
L’Inquisizione infatti, come sappiamo, fu bersaglio, per tutto il Settecento, di critiche sferzanti da parte degli illuministi (e non solo!): agli attacchi polemici provenienti dagli intellettuali fecero seguito disposizioni sovrane o sommosse popolari che compromisero vieppiù, nel corso dei secoli, la pressoché totalità degli archivi dei singoli tribunali italiani. Da un punto di vista storiografico, ad esempio, è difficile immaginare un evento più catastrofico di quell’ordine del sacro romano imperatore Giuseppe II, il quale, nella seconda metà del XVIII secolo, dispose la distruzione delle scritture giudiziarie, contabili e amministrative dei tribunali inquisitoriali italiani ricompresi nei suoi domini: se la disposizione imperiale evitò certo vendette e rappresaglie nei confronti di indagati mai condannati o delle famiglie eredi di quei condannati, è altrettanto chiaro come la perdita di una tale, cospicua massa di fonti rappresenti un disastro catastrofico per gli studi storici successivi.
Anche da questo canto, quindi, sorgono le difficoltà nel ricostruire non tanto le linee generali dell’azione inquisitoriale – su questo punto, oramai, esistono tanti studi magistrali, tra i quali voglio perlomeno qui ricordare l’imponente Dizionario Storico dell’Inquisizione, oltre agli studi di John Tedeschi e Thomas Mayer – quanto le vicende locali dei singoli mandamenti. Dobbiamo infatti rammentare che, se l’Inquisizione romana fu sì strettamente controllata dalla congregazione del Sant’Uffizio a Roma, l’amministrazione quotidiana delle cause era demandata ad una diffusa rete di tribunali periferici, sparsi per tutto il settentrione ed il centro della penisola.
È in questo quadro che un’opera come la Tabula del Muzio acquista tutto il suo valore: se dovessimo descriverne il più stringatamente possibile la natura, dovremmo dire che si tratta di un ponderoso catalogo bio-bibliografico che prende in considerazioni tutti gli inquisitori domenicani operanti nella penisola dal 1542 (anno di rifondazione dell’Inquisizione da parte di papa Paolo III con la bolla Licet ab initio) al 1730 (anno della morte del Muzio): si tenga presente che stiamo parlando della quasi totalità degli inquisitori italiani, essendo stato l’ufficio di giudice della fede demandato (dalla congregazione del Sant’Uffizio) pressoché totalmente alle cure dell’ordine dei Predicatori (i Minori Conventuali di san Francesco operarono invece in Toscana e in alcuni tribunali veneti).
Questa massa di dati si rivela preziosissima per la ricerca storiografica: sebbene molti passi in avanti siano stati fatti in anni recenti, è ancora sostanzialmente valida quella conclusione di inizio millennio di Adriano Prosperi, secondo la quale, dopo un’intensa stagione di studi sugli imputati, sugli eretici e sulle loro motivazioni, lo scavo più promettente è quello che si concentrerà intorno al lato istituzionale dell’Inquisizione, sulle sue procedure, sui suoi giudici, sulle sue dottrine.
Da questo punto di vista, in particolar modo, ancora molto lavoro rimane da fare per la corretta collocazione del tribunale del Sant’Uffizio nel più ampio panorama dei Grandi Tribunali d’ancien régime, quelle blasonate istituzioni giudiziali che, sparse per tutto il suolo europeo, a partire dal Cinquecento, furono i veri motori dell’ordinamento giuridico del continente. Non bisogna infatti sottovalutare come il diritto dell’Inquisizione, le sue procedure e i suoi risultati – pur venati di rilevanti profili di specialità – risultino pienamente inseriti nel contesto del diritto vigente in età moderna: concentrarsi solo sull’aspetto particolare del diritto inquisitoriale tralasciando il vivo e fecondo rapporto di questo con lo ius commune europeo (ossia col sistema giuridico dal quale esso trasse origine) sarebbe un grave errore metodologico, paragonabile a quello di chi si mettesse a sondare le profondità di un oceano con gli strumenti approntati per lo scandaglio di un fiume.
Quale rete di rapporti intercorrevano tra il Sant’Uffizio romano e i tribunali periferici?
Questo è proprio uno tra gli aspetti che l’edizione della Tabula e il successivo studio monografico puntano a far emergere: siamo ancora in una fase preliminare ma, per limitarci al solo aspetto delle carriere degli inquisitori, i risultati sembrano assai promettenti.
