
Quali eventi hanno imposto il predominio dell’ordine economico statunitense?
La scalata degli Stati Uniti al vertice del potere mondiale affonda le radici nel XIX Secolo, con l’afflusso di milioni di immigrati dall’Europa che rese possibile lo sfruttamento – previo “svuotamento” dalle popolazioni indigene – dei grandi spazi nordamericani, con le loro immense risorse. All’epoca, l’industrializzazione del Paese e la costruzione della rete ferroviaria che ne favorì lo sviluppo furono realizzati essenzialmente con capitali britannici. Fino al periodo della belle époque, gli Stati Uniti rimasero inchiodati a una posizione debitoria rispetto alla Gran Bretagna, che aveva nel frattempo sacrificato la propria manifattura per dedicarsi anima e corpo al riciclo degli attivi commerciali macinati dalle colonie (a partire da quella indiana) in capitale finanziario da canalizzare verso i quattro angoli del pianeta per tramite della City. Fu lo scoppio della “guerra civile europea” (la Prima Guerra Mondiale) a determinare un radicale capovolgimento di ruoli; per avere la meglio sulla Germania guglielmina, l’Impero Britannico fu costretto a liquidare gran parte dei propri attivi all’estero e persino a contrarre debiti per approvvigionarsi di armi dagli Usa. Alla fine della guerra, rispetto alla quale l’intervento militare Usa svolse un ruolo decisivo, gli Stati Uniti si erano affermati come grande Paese creditore ed esportatore, a scapito della Gran Bretagna che pur disponendo di un impero coloniale letteralmente immenso si ritrovava finanziariamente dissanguata e ormai deprivata di un apparato industriale in grado di competere con quello tedesco, francese e, ovviamente, statunitense. Il processo di avvicendamento al vertice del potere mondiale giunse a piena maturazione con la Seconda Guerra Mondiale, che inizialmente vide gli Usa indossare ancora una volta i panni di Paese creditore e fornitore di armi e merci necessarie allo sforzo bellico sostenuto da britannici, francesi e sovietici contro la Germania nazista. In un secondo momento, con la sconfitta del Giappone e l’intervento in Europa raggiunsero il duplice obiettivo di egemonizzare il teatro est-asiatico e contenere la dilagante Armata Rossa. Le bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki e la contestuale inaugurazione della Guerra Fredda ufficializzarono, di concerto con gli accordi di Bretton Woods che imposero il dollaro come moneta di riserva internazionale ancorata all’oro, la marginalizzazione del progetto rooseveltiano consistente nell’estensione dei principi del New Deal su scala globale, in favore di una sua versione “minimalista”. Il “ridimensionamento” del progetto originario tramite l’European Recovery Plan e la sua versione asiatica consentirono di limitare l’innalzamento del tenore di vita ad Europa e Giappone trasformandoli in uno spazio unificato per l’espansione transnazionale delle imprese Usa e integrandoli nel regime di accumulazione statunitense. In conformità con i principi stabiliti dai programmi di sostegno ad Europa e Giappone, gli Usa promossero l’abbattimento dei livelli tariffari (calati dal 40 al 6% nell’arco della seconda metà del XX Secolo in tutto il mondo industrializzato) offrendo allo stesso tempo crediti e forniture di materie prime – di cui le imprese Usa detenevano il controllo – denominate in dollari ai Paesi assistiti, i quali impiegavano i finanziamenti per acquistare macchinari e derrate alimentari dagli Stati Uniti. Questa semplice strategia coniugava gli interessi delle società finanziarie, delle multinazionali dell’energia e delle imprese manifatturiere che ambivano ad effettuare investimenti diretti in Europa e in Giappone. Così, il deflusso di denaro dagli Usa mediante crediti ed investimenti diretti rientrava sotto forma di pagamento di prodotti fabbricati negli Stati Uniti o di forniture di petrolio messe a disposizione dalle compagnie petrolifere statunitensi. Per Washington, si trattava della quadratura del cerchio, poiché il sistema non solo garantiva alle multinazionali Usa nuovi mercati in cui realizzare la propria penetrazione economica, ma, attraverso l’erogazione di crediti denominati in dollari, permetteva ad Europa e Giappone di ottenere materie prime e petrolio senza costringerli a ricavarsi nuove colonie.
Come si è evoluta la divaricazione tra potere imperiale americano e debito estero?
