
I letrados, a cui fu richiesta dal potere monarchico una formazione giuridica, furono infatti i quadri di una burocrazia specializzata. Uomini di legge, come Gómez de Amescúa, divennero i componenti di quell’élite amministrativa che, sottoposta allo stretto controllo regio e dalla eccezionale mobilità, affiancò su scala planetaria il potere asburgico nel governo del sistema multipolare spagnolo. Come molti altri letrados, il giovane Gómez de Amescúa inizia la sua formazione accademica a Salamanca, la più celebre e influente delle università de las Españas. Il titolo di licenciado in diritto canonico gli verrà conferito da un’università minore (il collegio universitario di San Antonio Portaceli di Sigüenza), ma già poco dopo aver completato gli studi lascia la Castiglia per inserirsi nelle maggiori magistrature del viceregno napoletano. La sua vita, a dire il vero abbastanza breve, si svolge e si conclude, prima di nuove apicali promozioni, in un altro viceregno italiano, quello siciliano dove esordisce con la carica di consultore del viceré, ufficio chiave nella dialettica tra spagnoli e isolani. Da ministro “forestiero” non gli mancarono i contrasti con le oligarchie locali e con le differenti consorterie in lotta, ma l’esercizio dei suoi vasti compiti di natura giurisdizionale e di consulente al regio servizio e un’astuta strategia matrimoniale gli permisero una profonda assimilazione nella realtà isolana.
Da questa vivace periferia italiana Gómez de Amescúa continua a coltivare i suoi interessi intellettuali. La profonda conoscenza della tradizione del diritto comune (diritto romano e diritto canonico), la padronanza della ricchissima riflessione teologica-salmantina, l’esperienza di magistrato, le aggiornate letture umanistiche, il suo sguardo attento alle tante aree culturali messe in contatto dal mondo ispanico saranno cruciali per ragionare su un tema colto, teoricamente complesso, e di grande attualità nell’Europa tardo rinascimentale, come quello del “dominio di sé” .
Quali vicende accompagnarono l’edizione del Tractatus?
Appena pochi mesi prima di morire, il primo giugno del 1604, Gómez de Amescúa consegna il suo Tractatus de Potestate in se ipsum a un torchio palermitano per la stampa. Per le intensissime relazioni politiche, sociali e intellettuali che intrattenne il giurista, per l’utilizzo contestuale della lingua latina e castigliana e occasionalmente italiana nelle dediche, la sua opera, tra le poche giuridiche di “interesse ispanico” edite in Sicilia tra rinascimento ed età barocca, concorre a tratteggiare il quadro della cultura iberica circolante nell’isola e il livello di integrazione del viceregno nel complesso organismo della Monarchia spagnola.
Il mercato editoriale siciliano, seppure supportato nel corso del Seicento dalla crescita culturale delle città e sostenuto e sovvenzionato dai rappresentanti del potere politico e religioso con commesse pubbliche e private, non assicurò tuttavia una grande circolazione all’opera. Una più ampia diffusione e lettura dell’opera fu dovuta invece alla sua successiva edizione che nel 1609 vide la luce a Milano, il più importante centro editoriale, dopo Venezia, del “libro spagnolo”. La nuova tiratura, a differenza della prima, ricevette tutti i crismi della formalità con le approbationes delle “tre distinte fedi” che garantivano che il testo fosse adeguatamente rispettoso in materia di religione e politica. La nuova edizione è inoltre espurgata. Sebbene presenti pochissime differenze rispetto a quella princeps, è interessante perché si colloca in anni nevralgici per le vicende censorie: anni che vedono crescere, specie in materia di correzioni, i differenti orientamenti culturali e politici tra Roma e i domini spagnoli.
Come si configurava la potestas in se ipsum nel diritto romano?
Che ciascuno possieda il diritto di disporre di sé e del proprio corpo è un’affermazione di principio che sta assumendo per noi il carattere della problematica evidenza, ma che è invece, quanto meno in questa sua generica, astratta e marcatamente individualista formulazione, sconosciuta agli ordinamenti giuridici più antichi.
Nel lessico giuridico romano si possono rinvenire una pluralità di lemmi (ius, potestas, dominium) che con accezioni differenti i giuristi utilizzavano per indicare peculiari situazioni soggettive di potere sulle cose o sugli altri. Resta tuttavia estraneo a quel mondo strettamente legato agli status e ai tre valori comunitari della libertas, della civitas e della familia, l’ideale di un diritto su di sé e sul proprio corpo come potere e qualità del soggetto in quanto tale.
