo accesso alle cure, la condivisione dei benefici derivanti dalla ricerca scientifica e la protezione della biosfera e della biodiversità. A riguardo, si parla di “bioetica globale” (global bioethics) sottolineando come l’agenda di questa particolare disciplina non possa più rimanere circoscritta alle questioni etiche sollevate dal continuo progresso medico-tecnologico. In altri termini, la riflessione bioetica non può analizzare solo le implicazioni etiche dei nuovi poteri di intervento sulla vita, come ad esempio quelli offerti dalla fecondazione assistita, dall’ingegneria genetica, dalle terapie intensive di supporto vitale e dai trapianti d’organo. Il dibattito bioetico è infatti chiamato a contribuire anche alla discussione intorno a problematiche di carattere socio-politico e ambientale. La bioetica globale deve allora promuovere una riflessione che si estenda dall’ambito strettamente sanitario a tutti i vari settori della società, fino a coinvolgere ogni singolo cittadino, in particolare coloro che con le loro scelte e azioni possono influire sull’aspettativa e sulla qualità di vita delle persone.
Quali compiti sono assegnati alla bioetica nella società contemporanea?
Riprendendo la terminologia introdotta da Giovanni Berlinguer alla fine degli anni Ottanta del secolo scorso, si potrebbe dire che la bioetica di frontiera appare ancora oggi predominante sulla bioetica quotidiana. Il dibattito bioetico sembra, cioè, tuttora particolarmente focalizzato sulle “zone di frontiera” dell’esistenza umana, come la nascita e la morte, e, attraverso l’analisi critica degli straordinari poteri di intervento sulla vita, rischia di porre l’attenzione sui problemi che coinvolgono pochi, trascurando ciò che accade alla maggioranza del genere umano. In effetti, la riflessione bioetica è stata dedicata sinora in modo preponderante alle cosiddette questioni di inizio e di fine vita, e in particolare ai risvolti etici della medicina altamente tecnologizzata che offre all’uomo la possibilità di scegliere come e quando nascere e morire. Un simile orientamento conduce la bioetica ad affrontare in modo pressoché esclusivo le questioni tipiche dei Paesi ad alto sviluppo tecnologico, tralasciando così un ampio ventaglio di problemi che caratterizzano le aree più povere del mondo. Ancora oggi infatti si registra una limitata condivisione dei benefici derivanti dalla ricerca scientifica nonché la scarsa disponibilità o la non accessibilità alle risorse sanitarie in alcune aree del mondo. Da questo punto di vista, la global bioethics può offrire un importante contributo dinnanzi alla sfida dell’equo accesso alle prestazioni sanitarie e in vista del riconoscimento della portata globale dei problemi connessi alla salute.
Come si è evoluto il concetto di salute?
Negli ultimi anni vi è l’invito a prendere consapevolezza della dimensione globale della salute e dei fattori che la mettono a rischio. Ne è prova l’utilizzo sempre più frequente dell’espressione “salute globale” (global health), attraverso la quale si intende promuovere uno sguardo d’insieme in merito al fenomeno della salute per considerare quest’ultima non solo come una condizione interna al singolo individuo, bensì come una rete di relazioni tra gli esseri umani, così come tra le varie forme viventi e l’ambiente in cui si vive. Una tale prospettiva sembra rendere troppo circoscritta la definizione di salute, già di per sé ampia, proposta nel 1948 dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS): descrivendo la salute come «uno stato di completo benessere (wellbeing) fisico, mentale e sociale e non semplicemente l’assenza di malattia o infermità», l’OMS aveva già posto l’accento sui cosiddetti determinanti della salute, cioè su quei fattori legati agli stili di vita e al contesto economico-sociale che possono compromettere o migliorare lo stato di salute dell’individuo e della popolazione.
