“Jihad in Africa. Terrorismo e controterrorismo nel Sahel” a cura di Edoardo Baldaro e Luca Raineri

Prof. Edoardo Baldaro, Lei ha curato con Luca Raineri l’edizione del libro Jihad in Africa. Terrorismo e controterrorismo nel Sahel pubblicato dal Mulino: quale rilevanza ha acquisito il Sahel nella lotta al terrorismo globale di matrice jihadista?
Jihad in Africa. Terrorismo e controterrorismo nel Sahel, Edoardo Baldaro, Luca RaineriSe vent’anni fa il termine stesso di Sahel avrebbe evocato scenari geografici confusi e sfuggenti, in cui anche l’osservatore ben informato non avrebbe saputo stabilire con precisione a quale area del continente africano si faceva riferimento, ancora dieci anni fa un libro dedicato alla regione avrebbe probabilmente trattato principalmente di sottosviluppo e crisi umanitarie, fenomeni spesso attribuiti all’intero continente africano. Oggi, il volume curato da me e dal collega Luca Raineri si inserisce all’interno di un dibattito pubblico e accademico che, in Italia e in Occidente, vede invece nel Sahel uno dei principali luoghi di sviluppo dell’ormai inscindibile diade tra Guerra Globale al Terrore e Jihad Globale.

In effetti, l’importanza assunta dal Sahel come uno dei teatri principali di questo scontro costituisce una delle principali novità nel panorama del (contro)terrorismo internazionale. Questo è avvenuto per diverse ragioni. Da un lato, dopo la regressione del Califfato in Medio Oriente, l’Africa è diventata la frontiera di espansione delle franchise del terrorismo globale di matrice jihadista, Al-Qaeda e Stato Islamico. Se il Sahel costituisce uno dei più importanti teatri – in Africa e nel mondo – in cui vanno in scena le dinamiche intrecciate del jihadismo e della Global War on Terror, insorgenze a trazione salafita sono ormai individuabili in Libia, in Somalia e nel Corno d’Africa, in Mozambico, in Congo e in Nigeria. Questo non è dovuto a una presunta “propensione” africana all’estremismo, alla violenza o al caos, ma perché decenni di esperienza hanno insegnato alle reti del jihadismo internazionale come intercettare e riappropriarsi di istanze e lotte “locali” e spesso dirette contro stati fragili e corrotti, fino a trasformarle – almeno ai nostri occhi – in componenti di un più ampio movimento di insorgenza globale.

Dall’altro lato, in quanto snodo del Mediterraneo allargato e del vicinato espanso dell’Unione Europea, il Sahel è divenuto anche uno dei luoghi dove i principali attori del controterrorismo internazionale hanno profuso i maggiori sforzi, per cercare di rispondere al persistere delle crisi securitarie, ambientali e migratorie che negli anni recenti hanno conferito a quest’area una rilevanza inedita presso i decisori politici, gli studiosi e il dibattito pubblico anche in Italia. Sui territori di Mauritania, Mali, Niger, Burkina Faso e Ciad Unione Europea e Francia hanno sviluppato strategie e missioni di sicurezza e di difesa, dispiegato migliaia di uomini e speso decine di miliardi in aiuti allo sviluppo, il tutto con l’obiettivo di arrestare i conflitti di quest’area e stabilizzare la propria “frontiera meridionale”. Sforzi inferiori ma comunque decisivi sono stati profusi anche da Stati Uniti e Nazioni Unite. In tal senso, l’influenza sempre maggiore esercitata dalla Russia e dal suo Wagner Group in Mali dimostra come questa regione sia diventata un’area appetibile anche per altre potenze, impegnate oggi a rimettere in discussione e a sfidare l’egemonia occidentale in diverse aree del globo.

Come in un gioco di specchi, insurrezioni jihadiste e iniziative di controterrorismo internazionale si sono in un certo senso “legittimate” e alimentate a vicenda nel corso dell’ultimo decennio, alimentando crisi preesistenti e creandone di nuove, fino a rendere il Sahel una delle aree più instabili e in preda alla violenza dell’intero continente africano. I contributi del nostro volume, esito di prolungati studi sul campo, cercano di offrire chiavi di lettura critiche per comprendere origini e sviluppo della crisi del Sahel, e per rispondere alla domanda del perché questa perduri ancora oggi assumendo forme sempre più preoccupanti. Da questo punto di vista, comprendere ciò che accade in Sahel può potenzialmente gettare una luce su molte delle trasformazioni in atto in ampie parti del cosiddetto Sud Globale.

