
Qual è l’importanza storica della figura di Khomeini?
Quella di aver saputo creare, appunto, un Islam politico che si è fatto forza rivoluzionaria. Una religione non più ‘oppio dei popoli’, secondo il giudizio marxista, ma al contrario una forza antimperialista che ha preso il posto proprio delle correnti socialiste e comuniste nei movimenti antioccidentali partendo dall’Iran per diffondersi poi a tutto il Medio Oriente, dal Libano alla Palestina, all’Algeria, e poi a gran parte del mondo musulmano. Perfettamente consapevole di questo suo ruolo, Khomeini arriva nel 1989 ad inviare un messaggio al presidente sovietico Mikhail Gorbaciov: “La religione che di fronte alle superpotenze ha reso l’Iran saldo come una roccia – gli chiede – è forse l’oppio della società?”. Ma per costruire questa nuova forza antimperialista l’Ayatollah ha dapprima combattuto una guerra contro quella parte del clero sciita, a lungo maggioritaria, che non credeva in un coinvolgimento in politica. Più di una volta Khomeini si scaglia contro i mullah delle grandi scuole teologiche, in Iran e in Iraq, che accusa di preoccuparsi soltanto di “pregare e discutere di cavilli della legge islamica”. A suo modo di vedere, invece, l’Islam e la lotta antimperialista coincidono, perché la religione di Maometto è l’unica forza capace di opporsi all’aggressione colonialista e allo sfruttamento dei popoli musulmani da parte delle grandi potenze. E per questo tali potenze lo vogliono distruggere.
Quali contraddizioni hanno segnato la vita e l’attività di Khomeini?
La prima è quella di un mullah di formazione tradizionalista che però si batte per un rinnovamento all’interno dello stesso clero sciita, adottando una serie di concetti e di termini propri della sinistra. Tra questi, la lotta di una massa di mostazafin, i poveri oppressi, contro i mostakberin, i ricchi oppressori. Ma se le masse di poveri faranno da massa d’urto nelle grandi manifestazioni della rivoluzione, un ruolo fondamentale sarà svolto dai ricchi commercianti del Bazar come finanziatori della rivolta contro lo Shah. E queste due anime contraddittorie continueranno a convivere anche nel sistema economico del nuovo regime islamico. Un’altra contrapposizione è quella che vede un Khomeini convinto nazionalista iraniano farsi paladino di una rivolta internazionalista contro i tiranni. E ancora, un mistico visto con sospetto dal clero conservatore che però difende le forme di culto tradizionali. Un idealista che dà prova di un’astuzia politica spinta fino al cinismo. E un fine estimatore della poesia classica persiana che allo stesso tempo impone le fustigazioni e le amputazioni previste dalla shari’a, la legge islamica. Sul piano umano, poi, la figura del marito e padre amorevole cozza in modo clamoroso con l’immagine di leader rivoluzionario spietato. Ad esempio nel 1981, proprio mentre fa appello alle madri perché consegnino i figli dissidenti alle autorità per farli giustiziare, interviene per fare liberare il nipote Hossein, che aveva denunciato il pericolo di una nascente dittatura religiosa. Poi scrive al giovane una lettera affettuosa e preoccupata, in cui lo invita a tenersi lontano dalla politica e pensare solo a studiare. Insomma, dal punto di vista sia personale sia politico, ci troviamo di fronte ad una figura complessa, che per troppo tempo è stata mitizzata e quindi ridotta ad un’immagine unidimensionale. Una mitizzazione a cui hanno contribuito sia i suoi sostenitori, con la loro sconfinata ammirazione per lui, sia i nemici, con il loro odio profondo.
Quali vicende hanno caratterizzato la sua vita?