Ebbene, anche l’espressione global health pone l’accento sui molteplici elementi che determinano uno stato di salute, ma parlare di quest’ultima in termini globali significa altresì considerare gli effetti della globalizzazione sul fenomeno salute. Ad esempio, la mobilità di merci quali tabacco, cibi ipercalorici e bibite zuccherate contribuisce alla rapida espansione delle malattie croniche (quali cancro, diabete, patologie cardiovascolari e malattie respiratorie croniche) al punto che oggigiorno tali patologie rappresentano una vera e propria sfida a livello globale. Le malattie croniche costituiscono infatti la principale causa di morte e questo non solo nei paesi sviluppati, come si tende comunemente a pensare, ma anche e soprattutto in quelli in via di sviluppo che sono già segnati da povertà, malattie infettive e carenza di servizi sanitari. È quindi necessario guardare alla salute in un’ottica globale, ma vi è il rischio che un tale sguardo assegni alla salute stessa un carattere ancor più elusivo e conduca a un’ulteriore medicalizzazione della vita. Da questo punto di vista, la riflessione bioetica assume una particolare rilevanza perché può evitare un’eccessiva espansione del concetto di salute e ridimensionare le aspettative nonché le richieste nei confronti della medicina.
La tematica del fine vita alimenta un dibattito serrato: quali limiti deve incontrare la responsabilità morale e deontologica del medico?
La discussione pubblica e il dibattito bioetico sul fine vita sono ancora oggi caratterizzati da alcune letture distorte e riduttive della responsabilità morale. Non di rado, infatti, il mancato avvio o la sospensione dei trattamenti, specie quelli di sostegno vitale, e la terapia antalgica, in particolar modo la sedazione palliativa profonda, vengono equiparati a delle pratiche eutanasiche sulla base della seguente constatazione: tutti questi atti danno luogo alle medesime conseguenze, cioè la morte del paziente. In tal modo, si ritiene il medico parimenti responsabile della morte dell’assistito sia qualora somministri al paziente una sostanza letale, sia nel caso in cui non avvii o sospenda i trattamenti oppure effettui la sedazione profonda.
In realtà, vi sono delle differenze moralmente significative tra queste pratiche che portano a una diversa ascrizione di responsabilità del medico. Infatti, effettuando l’eutanasia, si compie un atto che conduce alla morte altrui (tant’è vero che si impiegano sostanze letali), e questo indipendentemente dalla preesistente condizione patologica dell’assistito. Attraverso il non avvio o la sospensione dei trattamenti oppure mediante la sedazione palliativa profonda, il medico si inserisce invece in una sequenza di eventi che è già iniziata perché il paziente è affetto da una patologia, sorta in precedenza, che sta mettendo a repentaglio la sua vita. Ciò non toglie che a volte alcune particolari tipologie di astensione o interruzione delle cure diano luogo a un agire illecito sul piano morale nonché giuridico, come nel caso in cui tali atti vengano compiuti senza il consenso del paziente e con l’intenzione di accelerare il processo di morte dell’assistito.
Differenziare le pratiche appena descritte è quindi importante in vista dell’ascrizione della responsabilità morale e deontologica del medico, ma tali distinguo consentono anche di evitare un approccio eccessivamente interventistico alla fine della vita. Senza di essi infatti si potrebbe ritenere moralmente lecita qualsiasi azione volta a prolungare la vita a tutti i costi, considerando altresì il mancato intervento come un atto che procura la morte del paziente. Questo approccio, che si potrebbe definire di tipo vitalistico, dà luogo a diversi nodi problematici: obbedendo sempre e comunque all’imperativo del fare, si può ledere la dignità del paziente e si rischia di non perseguire altre importanti finalità della medicina, come ad esempio l’alleviamento del dolore e della sofferenza. Per di più, il vitalismo ostacola l’accesso universale ed equo alle prestazioni sanitarie e solleva anche degli interrogativi in merito all’esistenza di limiti alle richieste individuali e sociali di salute.
Quali implicazioni bioetiche ha la recente normativa in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento?