Facciamo un esempio: mettendo da parte qui le vite degli inquisitori illustri (come ad esempio Pio V – che è mio condiocesano: anche lui nacque, nel 1504, in diocesi di Tortona –: egli, che viene normalmente ricordato come il pontefice della vittoria navale di Lepanto e, perlomeno a Pavia dove ho studiato, come il fondatore dell’omonimo collegio per studenti meritevoli, dovette tutto all’Inquisizione e per certi versi incarnò per lungo tempo l’ideale di inquisitore. Muzio diede ovviamente notizia di questo suo celebre confratello che, da semplice frate, divenne prima inquisitore poi romano pontefice ed infine salì alla gloria degli altari), dobbiamo tenere conto che la gran parte dei 469 inquisitori recensiti dal Muzio è composta da perfetti sconosciuti. Stiamo trattando, insomma, di vite e opere di uomini non illustri: eppure, se si vuole studiare la struttura di un’istituzione giudiziaria come l’Inquisizione romana, così ramificata e ben radicata, non si può proprio prescindere da un esame delle carriere che, all’interno e all’esterno dell’Inquisizione, i protagonisti, gli attori che conducevano quotidianamente lo spettacolo riuscirono a portare a termine.
Se dovessimo porre, insomma, in termini diretti alcune domande alle quali questa monografia tenta di rispondere in tema di rapporti tra centro e periferie, dovremmo chiederci: quale era il cursus studiorum intrapreso e quindi titolo di studio conseguito da questi inquisitori? Quali gli uffici ricoperti all’interno dell’ordine di provenienza? Quanti i tribunali dell’Inquisizione presieduti dallo stesso inquisitore? Quali gli uffici ricoperti al termine della reggenza di un tribunale inquisitoriale? Per quanti di questi frati l’Inquisizione fu solo un fugace e passeggero impegno tra altre incombenze accademiche o di vertice e per quanti, invece, esso rappresentò l’impegno principale della maturità?
Solo escussi questi hard data (e molto materiale è messo a disposizione in tale senso nella monografia, anche con l’ausilio di alcune tabelle sinottiche, ai capitoli 2 e 3) sarà possibile non solo formarsi un’idea corretta del rapporto tra centro romano e periferie della penisola ma anche giungere ad un giudizio più circostanziato sull’azione dell’Inquisizione romana tutta.
Qual era il grado di cultura giuridica posseduto dagli inquisitori domenicani?
Questo è certamente uno degli aspetti più interessanti dell’intera ricerca e uno tra quelli, per certi versi, più innovativi. Provo a spiegarmi meglio.
Oggi noi viviamo in un mondo che, per varie ragioni che qui non possiamo rievocare, tende alla specializzazione della conoscenza: sebbene tutti abbiamo accesso ad una buona ‘infarinatura’ di cultura generale, è raro che chi abbia conseguito un titolo di studio superiore (laurea o dottorato di ricerca) e si dedichi poi a tempo pieno alla sua materia possa essere considerato, accademicamente e professionalmente, esperto in un’altra materia. Quanti avvocati potrebbero dedicarsi anche alla medicina seriamente e con successo? Quanti ingegneri aerospaziali saprebbero illustrare i criteri compositivi e stilistici di un sonetto di Shakespeare o di una fuga di Bach? In realtà, anche tra le professioni intellettuali si rileva sempre più una tendenza alla specializzazione: per limitarmi all’unico campo professionale che conosco, la tendenza che si registra non è tanto, ad esempio, verso la figura dell’avvocato che sa e fa un po’ tutto ma verso il professionista che conosce a fondo un ambito specifico del sempre più vasto mondo del diritto (quello giuslavoristico, ad esempio, quello della protezione dei dati, quello del diritto societario – e qui si va ancora specializzandosi – e così via).
Ebbene, se adottassimo questa prospettiva, sarebbe ragionevole supporre, dinnanzi alla constatazione che la totalità degli inquisitori recensiti nella Tabula aveva conseguito i gradi in teologia, di trovarsi a trattare di uomini esperti nelle scienze sacre e nella filosofia, ancilla theologiae quest’ultima secondo la contemporanea impostazione scolastica.
A tal proposito, la vita e le opere di sei frati inquisitori ricompresi nella Tabula sono state analizzate nel dettaglio, a mo’ di veri e propri case studies: i risultati son stati assai diversi da quelli che ci si sarebbe potuti attendere.
In effetti, nelle opere di questi frati teologi si rileva un’abilità rimarchevole nel districarsi tra le sottigliezze del diritto. Ciascuno di questi sei frati infatti, pur essendo stato formato accademicamente come teologo, riusciva a confrontarsi con le ultime conquiste della dottrina giuridica (e non solo di quelle più rilevanti in ambito inquisitoriale, di pià immediata utilità per l’attività di un giudice della fede): la mia impressione è che il sistema culturale d’età moderna, grazie alla comune base aristotelico-scolastica, consentisse all’uomo di cultura di comprendere e maneggiare ambiti del sapere anche molto distanti da quelli per i quali si era specificamente formato.
