“Kazakistan: fine di un’epoca. Trent’anni di neoliberismo e geopolitica nel cuore della terra” di Fabrizio Vielmini

Prof. Fabrizio Vielmini, Lei è autore del libro Kazakistan: fine di un’epoca. Trent’anni di neoliberismo e geopolitica nel cuore della terra, edito da Mimesis: che importanza riveste, nello scenario geopolitico eurasiatico attuale, il Kazakistan?
Kazakistan: fine di un’epoca. Trent’anni di neoliberismo e geopolitica nel cuore della terra, Fabrizio VielminiL’importanza del Kazakistan è inversamente proporzionale al grado di consapevolezza che se ne ha in Italia ed Europa. Si tratta di un paese enorme (2.724.000 km2), consustanziale alla struttura geopolitica della Russia oltre che un antemurale nei confronti della Cina, con la quale condivide oltre 4000 km di confine. Tale spazio gigantesco è occupato da soli 18 milioni di abitanti e dunque più che fragile di fronte all’emersione della potenza cinese ed ai sommovimenti della fascia di paesi musulmani che lo delimita a meridione, a diretto contatto con l’instabilità afghana.

In termini economici, il Kazakistan ha intrecciato importanti legami con l’Italia, divenuta il primo partner commerciale in Europa, e principale acquirente dei suoi prodotti petroliferi, con un interscambio commerciale che nel 2022 ha toccato la cifra record di quasi 15 miliardi di euro (per far le dovute proporzioni, analogo a quello fra il nostro paese ed un gigante quale l’India).

In che modo Nazarbaev ha costruito un sistema neo-patrimoniale basato su una piramide a vertice familiare?
Dopo aver ereditato il comando su tale consistente porzione dell’ex-URSS al crollo di fine 1991, Nursultan Nazarbaev si è rivelato un attore politico di altissimo livello. Venuta meno la dipendenza da Mosca, egli ha immediatamente assunto le regole della globalizzazione e del mondo unipolare, negoziando un posto per il suo regime nella gerarchia di potere facente capo a Washington. Ancora sotto l’URSS, il 31 agosto 1991, Margaret Thatcher in persona è la prima “plenipotenziaria dell’Occidente” a ricevere le credenziali di Nazarbaev[1].

Tale riposizionamento si è svolto riorientando il potenziale economico del Kazakistan sull’estrazione delle materie prime. Gli asset che non sono stati affidati direttamente alle major dell’energia anglo-americane sono stati controllati da dignitari facenti capo alla verticale del potere costruita da Nazarbaev. Rinominatosi, “Elbasy” (‘leader della nazione’), Nazarbaev ha avuto cura di custodire gli enormi proventi delle ricchezze in differenti nicchie dell’universo di capitali offshore controllati in particolare dalla Gran Bretagna. In parallelo, Nazarbaev si è presentato quale un leader visionario, deciso ad integrare la nuova élite transnazionale della globalizzazione, in sintonia con figure del mainstream politico occidentale quali Tony Blair e la sua “Terza Via”. Nel 2011, Blair divenne “consigliere di corte” di Nazarbaev per aiutare a contenere il discredito del regime susseguito agli eventi di Žanaozen (prima repressione poliziesca di una folla in protesta contro lo sfruttamento neoliberale) conferendo legittimità all’establishment kazako. La Gran Bretagna è stata fondamentale per il consolidamento del regime e mantiene profonde leve d’influenza anche oggi nel paese.

Che impatto ha avuto, sulle vite dei cittadini kazaki, la selvaggia ristrutturazione sociale neoliberale negli anni Novanta?
Un impatto devastante. I cittadini del Kazakistan erano largamente integrati nel sistema sovietico che aveva garantito loro fra gli anni 60 ed 80 apprezzabili livelli di vita, con istruzione di qualità, abitazioni garantite e sanità universale. La scomparsa del sistema (e la liquidazione del patrimonio industriale che questo aveva creato a favore dello sfruttamento delle materie prime) hanno privato di senso le vite di milioni di persone, costringendoli a ridefinire la propria identità e posizione del mondo ed esponendoli a privazioni draconiane. A soffrire sono stati in particolare gli allora quasi sette milioni di russi etnici, a cui sono state imposte misure discriminatorie etno-nazionaliste cause di enorme stress psicologico e che hanno in definitiva forzato una buona metà verso l’emigrazione. Questo, va ricordato, in un momento in cui la Russia stessa era demolita dal controllo esterno neo-liberale e non prestava alcuna attenzione alla sorte dei compatrioti ritrovatisi al di fuori delle frontiere artificiali create dalla spartizione dell’URSS.

