
L’Affaire «è una storia complessa, difficile da ordinare, che si gioca su molteplici sfumature, presenti anche all’interno delle stesse fazioni, dove revisionista, ad esempio, non significa necessariamente dreyfusardo, appellativo che non è uguale a dreyfusiano distinto a sua volta da dreyfusista (i dreyfusardi, primi difensori di Dreyfus, furono impegnati a rendere pubbliche le dinamiche del processo del 1894 al fine di dimostrare l’innocenza del capitano; i dreyfusisti, parte dei quali si fecero poi dreyfusardi, quelli che vedevano nell’Affaire un mezzo per mettere in discussione la società, al di là di Dreyfus; i dreyfusiani, comparsi alla fine del 1898 quando la lotta arrivò a minacciare il sistema parlamentare, il gruppo che mirò alla difesa di Dreyfus con il solo scopo di giungere a una pacificazione, tornare alla normalità, in nome della salvezza del regime repubblicano, come rivelò l’Appel à l’Union del 1899).
Non bisogna dimenticare che l’Affaire è una storia di grandi trasformazioni interiori e quindi di conversioni. I più accesi colpevolisti della prima ora furono Clemenceau e Jaurès. A loro in seguito si aggiunse Millerand che precedentemente aveva attaccato pubblicamente Reinach. I quattro saranno gli artefici della riabilitazione di Dreyfus, gli stessi che si troveranno in un salotto del ministero a pianificare le fasi convulse della grazia. Pochi mesi prima il moderato Charles Dupuy, presidente del consiglio, con un discorso ricolmo di ardore si era allineato all’avversario di sempre, il deputato socialista Gustave Rouanet. Uniti finalmente, grazie all’Affaire, contro Drumont, i deputati antiebraici e l’antisemitismo.
Uomini diversissimi tra loro, infatti, in quegli anni si trovarono legati improvvisamente da accordi, leghe, alleanze e amicizie. “Quale era il vero nome di questo stare insieme?” si chiese Halévy, “Che cosa combattevamo?” Non tanto l’esercito e nemmeno l’illegalità della sentenza. Ciò che risultò intollerabile per quella generazione fu un verdetto imposto alle folle con il terrore. Processo che ebbe nella sua natura una circolarità viziosa: “Se Dreyfus è all’Île du Diable,” constatò Duclaux, “è perché il governo ha dato retta alle grida della folla e si è appoggiato sulla maggioranza.” Il nemico era dunque la demagogia.
La stessa partecipazione dei socialisti, come Millerand o Jaurès, al movimento innescato dal caso Dreyfus fu condizionata dalla perfetta coincidenza che si verificò allora tra antidreyfusardi e nemici diretti del proletariato socialista. L’occasione unica diede dunque loro la possibilità di smascherare finalmente le contraddizioni di una società borghese militarista, clericale, nazionalista e antisemita. L’Affaire, infatti, permise la creazione di un grande movimento capace di scuotere un intero paese “diffondendo rapidamente” – come sostenne la rivoluzionaria e fondatrice del socialismo Rosa Luxemburg – “più coscienza socialista di quanta se ne sarebbe potuta sviluppare in molti anni di propaganda teorica”.
Resta comunque una storia di individui riconoscibili: statici, ottusi o arroccati nelle loro fermezze; dubbiosi, pavidi o indecisi, ma anche uomini d’azione, in perenne movimento e in continua ricerca. “Ci sono stati héros de l’action nella corsa di cui abbiamo fatto parte,” scrisse Victor Basch a Dreyfus nel 1901, “ma soprattutto tra noi ci sono stati eroi appassionati.”
Il solo Mathieu Dreyfus, sicuro, elegante e sempre pronto all’azione, è quasi la metà dell’Affaire. Lasciò la famiglia, si allontanò dal suo paese, abbandonò gli affari per l’Affaire. Senza esitazione. Non trascurò nessuna strada pur di trovare le prove dell’innocenza del fratello. Andò a parlare con il senatore Scheurer-Kestner, cercò di arrivare al presidente della repubblica Faure, tentò di convincere Rochefort, fece firmare a Lucie una istanza – in latino – diretta a papa Leone XIII, radunò i più stimati grafologi del mondo, si recò a Londra per costruire la notizia della falsa evasione, fece stampare la brochure di Lazare, bussò a tutte le porte, ricorse a familiari, conoscenti, investigatori, medici, sonnambuli, domestici, politici, portieri e giornalisti. Fece qualunque cosa fosse a lui possibile, sfiorando talvolta l’impossibile, imponendosi sempre il rispetto della legalità ed evitando qualunque scorciatoia illecita. E riuscì nel suo intento.»
«Se Dreyfus fu l’asse nascosto attorno al quale ruotò l’Affaire, le figure coinvolte in questo sono talmente numerose da far risultare impossibile anche il solo elencarle.»
«Molti degli uomini coinvolti hanno conquistato una involontaria immortalità solo per la casualità inesplicabile di essersi trovati sulla coordinata dell’Affaire. […] su questa scia di immortalità casuali risulta impressionante constatare come invece la compattezza morale di Alfred Dreyfus risulti inattaccabile in tutti i documenti che riguardano la sua esistenza. Certo, il suo ruolo statico lo ha avvicinato più facilmente a una condizione di martirio. È stato un corpo passivo che brillava di luce propria attorno al quale si è trovato a girare un universo. Il motore immobile dell’Affaire. L’uomo che portò a scegliere, osare e agire tutti gli altri. Ma a chi, in tutta questa vicenda, si chiese se lui sarebbe mai stato dreyfusardo rispose Dreyfus stesso nel 1927, scostando il velo di discrezione dietro al quale si era posto (rientrò prima nei ranghi senza approfittare della notorietà planetaria – “Ero solo un ufficiale di artiglieria cui un tragico errore ha impedito di seguire la sua strada” – per poi congedarsi anticipatamente dall’esercito) per porre una firma sulla petizione rivolta al governo di Washington in difesa dei due anarchici Sacco e Vanzetti.»