Nella formazione della sua personalità di combattente influirono enormemente le durissime condizioni in cui crebbe, in un mondo dove chi voleva sopravvivere doveva imparare a difendersi da solo. “Fin dall’infanzia sono stato in guerra”, dirà Khomeini di quel periodo, ricordando che a 16 anni per la prima volta un anziano gli aveva messo in mano un fucile e gli aveva insegnato ad usarlo contro le bande di briganti che periodicamente attaccavano il suo villaggio, Khomein. L’Iran in cui Khomeini nacque, nel 1902, era una terra dilaniata tra mille poteri locali e segnato dalle prepotenze di signori feudali, capi tribali, milizie e gruppi di predoni. Il futuro Imam della rivoluzione pagò direttamente un prezzo altissimo per questa situazione di anarchia, perché a soli sei mesi perse il padre, Mostafa, un mullah e piccolo possidente terriero ucciso da due capibanda locali nell’ambito di una faida rurale. La situazione divenne ancora più caotica con la Rivoluzione Costituzionale del 1906 e il conseguente indebolimento del potere centrale. E poi con l’invasione degli eserciti stranieri, quelli britannico, russo e ottomano, durante la Prima Guerra Mondiale. Un conflitto tra stranieri combattuto sul territorio nazionale che provocò la morte di due milioni di iraniani, uccisi dalle violenze, ma soprattutto dalla fame e dalle malattie. Proprio un’epidemia di colera provocò la morte della madre di Khomeini, Hajar, e della zia paterna Sahebeh, che nella sua formazione aveva avuto una grande influenza. Ruhollah aveva solo 16 anni, e poco dopo lasciò Khomein per non farvi più ritorno, cominciando gli studi religiosi nella città che sarebbe rimasta per sempre nel suo cuore, Qom. Khomeini sarebbe anche diventato il primo Grande Ayatollah a svolgere per intero la sua formazione in Iran, e non nelle città sante della Mesopotamia, in particolare Najaf, nell’attuale Iraq. I segni lasciati dagli eventi di questi primi anni si possono ritrovare nella personalità e nell’azione politica di Khomeini per il resto della sua vita: nel suo carattere di combattente mai domato, come ho già detto, nella sua azione nazionalista contro le ingerenze delle grandi potenze e nella rivolta contro una monarchia giudicata incapace di proteggere l’onore del Paese e la dignità dell’Islam. Ma anche nei suoi metodi spietati. Un esempio è la sorte riservata al generale Hassan Pakravan, già capo della Savak, l’organizzazione per la sicurezza ai tempi della monarchia, che nel 1963 aveva cercato di avviare un dialogo con le opposizioni, aveva abolito la tortura e aveva salvato la vita allo stesso Khomeini convincendo lo Shah a non farlo giustiziare dopo una prima rivolta. Subito dopo la rivoluzione del 1979, Khomeini non mostrò alcuna riconoscenza, e anzi Pakravan fu tra i primi esponenti del deposto regime ad essere passato per le armi in seguito a un processo sommario.
Quale fu il ruolo dell’ayatollah nella rivolta contro Mohammad Reza Pahlavi?
Un ruolo insostituibile. Khomeini era stato appunto il leader di una prima sollevazione contro lo Shah nel 1963, guidando il clero e gli ambienti tradizionalisti del Bazar in un movimento contro la cosiddetta Rivoluzione Bianca varata dal Re, che prevedeva tra l’altro una riforma agraria con la distribuzione delle terre ai contadini e l’introduzione del diritto di voto e di elezione per le donne. Si trattava dunque ancora di battaglie di retroguardia, ma una volta esiliato, a partire dal 1964, Khomeini cominciò ad assorbire concetti e linguaggio tipici dei movimenti laici e di sinistra, proponendosi come il capo di un’opposizione che voleva sì salvaguardare il ruolo del clero, ma allo stesso tempo proponeva obiettivi che gli consentirono di ottenere il sostegno anche di movimenti non religiosi, come l’opposizione alle ingerenze delle grandi potenze, il sostegno alla causa palestinese contro Israele e l’appello alla rivolta degli ‘oppressi’. Ma l’inizio della rivoluzione che avrebbe portato alla caduta dello Shah, nel 1979, non vide i religiosi tra i protagonisti. A scatenare la crisi fatale per il regime monarchico furono il malcontento economico per l’abbandono dei faraonici piani di sviluppo dello Shah, a causa di un crollo dei prezzi petroliferi seguito al boom del 1973-1974, e contemporaneamente un processo di liberalizzazione politica avviata dallo stesso sovrano sotto l’influenza del nuovo presidente americano Jimmy Carter. L’allentamento della censura consentì a partire dal 1977 agli esponenti della storica opposizione laica di farsi sentire, insieme alle proteste per la crisi economica che si concretizzavano in manifestazioni all’inizio isolate e disorganizzate. Fu solo verso la fine di quell’anno che l’opposizione religiosa, guidata da Khomeini, cominciò gradualmente a prendere il sopravvento. Ma è indubbio che solo l’Ayatollah, in una società tradizionale come quella iraniana, aveva il potere di far muovere milioni di manifestanti, come fece. In questo senso si può dire che senza di lui probabilmente il regime dello Shah non sarebbe stato abbattuto.