Tenendo presente questa immagine di un ordine politico-giuridico-sociale incentrato sulle disuguaglianze e le appartenenze, è possibile però rilevare, senza entrare nell’ampio dibattito degli specialisti, che il corpo umano, quale entità empirica e concreta, ha avuto, fuori da rigide definizioni e unitarie costruzioni, un ruolo decisivo e molteplice nella vita giuridica romana. Se lo schiavo non era soggetto di diritto e perciò, come le altre res, il suo corpo era assoggettabile al dominio altrui, una logica diversa valeva per l’uomo libero e per la disposizione del suo corpo. Nei Digesta si legge dell’impossibilità di essere proprietari delle proprie membra (dominus membrorum suorum nemo videtur) e di stimare il valore del liberum corpus, tuttavia i giuristi ammisero l’esperimento, in via utile, di un’azione risarcitoria ogni qualvolta fosse ferito un uomo libero. Pur non oggetto di un compiuto processo di reificazione, il corpo, inoltre, conferiva efficacia alla volontà negoziale dell’uomo libero, fungeva da garanzia di un’obbligazione o da strumento espiatorio e compensatorio.
Questi riferimenti sparsi in una complessa testualità lasceranno le loro tracce anche nella tradizione giuridica dei secoli successivi. Ad essi attingerà, reinterpretandoli con nuovi valori e innestandoli su nuove narrazioni, la dottrina giuridica medievale e primo moderna per disciplinare, con esiti non sempre decifrabili in modo univoco, la propria realtà.
Quali erano le basi canonistiche della potestas in se ipsum?
Come nel mondo antico, così nell’Europa medievale le prerogative del singolo discendono non dalla sua presunta natura ontologica, ma da una spontanea dinamica sociale, considerata come razionale e naturale. Tuttavia il dibattito teologico e filosofico attivato dal cristianesimo determina progressivamente uno stretto intreccio tra la dimensione oggettiva e plurale di questo ordine (ormai cristianizzato) e la rilevanza individuale del soggetto (colto nella concretezza delle sue essenziali componenti di anima e corpo e immaginato all’interno di un’economia di salvezza).
Insieme alla civilistica medievale che glossa e commenta l’antico Corpus Juris, la canonistica che lavora sul Decretum Gratiani e sulle decretali pontificie, seppure conservò le specificità proprie di un ordine naturalmente gerarchico e differenziato, attraverso una ricorrente associazione di ius, potestas, dominium, valorizzò il momento potestativo in Dio come nell’uomo.
In questa cultura giuridica secolare si pongono dunque le premesse per immaginare il singolo come soggetto che esercita un potere giuridico non solo sulle cose esterne ma anche su se stesso, sui propri atti e quindi sul proprio corpo. Nel Cinquecento i teologi-giuristi di Salamanca, con un’enfasi che non appartiene alla tradizione e che risponde alla necessità di affrontare nuove “sfide globali”, sviluppano questi temi attraverso il grande dibattere sull’assioma tomistico «L’Uomo non è proprietario della sua vita» (Homo non est dominus suae vitae). Uno schema unitario può essere tratteggiato solo a fatica, ma pur con una certa approssimazione è possibile affermare che ai giorni di Gómez de Amescúa fosse divenuta ormai condivisa, quantomeno in ambito teologico, l’idea che all’uomo in qualità di procuratore, custode, amministratore, o usuario della vita e delle proprie membra spettasse su di sé un certa signoria (aliquid dominii). Ragionando sulla similitudine tra Dio e la sua creatura più eccellente perché dotata di arbitrio, il diritto si sposta dunque dalla natura delle cose al potere del soggetto.
Gómez de Amescúa cresciuto e nutritosi con queste letture se ne fa originale interprete. Accogliendo le suggestioni della prassi giurisprudenziale e confrontandosi con una realtà che conosce una sterminata serie di “impegni corporali” (basti pensare alle variegate forme di servaggio e di antiche dipendenze, al matrimonio, ai tanti voti religiosi, o alle numerose garanzie per debiti) si cimenta così nel suo trattato in una specifica disamina del diritto sul corpo quale manifestazione potestativa del singolo a cui fa capo.