Proviamo ad esemplificare: tra i generi letterari, tra le forme attraverso le quali il dibattito culturale d’età moderna era solito prendere forma, si contano, ad esempio, i tractatus, ariose dissertazioni, di taglio monografico, solitamente intente a sviscerare nei più minimi particolari ogni sfaccettatura di un problema (fosse questo l’eucaristia, il feudo, l’elezione dell’imperatore o i metodi più opportuni per curare la peste). Orbene, se ci si distanzia di qualche passo da questi temi così distanti tra loro, non sarà difficile notare alcune somiglianze tra queste trattazioni, a livello perlomeno metodologico: una su tutte, il ricorso all’argumentum ex auctoritate (che si può ridurre all’osso così: “ciò che affermo è valido perché questa o queste autorità che tutti riconosciamo concordano sul punto”).
Quando si adotti tale prospettiva, mi domando, è così difficile passare – metodologicamente parlando – da un’argomentazione costruita utilizzando un’autorità indiscussa in campo teologico come Tommaso d’Aquino ad una che si rifaccia a Baldo degli Ubaldi in campo giuridico? O utilizzare Aristotele – auctoritas riconosciuta in pressoché tutti i campi dello scibile umano antecedenti l’adozione del metodo scientifico –per formulare ora un’argomentazione in campo medico, ora in campo filosofico, ora in campo politico?
Il mio sospetto – ma in realtà è più che un sospetto – è che il fatto che i domenicani fossero istituzionalmente cresciuti a pane, digiuni e metodo scolastico – per così dire – possa dischiudere interessanti e ancora vergini prospettive alla ricerca: le scoperte in campo giuridico delle quali il libro parla sono, penso, solo la punta di un iceberg che potrebbe rivelare quanto unificante e diffusa fosse la comune struttura culturale d’età moderna, quanto efficace essa si rivelasse per l’edificazione di un vero e proprio sistema comune di saperi (evolutosi peraltro in maniera del tutto spontanea, non attraverso imposizioni sovrane ma selezionato unicamente alla luce della sua efficacia didattica).
Cosa rivela l’analisi prosopografica dell’opera di fra’ Domenico Francesco Muzio?
Una piccola precisazione preliminare: con ‘prosopografia’ si fa riferimento ad uno strumento della ricerca storica grazie al quale è possibile far emergere, tramite uno studio collettivo e sistematico delle relative biografie, i tratti comuni ad un gruppo omogeneo di individui. La prosopografia è uno strumento assai duttile e potenzialmente senza limiti per ciò che attiene l’oggetto della sua ricerca: ci sono ricerche che prendono in considerazione, ad esempio, i compositori francesi del XVII secolo, i parlamentari della House of Commons, i giuristi romani d’età severiana, i laureati in medicina a Yale negli anni sessanta del secolo scorso.
Va da sé che, maggiore sarà il grado di definizione del gruppo considerato, più eloquenti saranno i dati escussi al termine del vaglio prosopografico: da questo punto di vista, è difficile immaginare un gruppo più adatto di quello delle centinaia di inquisitori domenicani presi in considerazione dal Muzio. Stiamo infatti parlando non solo di individui che si occuparono tutti dell’ufficio inquisitoriale ma, soprattutto, di religiosi attivi nella medesima famiglia monastica e operanti entro il medesimo (seppur frastagliato) panorama politico.
Quali dunque le risultanze di codesto vaglio?
Anzitutto, dobbiamo concludere che all’ufficio di inquisitore era chiamata l’élite dell’ordine domenicano: oltre il 90% degli inquisitori recensiti nella Tabula del Muzio, infatti, era stato insignito del grado accademico più elevato conseguibile da un religioso, ossia il magistero in teologia (equivalente al dottorato). Di due inquisitori su dieci, poi, si ha notizia di opere a stampa o manoscritte, segno che, al di là delle soddisfazioni accademiche, un inquisitore su cinque trovò comunque il tempo di confrontarsi anche coi grandi temi della cultura della sua epoca, non limitando la propria azione a quella di semplice amministratore. Da un punto di vista cronologico, invece, dobbiamo considerare come, nell’arco preso in considerazione dal Muzio (1542-1730), la maggior parte delle nomine di inquisitori è concentrata nel secolo XVII (qui anche spiegabile alla luce dell’erezione di nuove sedi inquisitoriali). Per oltre la metà degli inquisitori, poi, l’Inquisizione fu un’occupazione solo di alcuni anni e non di una vita intera: solo per un inquisitore su quattro, infatti, è dato registrare la presenza presso più sedi dell’Inquisizione, confermando in tal modo l’impressione che, accanto ad una robusta percentuale di frati “professionisti” dell’Inquisizione, si muoveva la gran parte dei domenicani per i quali il munus inquisitoriale non rappresentò certo l’occupazione della vita.
Tutti dati, questi, che a mio parere contribuiscono a sfatare alcune mitologie sull’Inquisizione quale tribunale efficientissimo o fuori dal mondo per crudeltà e metodi e a collocarlo nella giusta prospettiva, forse più mondana e “banale”, delle grandi corti di giustizia d’età moderna.
Giacomo Alberto Donati, PhD in Storia del Diritto Medievale e Moderno, è Assegnista di Ricerca presso il Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Pavia