Quali sono i principali fattori di radicalizzazione e mobilitazione jihadista in Sahel?
La domanda è complessa e non ha un’unica risposta. In generale, quando si parla di radicalizzazione in letteratura si tende ad individuare un’ampia gamma di fattori che spiegherebbero la mobilitazione armata e la scelta – sia individuale che collettiva – di unirsi a gruppi combattenti di stampo salafita. Spesso con riferimento alle insorgenze presenti in aree estremamente povere quali i paesi saheliani, si fa riferimento alle motivazioni di tipo economico: più che per ragioni ideologiche o religiose, i giovani disoccupati che ingrossano le fila dei gruppi legati ad al-Qaeda e Stato Islamico sarebbero motivati dai guadagni prospettati a chi si unisce ai mujahidin. Una variante di questa spiegazione parla della volontà di chi si unisce a questi gruppi – spesso giovani, o comunque appartenenti alle classi meno abbienti e più marginalizzate all’interno delle proprie società – di trovare un modo per migliorare il proprio status e la propria condizione, di fronte a una realtà in cui ogni forma di mobilità sociale è negata. Altri studiosi sposano invece la retorica che vede al-Qaeda e Stato Islamico come espressioni di insorgenze veramente globali e tra loro interconnesse, una sorta di rivolta generalizzata e coordinata che è riuscita a espandersi in tutto il globo grazie al sostegno finanziario di alcuni regimi – in primis quello saudita – e all’azione di “professionisti” della jihad, a partire da quei guerriglieri che dall’Afghanistan degli anni Ottanta si spostarono a combattere in Algeria, in Bosnia e in Cecenia nel corso degli anni Novanta e primi Duemila.

Pur senza negare l’influenza che i fattori materiali e ideologici esercitano nel determinare il “successo” dei gruppi jihadisti, il Sahel sembra però raccontare soprattutto del ruolo centrale che gli stati e i regimi locali giocano nel creare e nell’alimentare le condizioni che portano al conflitto e alle insurrezioni armate. In forme e con intensità diverse, ma in Mali, così come in Ciad, in Mauritania o in Niger e Burkina Faso, i regimi locali hanno infatti spesso sviluppato forme di governo corrotte e predatorie, caratterizzate dall’estrazione forzosa di risorse senza che in cambio venissero forniti servizi pubblici adeguati, dal malfunzionamento del sistema giudiziario e dalla marginalizzazione di intere comunità e gruppi etnici non inseriti nei circuiti di potere istituzionale. Proprio la repressione esercitata contro comunità e gruppi sociali non inseriti all’interno delle reti di potere costruite dai regimi locali ha ricevuto l’inconsapevole, ma pur sempre decisivo avvallo dei partner internazionali, che sostenendo governi e forze di sicurezza teoricamente impegnati a combattere i gruppi jihadisti, hanno finito con il rafforzare le capacità repressive di attori interessati prima di tutto a mantenersi al potere. In questo senso, le ricerche più recenti mostrano chiaramente come buona parte dei combattenti che si uniscono ai gruppi jihadisti attivi nel Sahel, lo fanno contro e per difendersi dallo stato, visto come ingiusto e violento. Dall’altra parte, proprio l’abilità che i gruppi jihadisti hanno dimostrato nell’intercettare queste istanze di natura principalmente locale, ne sta anche cambiando la natura: che si parli di Jamaat Nusrat al Islam wa al Muslimin (JNIM), della Katiba Macina o dello Stato Islamico nel Grande Sahara – i principali gruppi legati ad al-Qaeda o allo Stato Islamico presenti nella regione -, si dovrà constatare come più che cercare di costruire un califfato islamico globale, queste formazioni ormai perseguano agende e obiettivi di natura sempre più locali.