Qual è l’eredità di Khomeini?
Per rispondere a questa domanda bisogna scindere il piano interno da quello internazionale. In Iran la rivoluzione khomeinista non è riuscita a realizzare pienamente le promesse di riscatto dei poveri, di purificazione della società attraverso i valori islamici, l’eliminazione dell’ingiustizia e, in definitiva, quella palingenesi in cui le masse avevano creduto nell’euforia incontrollabile dei mesi che portarono alla caduta dello Shah. Ma sul piano esterno la rivoluzione ha realizzato pienamente due dei suoi obiettivi: l’indipendenza del Paese dopo tanti anni di ingerenze straniere e l’affermazione di un Islam politico che ha scalzato il marxismo come ideologia antimperialista. Lo spiega molto chiaramente uno dei personaggi a cui ho dato la parola nel mio libro, il libanese Anis Naccache, già responsabile di campi di addestramento per guerriglieri di Al Fatah in Libano, dove si formarono molti oppositori dello Shah, poi tra gli organizzatori delle Guardie della Rivoluzione in Iran e infine capo del commando che nel 1980 fu inviato dal nuovo regime islamico in Francia per cercare di uccidere Shapour Bakthiar, l’ultimo premier del periodo monarchico. “La rivoluzione – dice Naccache – dal punto di vista economico e sociale non ha realizzato modelli che siano esportabili. Dal punto di vista morale, poi, all’inizio la Repubblica Islamica è riuscita a fermare la deriva verso i valori occidentali, ma poi non è riuscita a concretizzare i valori islamici come ci si aspettava. Non ci sono statistiche che dicono che quella iraniana sia più umana e più pulita di altre società. Quando la gioventù cade nella droga, vuol dire che c’è un problema sociale. E le carceri sono strapiene di detenuti. Tuttavia per me quello che conta è la lotta antimperialista. Io pensavo che l’Iran islamico sarebbe stato il migliore alleato della resistenza palestinese e per la liberazione della regione dall’egemonia americana. Fino ad oggi i fatti dimostrano che la mia analisi era giusta”. Ma i fallimenti di cui parla Naccache gettano più di un’ombra sul futuro della Repubblica Islamica. Le carenze ideologiche dal punto di vista economico e sociale sono state compensate durante la vita di Khomeini dal suo carisma di leader rivoluzionario e religioso che ne ha fatto una figura mitica, e sicuramente unica. Dopo la morte i valori da lui incarnati, anche nel suo stile di vita povero, sono andati via via indebolendosi. Le differenze sociali, la corruzione, la povertà, sono tornati pesare sulla capacità di tenuta del regime. Più che mai risuona oggi come attuale un monito rivolto ai dirigenti del regime dall’Ayatollah nel suo testamento politico-spirituale: “Tutti voi avete bisogno dell’appoggio del popolo, specialmente delle classi povere. Se un giorno perderete questo sostegno, gli oppressori vi metteranno da parte e prenderanno il vostro posto nello stesso modo in cui avete rovesciato il regime monarchico oppressore”.