“Itinerari della socialità. Teorie e pratiche della mediazione” di Stella Volturo

Dott.ssa Stella Volturo, Lei è autrice del libro Itinerari della socialità. Teorie e pratiche della mediazione edito da Carocci: quali trasformazioni sta subendo il legame sociale nella nostra società?
Itinerari della socialità. Teorie e pratiche della mediazione, Stella VolturoL’analisi del legame sociale implica una domanda cruciale sulla natura delle nostre società: come è possibile ‘vivere insieme’ in un mondo così socialmente, culturalmente, economicamente eterogeneo?

La diversificazione degli stili di vita, la de-standardizzazione delle carriere biografiche, l’enfasi sulle possibilità di scelta individuali sembrano, di primo acchito, minacciare la tenuta del legame sociale. Eppure, sebbene sia difficile da discernere, il legame sociale si instaura spesso indipendentemente dalla condivisione di idee e valori comuni. Pertanto, la prospettiva del libro cerca di andare oltre la retorica del declino inevitabile ed irreversibile dei legami sociali e, piuttosto, si focalizza su come essi si stiano trasformando. Ripercorrendo il sentiero tracciato dai classici della sociologia sino a giungere ad autori contemporanei, il libro propone una tipologia dei legami sociali ispirata alla teorizzazione di Serge Paugam, che individua quattro forme di legame sociale: il legame di filiazione, ovvero le relazioni di parentela; il legame di partecipazione elettiva, ovvero le relazioni di prossimità “scelte” (ad esempio, partecipazione ad associazioni di vario tipo e relazioni amicali); il legame di partecipazione organica relativo ai rapporti e alle funzioni svolte nel mondo del lavoro e, infine, il legame di cittadinanza, relativo all’appartenenza ad una comunità politico-nazionale. La trasformazione dei legami sociali è diretta conseguenza dei mutamenti in atto nelle principali sfere della vita sociale: i modi di ‘fare famiglia’, la partecipazione alla vita collettiva, al mercato del lavoro e alla (ri)definizione delle forme di cittadinanza.

Nella teorizzazione di Paugam i quattro tipi di legame individuati, pur nella loro differente natura, apportano agli individui al contempo protezione e riconoscimento necessari a garantire una piena esistenza sociale. In tale prospettiva, la protezione rinvia all’insieme dei sostegni che l’individuo può mobilitare per far fronte ai rischi sociali. Il riconoscimento, invece, costituisce una dimensione di senso fondamentale per la conferma degli individui della propria esistenza e del proprio valore attraverso lo sguardo dell’altro. L’espressione “contare su” riassume bene ciò che l’individuo può aspettarsi dalla relazione con gli altri e con le istituzioni in termini di protezione, mentre l’espressione “contare per” esprime l’aspettativa, altrettanto vitale, di riconoscimento.

Il tessuto relazionale nel quale si innestano i legami sociali non è identico per tutti, né ciascun legame presenta la stessa significatività e densità, anche se un indebolimento di un tipo di legame può avere conseguenze anche sugli altri. Se è vero che esiste una dimensione positiva nell’emanciparsi da alcuni tipi di legami, ad esempio quello di filiazione, le rotture improvvise e brusche hanno effetti molto negativi sull’identità degli individui e possono provocare condizioni di esclusione sociale anche molto severe. Appare, dunque, importante prendersi cura di questo aspetto che non può essere basato esclusivamente su una risposta di tipo individuale, ma implica una riflessione generale sulle forme plurali di solidarietà. In tal senso, la pratica della mediazione si configura come una delle possibili risposte contemporanee alla rottura o alla fragilizzazione dei legami sociali.

Quali forme di socialità persistono?
La prospettiva analitica adottata nel libro pone l’attenzione sulle relazioni nei contesti abitativi, nel solco di una sociologia della vita quotidiana che concepisce la sfera dell’ ‘ordinario’ come uno spazio di comprensione e di analisi fecondi della realtà sociale. Tale scelta di campo ha chiaramente ristretto il focus di osservazione, ad esempio, escludendo le forme di socialità online che sappiamo essere rilevanti, soprattutto per alcuni gruppi sociali.

