“L’ABC di un impero: iniziare a scrivere a Roma” a cura di Giulia Baratta

Prof.ssa Giulia Baratta, Lei ha curato l’edizione del libro L’ABC di un impero: iniziare a scrivere a Roma edito da Scienze e Lettere: qual era il livello di alfabetizzazione esistente nel mondo romano tra repubblica ed impero?
L'ABC di un impero: iniziare a scrivere a Roma, Giulia BarattaDa tempo una scuola di pensiero che ha visto in William V. Harris, autore del noto volume Ancient Literacy del 1989, uno dei massimi esponenti, è promotrice di una teoria secondo la quale il livello di alfabetizzazione delle civiltà classiche, mi riferisco al mondo greco e a quello romano, sarebbe stato decisamente basso. Il mondo antico, nell’opinione di W. Harris, non avrebbe offerto le condizioni per un’alfabetizzazione di massa e sarebbe stato fondamentalmente caratterizzato dalla comunicazione orale. Leggere e scrivere sarebbe stato, di fatto, un lusso riservato alle classi sociali più elevate e soprattutto uno strumento tanto utile quanto indispensabile per la costruzione e il mantenimento del potere politico.

Le fonti in nostro possesso, però, raccontano una realtà diversa. La documentazione scritta di cui disponiamo riferibile al periodo storico preso in esame, cioè la repubblica e l’impero, è tanta e soprattutto tanto variegata che si giustifica solo con un livello diffuso di alfabetizzazione. Questo evidentemente non significa che tutta la popolazione raggiungesse un grado di istruzione alto ma ci orienta a pensare che fosse molto diffuso e ben radicato almeno un livello basilare di alfabetizzazione tale da consentire di leggere e di scrivere almeno per quanto riguarda le necessità legate alla vita privata e al lavoro. Si tratta dunque di un fenomeno che interessa, a diversi livelli, tutta la così detta piramide sociale del mondo romano e che appare, stando alle fonti, più accentuato nelle aree urbane rispetto a quelle rurali e che nel complesso riguarda non solo Roma e l’Italia ma tutti i territori nel tempo conquistati dai Romani con interessanti risvolti per quanto concerne la diffusione del latino e del greco e la “sopravvivenza” delle lingue delle popolazioni vinte.

Quale importanza aveva, nel mondo romano, la scrittura?
Una grande, grandissima importanza. La scrittura nel mondo romano è di fatto presente ovunque. Possiamo distinguere tra scritture ufficiali e di natura pubblica e quelle inerenti la sfera privata per non parlare, ovviamente, della letteratura. Il mondo romano non potrebbe funzionare senza scrittura. Si tratta infatti di una società complessa basata su un rigoroso impianto giuridico che regola la vita politica e sociale in cui la scrittura è il filo conduttore che unisce tutti i territori amministrati da Roma ed è il mezzo che consente di fissare una legge, renderla pubblica ed ufficializzarla. Le città romane erano piene di scrittura. Manifesti elettorali piuttosto che “cartelloni” pubblicitari venivano dipinti sulle facciate delle case in modo che tutti potessero vederli, le grandi piazze pubbliche, i fori, erano piene di statue ognuna con il suo basamento e la relativa iscrizione, ogni monumento si caratterizzava per uno o più testi epigrafici portatori di informazioni relative a chi lo aveva realizzato, pagato o restaurato, i monumenti funerari ricordavano ai passanti, spesso attraverso epigrafi parlanti, i nomi e le storie dei defunti affinché fosse loro garantita la memoria e con questo l’eternità ecc.. In sintesi, senza continuare con un elenco di luoghi di scrittura pubblica, si può dire che in epoca romana tutta la città è coinvolta dal fenomeno ed è portatrice di scrittura. D’altro canto la scrittura è ampiamente rappresentata anche in ambito lavorativo dove gli esempi più noti sono certamente dati dai bolli laterizi, dalle indicazioni dipinte sulle anfore o dalle tante etichette realizzate su lastrine di piombo con i nomi dei più svariati prodotti che venivano apposte ai loro imballaggi. Anche la sfera privata dei Romani è piena di scrittura. Si va dai graffiti di protesta, come quello lasciato dal cliente di una taberna cui è stato dato un vino cattivo e troppo caro, ai messaggi del cuore o agli appuntamenti, ma si incide anche il proprio nome su una ciotola per marcarne la proprietà o si maledice il ladro affinché non la rubi. Va da se che tutta questa messe di informazioni scritte poteva essere efficace solo se tutti, o quasi, erano nelle condizioni di poterla decodificare e prendere atto dei suoi contenuti. Questo ci riporta alla domanda precedente. Evidentemente tutto questo presuppone una diffusa alfabetizzazione, almeno ad un livello di base, che giustifica poi anche l’esistenza di scrittura privata.