Come si legano il diritto sul proprio corpo con il dovere di autoconservazione?
Quando si guarda agli inizi del pensiero moderno e ci si sofferma su questo emergere dall’ordine oggettivo del mondo di un soggetto padrone del corpo, occorre sempre ricordare la radice religiosa di una simile intuizione. Lo jus corporis si lega al diritto-dovere alla vita, ma il suo esercizio non è assoluto, in quanto deve sempre mirare al conseguimento della beatitudine eterna. La ricerca della sopravvivenza in questo immaginario non è ancora pensata come un desiderio insopprimibile di autoconservazione, unica fonte di ogni sentimento e moto dell’animo umano, né come necessità (irrinunciabile impulso naturale) di reagire a una situazione di disordine e di conflitto permanente con gli altri uomini. Al contrario, rimane essenzialmente obbedienza al comando divino e ad una ordinata socialità. L’esercizio del diritto sul proprio corpo va quindi sempre regolato attingendo all’universo morale delle Virtù e dei Comandamenti, tenendo ferma la proibizione assoluta del suicidio (peccato certo e irreparabile), ma anche non trascurando la portata meramente relativa del precetto di salvaguardare la propria vita e la propria integrità personale e la forza obbligante di un “bene superiore”. L’obbligo di astenersi dall’azione autolesiva non si accompagna dunque anche al dovere di preservare il proprio corpo in ogni circostanza. Esso fonda una posizione attiva, una legittima pretesa che può essere fatta valere anche contro l’autorità, ma non costringe il singolo ― sembra quasi un paradosso ― ad assicurarsi sempre e comunque l’autoconservazione.
Nell’impianto teorico del Gómez, quale spazio è riservato ai martiri e a coloro che rischiano la propria vita per un bene ritenuto superiore?
Baltasar Gómez de Amescúa, nell’affermare e provare l’esistenza di una potestas in se ipsum dedica grandissima attenzione a spiegare se e in che misura la disposizione del proprio corpo ancorché autolesiva sia lecita. Quella messa a fuoco dal giurista non è una realtà fenomenica separata, ma è ancora l’avventura del corpo cristiano, attraversato da parte a parte dalla tipica tensione tra rimozione ed esaltazione, umiliazione e venerazione, e passibile di essere oggetto di disciplina e sacrificio quando entrano in gioco valori superiori. Lo schema da lui adottato è abbastanza chiaro e in linea con l’insegnamento scolastico.
In primo luogo era necessario procedere caso per caso a una valutazione comparativa degli interessi in gioco. Il corpo infatti poteva essere esposto a rischio solo se contrapposto a beni altrettanto preziosi. Qualsiasi atto che l’avesse messo a repentaglio senza essere sostenuto da un fine sufficientemente buono sarebbe stato illecito e biasimevole, perché si sarebbe tradotto in un sostanziale abuso del proprio diritto. In secondo luogo poi, si doveva intendere illecita e in nessuna circostanza giustificabile un’azione che fosse direttamente idonea ex propria natura a causare in modo necessario la morte. In tal senso doveva considerarsi proibita anche quella condotta che fosse animata da un fine giusto, ma avesse adottato, e quindi voluto consapevolmente, la morte certa come mezzo. Al contrario, però, lecita e persino meritoria doveva intendersi l’azione che, volta a un fine giusto e al perseguimento di un bene sufficientemente degno, fosse di per sé solo altamente rischiosa. Per l’inidoneità della stessa a produrre infallibilmente un esito letale, e nel rispetto della libertà umana, non vi era ragione di desistere dal compierla: il verificarsi dell’evento si sarebbe dovuto intendere preterintenzionale e non imputabile, perché meramente consecutivo e concomitante.
Alla luce di questo ragionamento, ad esempio, darsi di proposito la morte attraverso una condotta attiva o immolare una parte del proprio corpo a beneficio della patria o della salvezza fisica e spirituale del prossimo – beni certamente supremi – poteva considerarsi lecito solo a condizione che vi fosse almeno una lieve speranza di salvezza.