In che modo nel «Sahelistan» violenza politica, jihadismo armato e movimenti indipendentisti si sono intrecciati?
Il meccanismo è quello presentato nella risposta alla domanda precedente. Il caso dei Tuareg prima, e dei Peul poi, sono da questo punto di vista emblematici. In Niger e Mali, per ragioni che affondano le radici nella storia della regione e nell’epoca coloniale, i Tuareg hanno storicamente rappresentato una comunità restia ad essere integrata all’interno della cornice politica e istituzionale degli stati postcoloniali. Il Mali in particolare ha conosciuto nel corso della sua giovane storia ben tre rivolte delle sue popolazioni del nord prima di quella che, nel 2012, ha dato convenzionalmente il via alla crisi che perdura tutt’oggi. Proprio nel 2012 si è assistito per la prima volta al saldarsi tra le istanze indipendentiste di popolazioni che hanno sempre mantenuto un rapporto conflittuale con lo stato centrale, e le insorgenze jihadiste che si erano sviluppate nell’area nel corso del decennio precedente. Questo è avvenuto grazie ai rapporti che dai primi anni Duemila gli esponenti di al-Qaeda nel Maghreb Islamico (AQMI) – quasi tutti fuoriusciti della guerra civile algerina del decennio precedente – avevano saputo creare con le comunità locali; ma anche e soprattutto grazie al fatto che le varie componenti di questa ribellione avevano un nemico comune, ovvero lo stato maliano. Da questo punto di vista, nei dieci anni precedenti alla rivolta del 2012 lo stato maliano si era maggiormente impegnato a reprimere ogni avvisaglia di irredentismo Tuareg, che non a contrastare l’impiantarsi di AQMI nelle sue regioni settentrionali. Questa scelta ha finito con il rafforzare la convinzione anche presso le componenti laiche della rivolta tuareg, che un’alleanza con i gruppi jihadisti fosse non solo possibile, ma addirittura auspicabile. E se nel 2012 i gruppi jihadisti a un certo punto presero il sopravvento e cacciarono la componente secolare della ribellione dai territori strappati allo stato maliano, non si può non notare oggi come il capo supremo di JNIM – il gruppo che riunisce le principali componenti legate ad al-Qaeda in Sahel – sia Iyad ag Ghali, un Tuareg di Kidal e già eroe del nazionalismo tuareg, convertitosi nel frattempo al salafismo armato, ma pur sempre portatore di un’agenda politica che mira a fondere in un’unica guerra di liberazione le istanze islamiste e nazionaliste presenti in Mali. In maniera simile negli ultimi anni il messaggio jihadista è riuscito ad attecchire con un certo successo presso alcuni degli strati sociali più bassi della comunità Peul, a sua volta popolazione nomade presente in tutto il Sahel e storicamente vittima di discriminazioni e repressione da parte degli stati locali. Chi parla di “Jihad peul” non compie solo un errore analitico, ma rischia anche di legittimare i discorsi sempre più violenti che nelle capitali del Sahel cominciano a giustificare prospettive da vera e propria pulizia etnica. Tuttavia, è innegabile che i gruppi jihadisti abbiano trovato un terreno a loro favorevole soprattutto presso la comunità Peul, proprio a causa delle violenze e delle discriminazioni che questa ha dovuto subire già in passato.

Quali risposte hanno approntato Stati e comunità internazionale di fronte alla minaccia jihadista in Sahel?
Le risposte sono state molte e differenziate, anche se tutte hanno avuto in comune l’idea di mettere al centro l’aspetto securitario e la necessità di rafforzare le capacità di controllo degli stati locali. L’iniziativa forse più famosa resta l’Opération Barkhane, la missione militare francese che per sette anni ha condotto operazioni di controterrorismo in tutta la regione potendo contare su 5100 uomini nel suo momento di massima espansione. Ma anche l’Unione Europea ha dispiegato tra Mali e Niger tre missioni di difesa e sicurezza attraverso cui ha contribuito a formare le forze di sicurezza locali, e ha dedicato al Sahel tre strategie e speso miliardi di euro in programmi di sicurezza e sviluppo nel corso dell’ultimo decennio. Gli Stati Uniti hanno in Niger droni e una base per le sue forze speciali, mentre le Nazioni Unite hanno dispiegato dal 2013 in Mali una missione di peacekeeping formata da più di 13000 uomini. Anche l’Italia ha partecipato a questo sforzo internazionale: dal 2015 in poi – in corrispondenza con il picco della cosiddetta “crisi migratoria” che nel Sahel aveva uno dei suoi principali luoghi di transito – il nostro paese ha aperto ambasciate in tutti i paesi del Sahel, ha inviato una missione di addestramento militare in Niger, e avrebbe dovuto partecipare con il secondo contingente militare dopo la Francia, alla task force europea di controterrorismo Takuba. La complessa architettura di controterrorismo e sicurezza sviluppata dalla comunità internazionale in Sahel sta tuttavia attraversando una fase di profonda riconfigurazione, legata soprattutto alle conseguenze che i diversi colpi di stato militari prodottisi in Mali, Burkina Faso e Ciad stanno producendo nella regione, e sui rapporti tra regimi locali e partner internazionali. Il Mali in particolare, per anni architrave delle strategie di sicurezza occidentali, sta rompendo tutti i rapporti con i suoi partner storici, Francia in primis, costringendo la comunità internazionale a “ripiegare” sul Niger, unico paese ancora percepito come sufficientemente stabile e disponibile a cooperare nell’area. Tuttavia, i diversi colpi di stato che hanno deposto governi quasi sempre disfunzionali e corrotti, ma comunque democraticamente eletti, non sembrano poter essere compresi prescindendo da quel processo di militarizzazione della regione e della sua vita pubblica, favorito proprio dalle iniziative degli attori internazionali. In tal senso, dieci e più anni di interventi internazionali e di politiche di sicurezza in Sahel hanno finito con il rivelarsi alla fine dei conti incapaci, di affrontare le cause profonde che stanno determinando il perdurare della crisi nella regione.

Edoardo Baldaro è ricercatore presso l’Université Libre di Bruxelles e associato alla Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa. Ha conseguito il dottorato in Scienze Politiche presso la Scuola Normale Superiore di Firenze

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