Nel 1959, l’economista belga Robert Triffin richiamò l’attenzione sull’impossibilità, per gli Stati Uniti, di conciliare il perseguimento degli obiettivi domestici a breve termine con l’osservanza degli impegni internazionali contemplati dal meccanismo di funzionamento del Gold Exchange Standard. In base al nuovo sistema monetario, una bilancia dei pagamenti statunitense in attivo avrebbe alimentato spinte rivalutative sul dollaro e alimentato fiducia generalizzata nei suoi confronti, ma anche determinato una penuria di valuta statunitense in circolazione instaurando un clima deflazionistico in grado di soffocare la crescita economica del “blocco capitalista”. A fronte di una bilancia dei pagamenti deficitaria, viceversa, si sarebbe venuto a determinare un eccesso di offerta valutaria destinata a deprimere il corso del dollaro e, di conseguenza, a moltiplicare gli incentivi per i detentori a richiederne la conversione in oro. La soluzione individuata dagli Usa per far fronte a questo “dilemma” è consistita nell’abuso sistematico della propria posizione dominante sotto il doppio profilo (geo)politico ed economico, emerso clamorosamente con la crescita astronomica dei cosiddetti “deficit gemelli” prodotta dalla Guerra del Vietnam. Ne è scaturito un processo di finanziarizzazione che, da quando si è affermato il modello capitalistico (XVI Secolo, grosso modo), hanno intrapreso nel corso dei secoli tutte le potenze egemoniche declinanti. Un meccanismo che consiste nel mettere a profitto parassitario le posizioni di vantaggio accumulate nelle precedenti fasi di sviluppo agricolo e, soprattutto, industriale. Declinato nella forma statunitense, questo processo si è imperniato sui capisaldi della deregolamentazione, della liberalizzazione e della privatizzazione, e si è sviluppato sul piano pratico anzitutto con il graduale allentamento della disciplina bancaria in materia di tassi. Successivamente, si è assistito alla progressiva erosione del McFadden Act e del Glass-Steagall Act, al fine di spezzare i vincoli di natura geografica introdotti per impedire agli istituti di credito di operare su scala interstatale e favorire la ricostituzione delle commistioni tra attività bancarie di tipo commerciale e speculativo che imperversavano nei “ruggenti” anni ’20. Coniugandosi con l’inversione delle politiche monetarie, la deregulation creò il terreno fertile da cui germinò l’alleanza tra lo Stato egemone e l’alta finanza che dominava il mercato dell’eurovaluta, cementata dall’innalzamento vertiginoso dei tassi di interesse decretato dalla Federal Reserve sotto la guida di Paul Volcker. La brutale stretta creditizia varata dalla Fed soffocò l’economia reale e favorì il rimpatrio di capitali da tutto il mondo, condannando i Paesi in via di sviluppo a una crisi devastante e spostando definitivamente il baricentro dell’economia statunitense verso la finanza.
Cosa ha significato, in tale prospettiva, la fine della conversione in oro del dollaro?
Si è trattato di una svolta decisiva, le cui tappe fondamentali risalgono al biennio ricompreso tra il 1971 e il 1973. All’epoca, il ripudio degli accordi di Bretton Woods e la successiva crisi petrolifera scatenata dalla Guerra dello Yom Kippur sancirono lo sganciamento del dollaro dall’oro e il suo ri-ancoraggio al petrolio. Attraverso il meccanismo di “riciclaggio dei petro-dollari”, i proventi in valuta statunitense che i Paesi produttori dell’Opec – e segnatamente l’Arabia Saudita – accumulavano con la vendita del petrolio venivano reinvestiti negli Stati Uniti, sotto forma di acquisti di Treasury Bond, azioni e armamenti. La sconnessione tra dollaro ed oro e la centralità della valuta statunitense nel commercio internazionale ha comportato una sostanziale alterazione della natura stessa della valuta statunitense, perché ha posto la Federal Reserve nelle condizioni di stampare moneta in maniera illimitata. Da quel momento, qualsiasi merce, frutto del lavoro di miliardi di persone in tutto il mondo, è divenuta per gli Stati Uniti accessibile in cambio di biglietti che non richiedono alcuno sforzo per essere prodotti. Un “esorbitante privilegio”, che ha tuttavia fornito il contributo decisivo alla deindustrializzazione del Paese, attuata nell’ambito della “controrivoluzione neoliberale” lanciata nel periodo a cavallo tra la fine degli anni ’70 e i primi anni ’80 sulla scia degli shock petroliferi. Un processo che ha consentito agli Usa di avvalersi dell’apporto fornito dal capitale privato per riconsolidare il predominio del dollaro e reflazionare il loro potere declinante. Il prezzo è stato l’accantonamento del principio dell’equilibrio dei conti con l’estero – di cui la divaricazione strutturale dello stato delle bilance dei pagamenti su scala internazionale è il corollario – e la revoca delle politiche espansive portate avanti fino a quel momento, in conformità a una linea d’azione ispirata ai principi della stabilità della moneta che ha portato alla delocalizzazione della manifattura nazionale e posto le basi per lo smantellamento della struttura welfaristica e salariale allestita all’epoca della Grande Depressione.
In che modo la politica dei vari Presidenti ha condizionato le politiche USA?