Più in generale, per rispondere alla domanda, occorre tenere conto di alcuni elementi di fondo. Nella società contemporanea la socialità si fonda sul carattere prevalentemente elettivo delle relazioni di prossimità. In altre parole, si sceglie chi frequentare, al di là del contesto socio-geografico in cui si vive. Tale aspetto è chiaramente facilitato anche dall’utilizzo delle nuove tecnologie nel provvedere a forme di socialità che travalicano la sfera della prossimità spaziale. Di conseguenza, i soggetti meno liberi di scegliere a causa di scarse risorse economiche e di uno stile di vita “stanziale” (anziani, casalinghe, ad esempio) possono contare su spazi di socialità più ristretti, il che – tra l’altro – può tradursi nei casi più complessi in una maggiore probabilità di isolamento sociale. In tal senso, più che il ‘tramonto’ del legame sociale andrebbe meglio messo a fuoco il tema delle disuguaglianze relazionali, poiché – ribadisco – non tutti abbiamo le medesime possibilità di scelta. Si tratta di un nodo problematico non trascurabile quando riflettiamo sulla qualità della vita e dei livelli di benessere, soprattutto nei contesti altamente urbanizzati. Stanti tali non trascurabili criticità, è tuttavia possibile osservare fermenti di socialità che, proprio a partire dalla dimensione territoriale e dalla prossimità spaziale, tentano di dare vita a nuove forme di socialità. Sono ascrivibili a tale ambito quelle diffuse pratiche di organizzazione dal basso che, spinte da dinamiche di collaborazione, cercano attraverso ‘il fare insieme’ una via per ricucire legami sociali e produrre solidarietà ‘dal basso’. I modelli di collaborazione messi in campo da tali esperienze si manifestano spesso per mezzo di un’azione sociale diretta, anche in forma antagonistica, cercando di rispondere ai bisogni emersi dalla collettività. Non mancano, però, anche in questo caso contraddizioni e rischi. Ad esempio, resta irrisolto il nodo del rapporto tra esperienze locali e particolari di attivazione dal basso e le maggioranze sociali in una prospettiva di cambiamento sociale sistemico.

Come si struttura la solidarietà nel mondo contemporaneo?
Il filo rosso che attraversa le riflessioni contenute nel libro verte sulla possibilità di costruzione e mantenimento delle forme di solidarietà nel quotidiano e “sul posto” della mediazione come pratica sociale (ancor prima che professionale). Come ampiamente rilevato da una copiosa letteratura sul tema, le forme di individualismo contemporanee assumono caratteri ambigui nel passaggio dal paradigma dell’autodeterminazione, in cui l’obiettivo prevalente era quello di sganciarsi da forme tradizionali di appartenenza, al paradigma dell’unicità (del ‘singolarismo’ per dirla con Martuccelli) in cui prevale il perseguimento di una realizzazione personale che passa attraverso forme di riconoscimento della propria singolarità, a dimostrazione della rilevanza della dimensione sociale per l’affermazione dell’individuo contemporaneo. La solidarietà nel mondo contemporaneo quindi si struttura anche in risposta a istanze di riconoscimento individuale e sociale che emergono dalla profonda necessità di ‘sentirsi esistere’ da parte di individui stressati dalle aspettative sociali, in una società che lascia poco spazio ad esperienze significative ed autentiche.