Quali sfide pone al Kazakistan e a tutta l’Eurasia la Cina?
Una sfida esistenziale. Dopo essere stato deluso sia dalle controparti occidentali che da quelle russe, il Kazakistan si è ingaggiato attivamente nel progetto di globalizzazione propugnato dalla Cina, basato sul progetto “Belt and Road Initiative” (BRI) o “Nuova Via della Seta”. Pechino si è interconnessa con il Kazakistan attraverso una serie di progetti infrastrutturali volti a collegare la propria economia con quelle d’Europa ed Medio Oriente. In tal modo ingenti capitali cinesi si sono riversati nel paese, in una penetrazione economica tale da strutturarne in profondità il futuro profilo economico e anche sociale. Come del resto dell’Asia centrale ex-sovietica, i capitali cinesi tendono a destrutturare tessuti industriali di per sé deboli spingendo le economie locali verso una condizione dipendente di fornitori di materie prime. In prospettiva poi, tali dipendenze potrebbero traslare dal piano economico a quello geopolitico, anche perché i cinesi tendono a comprare sotto banco fedeltà politica presso i funzionari locali. Simili pratiche hanno poi creato malcontento a livello delle masse escluse dai benefici delle “bustarelle” elargite dai cinesi, alimentando una certa sinofobia di fondo, da sempre presente fra la massa dei kazaki e degli altri centrasiatici. Tale fattore è destinato a crescere creando tensioni attraverso il paese e nelle sue relazioni con Pechino.

Finora, la presenza russa ed i tentativi di Mosca di creare un’area economica protezionistica hanno costituito un argine al dilagare della penetrazione cinese. Si è venuto a creare un meccanismo di divisione del lavoro fra russi e i cinesi in cui i primi davano forma ai meccanismi di sicurezza regionali mentre i secondi si occupavano di sviluppo economico e progetti infrastrutturali. La guerra in Ucraina ha colpito tale meccanismo. Impelagata in Ucraina di fronte alla NATO, la Russia rischia di venirsi a trovare senza risorse investibili nella sicurezza lungo il suo fianco sud kazakistano-centrasiatico. Il subitaneo scivolamento nel caos del Kazakistan nel gennaio 2022 ha rappresentato uno shock per la geopolitica cinese. Se in quell’occasione Pechino ha lasciato ancora campo libero all’azione della Russia, ciò potrebbe non essere valido in un futuro in cui i cinesi, temendo per la sicurezza dei propri investimenti e posizione regionale, potrebbero perseguire opzioni politiche al di fuori dell’accordo con Mosca.

Come si sono evolute le relazioni tra Kazakistan e Russia?
Dopo la deriva degli anni di Eltsin, la nuova Russia di Putin ha dedicato l’attenzione dovuta ad un partner fondamentale quale il Kazakistan. Si è venuto a creare un importante tandem per la stabilità di tutto lo spazio post-sovietico, espresso nella costituzione dell’Unione Economica Eurasiatica (UEEA), atto di neo-regionalismo alternativo alla globalizzazione tanto occidentale che cinese. Tuttavia, le potenzialità della cooperazione fra i due paesi sono state inficiate dai caratteri patrimoniali e neoliberali (e dunque predatori e auto-referenziali) presenti nei regimi al potere, tanto ad Astana quanto a Mosca. Dal lato russo il problema principale è stato l’inconsistente articolazione di un progetto autenticamente eurasiatico, anche date le ambizioni geopolitiche del regime di Putin nella sua volontà di affermazione sulla scena internazionale. Inoltre, al pari di quanto fatto in Ucraina, Mosca ha seguito un approccio limitato, consistente nel sostegno incondizionato al regime al potere nella capitale (anche data la necessità di controbilanciare l’influenza statunitense) senza articolazione in profondità verso la società kazakistana, con conseguente alienazione di ampi settori di quest’ultima.