In genere, sulla sponda orientale dell’Atlantico si tende ad attribuire alla Casa Bianca un potere di gran lunga superiore a quello di cui dispone effettivamente il presidente Usa, chiamato a una costante opera di negoziazione con il Congresso per poter attuare i propri programmi politico. Detto questo, vi sono stati dei governi che hanno apportato cambiamenti strutturali di enorme rilievo. Penso a Wilson, che dopo aver conquistato il verdetto delle urne grazie a una campagna elettorale imperniata sulla neutralità, intensificò il coinvolgimento degli Usa nel sostegno alle forze dell’Intesa prima di decretare la discesa sul sentiero di guerra capovolgendo l’inerzia del conflitto. Un’altra deviazione fondamentale degli indirizzi statunitensi si verificò sotto l’amministrazione Truman, che rovesciò l’approccio fino-sovietico e anti-tedesco che aveva caratterizzato Roosevelt dando origine alla Guerra Fredda, e instaurando così il clima propizio per la legittimazione di quel keynesismo militare che gli Usa continuano a portate avanti ancora oggi, conformemente alle direttive del fondamentale National Security Council Memorandum numero 68 del 1950. Si pensi poi al doppio colpo di teatro di Nixon, che impose unilateralmente lo sganciamento del dollaro dall’oro e predispose l’apertura alla Repubblica Popolare Cinese ponendo le basi per il soffocamento politico-economico dell’Unione Sovietica. L’amministrazione Reagan, invece, portò a compimento il processo di riconciliazione tra potere pubblico statunitense e Wall Street avviato sotto Carter, rimpatriando capitali da tutto il mondo con il contributo decisivo della Federal Reserve e imprimendo un’accelerata decisiva al processo di delocalizzazione delle produzioni tradizionali sulla base di un progetto egemonico basato sul rilancio dei settori dell’alta tecnologia.
Quali prospettive a Suo avviso, per l’egemonia americana?
Piuttosto fosche. L’egemonia statunitense poggia sul primato internazionale del dollaro, ma Washington riscontra ostacoli sempre meno sormontabili per difendere questa posizione di privilegio. Le spinte concomitanti esercitate dall’ascesa economica e tecnologica della Cina, dallo spostamento del baricentro geopolitico e commerciale della Russia verso est e dalla nascita di un’area di libero scambio imperniata sull’ex Celeste Impero estesa a tutta l’Asia orientale (Rcep) alimentano la tendenza all’abbandono della valuta statunitense, e le poderose scosse di terremoto irradiate dall’attacco russo all’Ucraina e della campagna sanzionatoria che ne è seguita non fanno che accelerare questo processo. L’esclusione degli istituti russi da Swift e la confisca delle riserve valutarie denominate in dollari ed euro custodite dalla Bank of Russia all’estero rappresentano misure estreme, ma destinate a produrre un clamoroso effetto boomerang. Stimolano infatti decine e decine di Paesi a ricercare soluzioni alternative, quali la creazione di sistemi di pagamento paralleli e, soprattutto, la definizione di paradigmi monetari diversi da quello incardinato sul dollaro. Proprio in questi giorni il Fondo Monetario Internazionale ha parlato esplicitamente di «erosione del dominio del dollaro» nell’evidenziare il netto ridimensionamento (dal 71 al 59% tra il 2000 e il 2021) della quota di riserve valutarie mondiali espresse in dollari dovuto a una migrazione generalizzata verso monete alternative alle tradizionali “big four” (dollaro, euro, sterlina e yen). Coniugandosi con la mancata adesione alla campagna sanzionatoria intrapresa dall’Occidente nei confronti della Russia da parte di Cina e di decine e decine di Paesi di tutto il mondo, la ricerca di soluzioni diverse in ambito monetario tende a favorire la segmentazione dello scenario internazionale “globalizzato” in blocchi geoeconomici molto meno comunicanti rispetto a quanto visto sinora. Si prospetta quindi un’accelerazione del processo di deterioramento della posizione dominante di cui il dollaro è titolare dal 1945, incentivata dall’abuso delle sanzioni e dai giganteschi squilibri strutturali che gravano sull’economia nazionale Usa. Con conseguente, crescente incapacità dell’apparato dirigenziale di preservare il tenore di vita della popolazione, basato su un consumo semi-bulimico non compensato da una capacità produttiva minimamente commisurata.
Giacomo Gabellini (1985), saggista e ricercatore indipendente specializzato in questioni economiche e geopolitiche. Tra le sue numerose pubblicazioni, Ucraina. Una guerra per procura (2016), Israele. Geopolitica di una piccola, grande potenza (2017) e Weltpolitik. La continuità economica e strategica della Germania (2019). Collabora con numerose testate italiane e straniere, tra cui la rivista “Eurasia”, il centro studi Osservatorio Globalizzazione e il quotidiano cinese “Global Times”.