Come si svolgeva l’insegnamento scolare a Roma?
Nelle classi sociali elevate l’istruzione dei figli era di norma affidata ad un pedagogo che poteva anche essere uno schiavo, scelto proprio in base alle sue conoscenze e dunque alla possibilità di garantire una solida preparazione agli allievi. Per i meno abbienti esistevano delle vere e proprie scuole organizzate da privati ed evidentemente aperte al pubblico. Da un punto di vista archeologico risulta oggi piuttosto difficile riconoscere nell’ambito del tessuto urbano di una città romana uno spazio, un edificio o un locale che presenti caratteristiche ricorrenti e tali da poter essere identificato come scuola. Questo è probabilmente dovuto al fatto che scuole vere e proprie, intese in senso moderno, non esistevano e che le lezioni si tenevano nei più disparati luoghi ed anche all’aperto come sembra testimoniare un affresco di Pompei. Poche sono anche le informazioni che abbiamo su quello che possiamo definire l’arredo di un’aula o comunque sulla suppellettile necessaria all’insegnamento su cui ci informano solo alcune, pochissime, fonti figurate dalle quali si desume l’esistenza di cattedre per i docenti e banchi per gli alunni. Da quanto riferiscono le fonti scritte le lezioni iniziavano molto, forse addirittura troppo presto la mattina e dopo una pausa a mezzogiorno prevedevano una ripresa pomeridiana. Il primo livello scolastico era detto ludus litterarius. Destinato ai bambini compresi tra i sei e gli undici anni di età aveva lo scopo di insegnare a scrivere, con lo stilo sulle tavolette cerate o con l’inchiostro utilizzando altri supporti, ed a contare e calcolare con l’ausilio dell’abaco. Soprattutto per le classi sociali più abbienti e per i ragazzi sono a circa sedici anni gli studi potevano continuare con la scuola del grammaticus, dove si affrontava lo studio della letteratura latina e greca e della storia, della geografia, dell’astronomia ed anche della fisica. Il ciclo scolastico poteva poi concludersi con la scuola del rhetor, il maestro di eloquenza dove si sviluppava l’arte retorica e si approfondivano nozioni di letteratura e si studiava diritto. Evidentemente la carriera scolastica delle ragazze e dei bambini delle classi sociali più basse era di norma limitata al primo livello ma era ben chiaro a tutti che saper leggere e scrivere poteva essere sinonimo di promozione sociale.