Quali caratteristiche e significati assume il conflitto nei contesti di vita quotidiana?
Come sostenuto già da uno degli autori classici della sociologia, George Simmel, il conflitto può rivitalizzare la solidarietà all’interno di un gruppo, pertanto non necessariamente costituisce una forza distruttiva, anzi esso può rappresentare un ingrediente importante per la creazione di nuovi legami sociali. Nel libro si evidenzia con chiarezza, a partire dai risultati di una ricerca empirica sulla mediazione sociale, che il conflitto nei contesti di vita quotidiana nasconde dinamiche complesse, che vanno ben oltre le motivazioni che di primo acchito qualificano tali situazioni. Le cause più comuni della conflittualità abitativa sono relative ad aspetti di per sé anche banali: i rumori, l’igiene degli spazi in comune, gli odori, la privacy. Tali cause, oltre a svelare diversi stili di vita e differenti modalità di intendere l’abitare, quando diventano causa di conflitto sono quasi sempre legati ad un vissuto soggettivo che nasconde meccanismi più profondi di sofferenza e disagio. Per dirla in sintesi, il conflitto costituisce una ‘valvola di sfogo’ per dare voce ad altri bisogni, rappresenta soltanto l’innesco per esprimere spesso un bisogno di vicinanza e relazione, che non riesce ad emergere e non trova risposta altrimenti. Le osservazioni condotte nell’ambito delle pratiche di mediazione nei contesti abitativi mettono in luce il bisogno implacabile e urgente di ascolto e riconoscimento nel contesto di una società che appare ‘sorda’. La correlazione tra conflittualità e bisogno di ascolto e di riconoscimento è tanto più evidente quanto più le persone coinvolte nei conflitti quotidiani vivono in una condizione di solitudine, o addirittura di isolamento sociale. Si tratta molto spesso di anziani, oppure di individui che trascorrono molto tempo in casa perché, ad esempio, non integrati nel mondo del lavoro. In tali casi la conflittualità produce forme acute di sofferenza, ma – come dicevo – questo aspetto nasconde una radice di malessere più profondo e non immediatamente riconoscibile.

Quali sono gli ambiti di applicazione della mediazione?
Gli ambiti di applicazione della mediazione sono molteplici e, potremmo dire, riguardano ogni sfera della vita sociale: dalla famiglia alla scuola, dalla sanità al lavoro, dal settore commerciale a quello relativo alla giustizia riparativa. Si parla, infatti di mediazione familiare, giuridica, penale, civile e commerciale, interculturale, abitativa, sociale. Tali etichette, se da un lato indicano la varietà dei campi di applicazione della mediazione, dall’altro lasciano intravedere anche articolazioni di pratiche differenti e talvolta molto eterogenee negli obiettivi e nelle logiche di intervento.

In Italia, in particolare, la mediazione costituisce un ambito caratterizzato da una certa frammentarietà, che si traduce con ‘microcomunità di pratiche’ marcatamente separate. Questo dato è interpretabile anche alla luce dello status della professione di mediatore che nel nostro paese non si è (ancora) affermata come tale, dotata di principi comuni, modalità di intervento, competenze e conoscenze distinte, ma è stata piuttosto acquisita come competenza ulteriore da parte di alcune professioni, in particolare da avvocati (per quel che concerne la mediazione civile e commerciale), da psicologi (nell’ambito familiare), da educatori o da operatori sociali (nell’ambito definito ‘sociale’).

L’estensione semantica del termine da un lato (si pensi ad esempio alla fortuna del concetto di mediazione interculturale), e la mancanza di una caratterizzazione come professione del tutto autonoma dall’altro, hanno creato in Italia la situazione peculiare per cui di mediazione si parla molto, ma stenta a svilupparsi un profilo professionale definito, con una propria identità e una piena consapevolezza su ciò che la contraddistingue da altre professioni, in primo luogo quelle della giustizia e dal lavoro sociale.

Quale ruolo svolge la mediazione in ambito sociale?
La mediazione in ambito sociale si manifesta in forme, obiettivi e funzioni non sempre univoci. Appartengono, infatti, a tale ambito esperienze molto differenziate. Tuttavia, possiamo sostenere che esistono due accezioni prevalenti di mediazione in ambito sociale: un’accezione ‘ristretta’ che intravede nella mediazione una modalità di gestione ed eventuale soluzione dei conflitti e un’accezione ‘allargata’, che concepisce la mediazione come insieme di attività che mirano a promuovere forme di socialità con l’obiettivo di (ri)costruire legami sociali. Il primo tipo di mediazione si realizza per mezzo di una procedura strutturata (e composta da precise tappe) nella quale il mediatore ricopre la funzione di ‘terzo’, che facilita la comunicazione tra due o più individui. La mediazione nella sua accezione ‘allargata’ comprende un ventaglio ampio di attività miranti al coinvolgimento della comunità di riferimento. Potremmo fare gli esempi più disparati: le festa di vicinato; le iniziative di accompagnamento all’abitare (soprattutto negli alloggi di edilizia residenziale pubblica); le tante attività di ‘animazione di comunità’ (dagli orti urbani condominiali alle passeggiate di quartiere).