L’esempio dei martiri cristiani sacrificatisi per la fede non doveva – a detta del giurista – trarre in inganno. Se per costoro non era sempre applicabile lo schema prima enunciato (ovvero sembrava che essi avessero ricercato la morte direttamente, e non vi si fossero imbattuti accidentalmente nel tentativo di assicurare la predicazione, la confessione o la carità fraterna), era perché si doveva considerare intervenuta la straordinaria dispensa divina. L’ imperscrutabile volontà del Creatore non faceva venir meno l’intrinseca malizia dell’uccisione di se stessi e rimaneva in ogni caso, in quanto eccezionale, limitata alla situazione specifica considerata.
Entro quali limiti si configura il potere di disporre del proprio corpo?
Il potere di disporre del proprio corpo è descritto, come detto, quale “potere” che ciascuno riceve da Dio e che con retta ragione e in presenza di una giusta causa può essere esercitato anche a rischio della propria sopravvivenza. Si tratta dunque di una potestas/libertas umana originaria che implica un’area di libera scelta all’interno della quale all’individuo non è comandato di agire in un modo determinato, ma che è però al tempo stesso, almeno in una certa misura, funzionale ad uno “scopo ordinamentale” e sottoposta ai limiti imposti dal diritto divino e dal diritto positivo.
A partire da questa concezione, Gómez de Amescúa, conciliando fra loro le opinioni dei teologi e quelle dei giuristi, il diritto divino, il diritto romano, il diritto canonico e il diritto regnicolo, e non abbandonando mai l’approccio casistico, si propone di offrire una sorta di statuto giuridico del corpo umano. Bisogna ricorrere a mezzi straordinari per prolungare la vita? Ci si deve sempre curare? In che misura è possibile consegnarsi alla giustizia pubblica e a quella privata? Ci si può dare in pegno? A che condizioni ci si può obbligare al carcere per debiti o vendersi come servo? Vale l’impegno a risiedere in un luogo? È possibile locare in perpetuo la propria opera, o prostituirsi? A cavaliere tra Cinque e Seicento, il corpo umano si impone costantemente come oggetto del contendere. A fronte di ciò ci si confronta con una realtà, che, almeno formalmente, non ha alcun interesse per il singolo e le sue aspirazioni che prescinda dalle preoccupazioni salvifiche e che non contempla, dal punto di vista giuridico, un unico e astratto riferimento normativo. A questa complessità il nostro autore prova, di volta in volta, a dare delle specifiche e differenziate risposte giuridiche.
Quali sanzioni erano previste per gli attentati al valore della vita?
La condanna cattolica del suicidio (ovvero il procurarsi la morte directe ac per se) è, come abbiamo visto, cruciale nell’impianto di Gómez de Amescúa per la configurazione di uno ius corporis. Lungi dal negare l’esistenza di un diritto sul corpo essa costituisce infatti un argomento cruciale che lo conferma. Secondo la costruzione proposta, l’uomo per volere divino nasce titolare di una potestas in se ipsum, una straordinaria situazione di vantaggio che però è strutturalmente limitata proprio dal divieto di propricidio. La scelta certa della transizione dalla vita terrena a quella celeste, a differenza di molte altre, non rientra sin dall’origine tra quelle attribuite all’arbitrio umano. Ad essere sottratto al completo controllo umano, dunque, la facoltà di procurarsi intenzionalmente e direttamente una grave diminuzione della propria integrità fisica o la morte.
Il giurista, a riprova del suo ragionamento, si sofferma a illustrare le sanzioni che nella complessa realtà ordinamentale dell’Europa di fine Cinquecento e in particolare nell’area di influenza della cattolicissima Spagna degli Asburgo, non solo facevano della lesione della propria integrità fisica un peccato mortale e un delitto punibile, ma allo stesso tempo costituivano la reazione legale alla violazione del cruciale limite naturale dello ius corporis. L’attenzione cade su una vastissima serie di pene: da quelle canonistiche della irregolarità a ricevere gli ordini sacri o della privazione della sepoltura in terra consacrata, a quelle arbitrarie comminabili dal giudice ordinario, sino ad arrivare a quelle specificamente previste dal diritto castigliano (confisca dei beni).«
È importante ricordare però che il nostro giurista non smette mai di dare consistenza alla zona di autonomia del singolo, di individuare o meglio chiarire gli strumenti che consentono di correggere nei tanti casi conflittuali della vita quotidiana gli effetti di un’osservanza senza eccezioni di un divieto assoluto, e di assicurare che l’affermata libertas/potestas umana non si riduca mai a una mera titolarità, scarna ed essenziale, priva di qualunque efficacia.