Che bilancio si può trarre dell’esperienza kazakistana d’interazione con l’Occidente?
L’ambizione del libro è quella di fare del Kazakistan un caso di studio di come l’Occidente abbia fallito la grande occasione presentata dal venir meno della sfida sovietica alla fine degli anni 80. Si presentò allora la possibilità di ricostruire le relazioni internazionali nel grande spazio fra Atlantico e Pacifico, creando un’area di prosperità comune in cui le capacità tecniche occidentali avrebbero potuto essere potenziate dalle risorse umane e naturali presenti all’interno dell’ex-blocco sovietico. Al contrario, ciò non venne neanche considerato per privilegiare un modello di sfruttamento delle risorse e di finanziarizzazione dei rapporti economici, funzionale al mantenimento della subordinazione europea agli USA. Tale esito è dunque in primo luogo la responsabilità dei paesi dell’Unione Europea e delle strutture comuni che si sono venute costituendo durante gli anni dell’indipendenza del Kazakistan. Il capitolo dedicato ai rapporti fra UE e Kazakistan dimostra come le politiche europee verso il paese (e l’ex-URSS in generale) siano state particolarmente miopi ed inette, poiché improntate ad una visione economicista incapace di prefigurare prospettive future. Come anche dimostrato dall’esperienza ucraina, nel suo autismo geopolitico, l’UE si è mossa sulla scia della strategia anglo-americana per la regione, finendo per considerare il Kazakistan un terreno su cui opporsi agli interessi della Russia. Il risultato finale è stato un sostanziale sperpero di risorse solo parzialmente compensato dal ritorno in termini d’energia, che non può in alcun caso sostituire quanto si evita d’importare dalla Russia. Il tutto crea un meccanismo che finisce per fare gli interessi dei cinesi (ed in parte anche turchi) danneggiando quelli europei.

Quali prospettive, a Suo avviso, per il Kazakistan?
Sfortunatamente, le prospettive non sembrano essere fra le migliori. Dopo aver superato il breve ma profondo shock delle sommosse del gennaio 2022, quando sembrò sul punto di sprofondare nelle violenze di piazza aizzate da elementi del vecchio regime, il Kazakistan è immediatamente incorso nell’ulteriore shock dell’attacco russo all’Ucraina. Di fronte alla visione di tale violenza fratricida, molti cittadini kazakistani si chiedono se anche il loro paese potrà conoscere un simile destino.

Timoniere di un veliero attraversante mari in tempesta, il Presidente Tokaev sta cercando di costruire un “nuovo Kazakistan” atto a superare le contraddizioni ereditate dal suo predecessore. Tuttavia, a fianco dell’incertezza geopolitica, permane il nodo degli enormi capitali custoditi nei paradisi finanziari britannici. Questo conferisce alle stesse forze occidentali che hanno soffiato sul fuoco del conflitto in Ucraina la possibilità d’influire sulle scelte politiche del Kazakistan, impedendo la ristrutturazione in senso socialista che sarebbe fondamentale per ricostruire il patto sociale all’interno e la cooperazione eurasiatica all’esterno. Il peggio potrebbe essere ancora al di là da venire.

Fabrizio Vielmini, esperto di Russia, Caucaso ed Asia centrale, è analista per Vision & Global Trends-International Institute for Global Analyses (https://vision-gt.eu), già professore associato (relazioni internazionali) per la Webster University di Tashkent (Uzbekistan). Fra il 2002 ed il 2021 ha vissuto e lavorato nell’area ex-sovietica dove ha ricoperto posizioni all’interno dell’OSCE (Organisation for Security and Cooperation in Europe) in Kazakhstan e in Kyrgyzstan e poi per l’Unione Europea in Georgia.
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[1] L’incontro è riportato da Jonathan Aitken, ex-ministro britannico condannato per corruzione nel 1999, riciclatosi in agiografo di Nazarbaev. In tale occasione la Iron Lady ironizzò: “sembra che dal comunismo stiate passando al Thatcherismo. Cfr. J. Aitken, Nazarbayev and the making of Kazakhstan, Bloomsbury, Londra 2009.

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