Nel libro è dedicato ampio spazio alla mediazione cosiddetta ‘sociale’ approfondendone gli aspetti definitori e teorico-concettuali, andando oltre una concezione prescrittiva su cosa e come dovrebbe essere la mediazione in tale ambito. Per compiere tale operazione, oltre al lavoro di ricerca bibliografica, è stato fondamentale e prezioso il contributo delle mediatrici e dei mediatori intervistate/i operanti in varie realtà in Italia, e che ringrazio per la loro disponibilità, poiché hanno contribuito a una definizione di mediazione ‘empiricamente’ fondata a partire dal punto di vista di chi opera in tale settore. Se dovessi condensare in poche parole quanto emerge dalla ricerca sul ruolo della mediazione sociale, direi che rappresenta essenzialmente uno spazio di parola e di ascolto. Un laboratorio di ricomposizione delle fratture sociali. Tuttavia, non si tratta di una panacea a tutti i problemi relazionali e alle difficoltà del ‘vivere insieme’ in una società di ‘estranei’. Peraltro, occorre evidenziare anche rischi e derive collegati all’agire mediatorio, laddove, ad esempio – anche inconsapevolmente – si innesca una dinamica di ‘disciplinamento’ e controllo soft, oppure l’alta direttività del mediatore non consente alle persone coinvolte nel processo di mediazione di esprimersi liberamente, lasciando fluire idee e talvolta anche emozioni ‘forti’.

Quali prospettive per la mediazione sociale in Italia?
Le prospettive per la mediazione dipendono da almeno due ordini di questioni. La prima ha a che fare con l’investimento di risorse, anche di tipo pubblico, in tale ambito per dare continuità ai progetti di mediazione e consentirne la diffusione e la conoscenza nei territori in cui nascono. La seconda questione è di ordine ‘culturale’: la mediazione implica un cambiamento di paradigma dell’agire conflittuale e del modo in cui le relazioni sono gestite. Significa considerare che tutti gli attori sociali hanno vissuti, idee ed emozioni che hanno diritto di essere presi in considerazione, facendo appello ad un ascolto attivo ed empatico. Perché una mediazione sia possibile, infatti, occorre superare la diffusa logica del perdente e del vincitore e considerare che il conflitto è un gioco a somma zero, in cui l’interesse non è stabilire chi ha torto e chi ha ragione, ma trasformare la relazione in modo da prestare sostegno e ascolto agli individui (o gruppi) coinvolti in una dinamica conflittuale.

Detto ciò, non necessariamente la mediazione costituisce l’unico approccio per promuovere forme di socialità. Si potrebbe sostenere, infatti, che – alla stregua di altri fenomeni – anche le forme di mediazione siano mutate e che probabilmente siano da ricercare altrove, ad esempio nell’ambito di esperienze meno codificate e strutturate in cui sono innegabili forme di effervescenza collettiva, che in qualche modo perseguono obiettivi sovrapponibili a quelli della mediazione.

Stella Volturo è assegnista di ricerca presso il Dipartimento di Sociologia e Diritto dell’Economia dell’Alma Mater Studiorum – Università di Bologna, dove insegna Politiche Sociali. I suoi temi di ricerca riguardano le forme evolutive della relazione sociale e l’analisi dei sistemi di welfare, con particolare riferimento alle politiche di contrasto alla povertà, alle politiche familiari e di conciliazione tra tempi di vita e di lavoro.

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