Per rispondere a questo interrogativo, occorre innanzitutto precisare come la Legge n. 219/2017 intenda promuovere la relazione di cura e di fiducia tra paziente e medico, valorizzando sia l’autodeterminazione del primo sia l’autonomia professionale del secondo (art. 1, c. 2). Si può trovare conferma di quanto appena detto nelle norme che disciplinano la decisione del paziente di non iniziare dei trattamenti (rifiuto) e la richiesta del medesimo di sospendere quelli già avviati (rinuncia): se è vero che in base alla suddetta normativa il medico è tenuto a rispettare il dissenso espresso dal paziente e, in conseguenza di ciò, è esente da responsabilità civile o penale (art. 1, c. 6), è altrettanto vero che attuare il rifiuto o la rinuncia ai trattamenti non significa porre termine al rapporto medico-paziente. Infatti, nella parte conclusiva del comma 5 dell’art. 1, il Legislatore asserisce che, in seguito al rifiuto o alla rinuncia ai trattamenti di sostegno vitale, il medico deve informare il paziente (e, se questi acconsente, i suoi familiari) sulle conseguenze di tale scelta, prospettare possibili alternative nonché promuovere ogni azione di sostegno nei confronti dell’assistito. Anche avvalendosi del contributo di altre figure professionali designate al supporto psicologico, il medico è chiamato quindi a valorizzare ulteriormente la relazione di cura, indagando ad esempio le ragioni del rifiuto o rinuncia ai trattamenti e adoperandosi affinché la scelta del paziente sia davvero libera e consapevole. Nella stessa direzione vanno le norme espresse all’art. 2 perché confermano i doveri del medico di non ricorrere a trattamenti sproporzionati e di alleviare sempre le sofferenze dell’assistito, comprese quelle derivanti dal mancato avvio o dalla sospensione dei trattamenti.
La Legge n. 219/2017 riconosce allora il diritto di acconsentire o meno ai trattamenti, ma non assolutizza l’autodeterminazione del paziente a scapito dell’autonomia professionale del medico perché permette a quest’ultimo di adempiere a dettami etico-deontologici di estrema rilevanza, quali il dovere di tutelare la vita nonché di promuovere la salute del paziente, alleviandone il dolore e la sofferenza. Per di più, introducendo la pianificazione condivisa delle cure (art. 5), la normativa vuole altresì proporre una visione dinamica del rapporto medico-paziente. In effetti, tutti i soggetti chiamati a pianificare il percorso di cura assumono un impegno comunicativo-relazionale e sono disposti a rivedere le proprie posizioni, operando modifiche e adeguamenti rispetto all’evolversi della patologia.
L’auspicio è che la prospettiva relazionale che fa da sfondo all’intero testo normativo venga assunta anche da colui che stila le disposizioni anticipate di trattamento (DAT). È opportuno infatti che egli, prima di esprimere le proprie volontà “ora per allora”, si confronti regolarmente con persone a lui care su temi, spesso non affrontati o rimossi, quali vulnerabilità, esperienza di malattia e morte. Altrettanto rilevante è che l’interessato promuova un rapporto continuativo e di fiducia con quella figura professionale, di solito rappresentata dal medico di famiglia, che più di altri lo conosce dal punto di vista clinico, ma anche personale e familiare. La valorizzazione di tali rapporti interpersonali agevola, in caso di
perdita della capacità di autodeterminarsi del disponente, il compito di interpretare e attuare il contenuto delle DAT. Il processo decisionale potrebbe così essere caratterizzato da un minor grado di conflittualità, e questo soprattutto dinnanzi a una divergenza tra la situazione ipotizzata e quella effettivamente verificatasi. Se indicato nelle DAT, il fiduciario svolge qui un ruolo fondamentale perché, nel caso in cui abbia instaurato in precedenza un rapporto significativo con l’estensore delle DAT, può interpretarne le volontà anche rispetto alle circostanze non previste dal disponente e tutelare così, assieme al medico, gli interessi di colui che è divenuto incapace di intendere e di volere.
Francesca Marin è docente a contratto di Filosofia morale presso il Dipartimento di Filosofia, Sociologia, Pedagogia e Psicologia Applicata (FISPPA) dell’Università degli Studi di Padova. Ha partecipato a progetti di ricerca nazionali e internazionali su temi di carattere etico-filosofico e bioetico. È Presidente del Comitato di Etica per la Pratica Clinica (CEPC) della Fondazione IRCCS Ospedale San Camillo del Lido di Venezia nonché membro del CEPC Pediatrica dell’Azienda Ospedaliera di Padova.
Tra le sue principali pubblicazioni: L’agenda della bioetica. Problemi e prospettive (Il Poligrafo, Padova 2019), Bioetica di fine vita. La distinzione tra uccidere e lasciar morire (Orthotes Editrice, Napoli-Salerno 2017), Responsibility in Nanotechnology Development (Springer, Dordrecht 2014 – a cura di S. Arnaldi, A. Ferrari, P. Magaudda e sua), Il bene del paziente e le sue metamorfosi nell’etica biomedica (Mondadori, Milano 2012).