Quale funzione svolgevano i metodi di insegnamento coercitivi nelle scuole romane?
Le fonti letterarie, così come numerosi testimoni iconografici, restituiscono concordemente un’immagine della scuola romana in cui dominano aule chiassose e insegnanti urlanti che non disdegnano colpi e percosse agli allievi per non aver studiato a dovere o per essere poco disciplinati. Tra gli strumenti maggiormente utilizzati dai maestri per “infliggere” le loro lezioni vanno annoverate strisce di cuoio, fruste, frustini e bacchette di legno e non a caso uno dei più noti maestri della storia, Orbilius, è definito da Orazio plagosus, cioè colui che causa piaghe e ferite, dunque manesco. L’uso di questo strumenti a scopo educativo è un fatto ampiamente attestato ben al di là dell’epoca romana, direi addirittura sino a ieri. Se da un lato costituivano il complemento all’autorità del maestro, raffigurato su un rilievo di Arlon con in mano lo “scettro del pedagogo”, una lunga stecca di legno, dall’altro avevano lo scopo di incutere paura e convincere, o meglio costringere, gli alunni a studiare meglio e di più. D’altro canto se costituivano un momento di sfogo dei maestri, spesso poco pagati e poco stimati anche in epoca romana, ed erano punizioni ad personam, volevano sicuramente anche essere di esempio per gli altri, una sorta di avvertimento come trapela da un affresco pompeiano. In questo si vede un ragazzo trattenuto per le braccia e i piedi da altri scolari che viene frustato dal maestro sulle natiche. Alla reprimenda fisica si aggiunge quella psicologica dovuta all’esecuzione della “pena” di fronte ai compagni con l’aggravante della loro forzata complicità. Una punizione per tutti, in definitiva, sia per il diretto interessato che per chi era costretto a guardare o a partecipare personalmente alla sua esecuzione.

Come si articolò e quale diffusione ottenne la riforma dell’alfabeto promossa dall’imperatore Claudio?
Le fonti letterarie testimoniano che l’imperatore Claudio, tra la primavera del 47 d.C. e l’autunno del 48 d.C., operò una riforma ortografica aggiungendo tre lettere, il digamma inverso, l’antisigma e l’H dimidia, a quelle già esistenti dell’alfabeto latino desumendole da quello greco. Sui motivi della riforma gli specialisti hanno avanzato diverse ipotesi non ultima quella di Francis X. Ryan secondo cui l’imperatore voleva in questo modo porsi idealmente in linea con Appio Claudio Ceco, suo antenato, che nel IV secolo a.C. aveva introdotto il rotacismo nei nomi di persona e ricollegarsi in questo modo alla tradizione avita.

Dalla documentazione epigrafica che ci è pervenuta, per lo più da Roma e meno dal resto dell’Italia, sembra desumersi che nell’applicazione pratica della riforma dell’alfabeto promossa da Claudio vi sia stata una certa libertà ed una alto grado di discrezionalità da parte dei lapicidi, delle botteghe ed anche dei committenti e che dunque non vi sia mai stato un editto censorio vero e proprio che obbligasse all’uso delle nuove lettere quanto piuttosto, forse, solo un invito o una indicazione di massima.

La riforma non ha avuto molto seguito e sono pochissime le attestazioni successive a Claudio, un fatto indicativo da un lato dell’assenza di un atto pubblico volto a ripristinare l’alfabeto precedente e cancellare l’intervento claudiano e dall’altro dello scarso successo ed interesse suscitato dall’introduzione delle tre nuove lettere soprattutto una volta venuto meno il loro artefice.

Giulia Baratta è professore associato di Archeologia classica all’Università di Macerata, abilitato alla prima fascia. Si è formata a Roma, all’Università “La Sapienza”, ed ha conseguito un dottorato in Germania a Frankfurt/M. È socio corrispondente dell’Istituto Archeologico Germanico. Si occupa prevalentemente di temi legati a Roma e alle province occidentali del suo impero tra cui aspetti della vita quotidiana, cultura materiale, produzione e commercio, religione ed iconografia. È autrice di quattro monografie, numerose curatele e quasi duecento altre pubblicazioni. È membro di diversi comitati scientifici di riviste e direttore delle collane Armariolum e Studi su Ruscino e condirettore di Epigrafia e Antichità. Ha partecipato a scavi in Turchia, Italia, Spagna e Francia ove ne codirige uno.

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