“Italiano e dialetto” di Riccardo Regis e Massimo Cerruti

Prof. Riccardo Regis e Massimo Cerruti, Voi siete autori del libro Italiano e dialetto edito da Carocci: come si caratterizza, nell’Italia contemporanea, il rapporto fra italiano e dialetto?
Italiano e dialetto, Riccardo Regis, Massimo CerrutiI rapporti fra italiano e dialetto, nell’Italia contemporanea, sono piuttosto complessi. Innanzitutto, è necessario precisare che fra italiano e dialetto esiste una relazione asimmetrica, pur essendo entrambi, a tutti gli effetti, dei sistemi linguistici, ovvero delle “lingue”, dotate quindi di una fonetica, di una morfologia, di una sintassi e di un lessico propri. Tale asimmetria si manifesta in una subordinazione sociolinguistica del dialetto nei confronti dell’italiano: ciò significa che il dialetto è utilizzato nei domini informali, in famiglia, nella conversazione quotidiana, mentre gli sono preclusi gli usi più alti, formali, istituzionali, i quali risultano appannaggio della lingua nazionale. Il fatto che oggi, negli stessi contesti in cui viene impiegato il dialetto, compaia anche l’italiano incentiva i casi di contatto linguistico che abbiamo studiato nel nostro libro: passaggi da un sistema all’altro nel parlato (i cosiddetti cambi, o commutazioni, di codice), ma anche fenomeni di italianizzazione del dialetto e di dialettizzazione dell’italiano. Non che in passato (e in particolare nel periodo precedente il boom economico) difettassero le manifestazioni del contatto linguistico fra italiano e dialetto, ma erano meno frequenti, più circoscritte; infatti, prima che l’italiano diventasse lingua di uso comune (va ricordato che la percentuale di coloro che parlavano la lingua nazionale, nel 1861, oscillava, a seconda delle stime, fra il 2,5 e il 10 per cento della popolazione), gli usi della lingua nazionale e del dialetto erano rigidamente compartimentati: l’italiano era usato nei domini formali, il dialetto nella vita quotidiana. Donde la rarità di occasioni in cui italiano e dialetto ammettevano un impiego congiunto. Questa non è ovviamente l’unica differenza fra la situazione attuale e quella passata. A partire dal Secondo Dopoguerra, è andato progressivamente aumentando il numero di persone che hanno avuto l’italiano come lingua materna, di prima socializzazione; il che ha causato, parallelamente, una crisi della trasmissione del dialetto fra la generazione dei padri e quella dei figli, complice la dialettofobia di cui è stata per decenni portatrice la scuola italiana. Guardando ai dati ISTAT più recenti (2015), si coglie facilmente come la vitalità d’uso del dialetto vari da area ad area, da regione a regione: la percentuale di chi dichiara di usare solo o prevalentemente il dialetto in famiglia è pari al 7,8 in Piemonte, mentre sale al 26,3 in Campania e addirittura al 30,6 in Veneto. Il valore medio della Penisola si attesta sul 14,1%. Indubbiamente più alta è la percentuale di coloro che affermano di usare in famiglia sia l’italiano sia il dialetto, la media nazionale essendo pari al 32,2%.

A una vitalità del dialetto, nel complesso, sensibilmente più bassa rispetto a quella che si registrava al momento dell’Unità d’Italia si associa però una sua generale rivalutazione: lo stigma sociale che, per molti decenni, si è accompagnato al suo impiego sembra essere venuto meno, o comunque essersi molto attenuato. Per esempio, può stupire di riscontare l’uso del dialetto nella musica giovanile o nella comunicazione elettronica. Così pure può risultare inatteso il ricorso al dialetto nella denominazione di negozi o di prodotti commerciali, anche nelle aree in cui le lingue locali sono più in crisi, o nella pubblicità. Occorre tuttavia osservare che, specialmente nell’ambito della gastronomia e della ristorazione, il dialetto è a rischio folklorizzazione, nel senso che esso svolge una sorta di ruolo di garanzia di genuinità, veicolando il legame con una tradizione spesso oleografica.

Dunque, in estrema sintesi, il dialetto ha perso terreno nei confronti dell’italiano, ma certamente meno di quanto ci si sarebbe attesi, sulla base delle tendenze che si registravano negli anni Settanta e nei primi anni Ottanta del Novecento. Accanto agli usi conversazionali classici, che pure si mantengono soprattutto presso la popolazione più anziana e rurale, meglio al Sud e nel Nord-est che nel Nord-ovest, le lingue locali hanno saputo oggi ritagliarsi spazi particolari, di nicchia, potremmo dire: una presenza spesso più di facciata, simbolica, che non reale, ma comunque significativa.

Quanto hanno influito e influiscono l’uno sull’altro?
Per quanto riguarda l’influenza del dialetto, potremmo dire che essa inizia a manifestarsi già ‘all’indomani’ della codificazione stessa della lingua standard; è infatti possibile rilevare la presenza di elementi linguistici di origine dialettale in italiano a partire per lo meno dalla seconda metà del Cinquecento. Il trasferimento di tratti ha poi un’accelerazione nel Novecento, quando la lingua nazionale si diffonde presso classi di usi e fasce della popolazione via via più ampie, e l’italiano viene stabilmente a contatto col dialetto nella conversazione quotidiana. Un buon numero di caratteristiche di origine dialettale si possono oggi facilmente riscontrare, tra l’altro, anche nell’italiano d’uso medio di parlanti non dialettofoni, acquisite fondamentalmente con l’esposizione, durante la socializzazione primaria, all’italiano regionale di parlanti nativi di dialetto.

Pure il trasferimento di tratti dall’italiano al dialetto è osservabile sin dal Cinquecento ma diventa consistente soltanto con la diffusione novecentesca della lingua nazionale. Negli ultimi cinquant’anni, l’italianizzazione dei dialetti procede piuttosto rapidamente nel lessico (specie per l’espressione di significati propri delle società ed economie moderne, per cui i dialetti non hanno risorse lessicali autoctone), mentre non sembra avanzare altrettanto velocemente in fonetica-fonologia e soprattutto in morfologia e sintassi; con l’effetto che alcune peculiarità strutturali dei dialetti sono ancora grosso modo conservate. Nel complesso, i dialetti italiani paiono oggi soggetti più alla perdita di vitalità ‘esterna’ che ‘interna’, ossia sembrano risentire più della riduzione di domini d’uso e di classi di parlanti che del deterioramento delle caratteristiche strutturali originarie.

Come si manifestano i fenomeni di prestito e calco tra italiano e dialetto, e viceversa?
I modi in cui prestiti e calchi si manifestano sono molteplici, e sollevano diverse questioni; qui ne possiamo citare un paio. È interessante notare ad esempio come non tutti i fenomeni, dopo essere passati dal dialetto all’italiano, raggiungano la stessa diffusione sociale: alcuni prestiti e calchi rimangono per lo più ‘confinati’ nelle varietà popolari o di registro basso dei rispettivi italiani regionali (come spicciare ‘mettere a posto’ a Roma, fra i prestiti, o me come pronome personale soggetto al Nord, fra i calchi), mentre altri ‘fanno carriera’ e diventano di uso medio, standard, presso i parlanti di una certa area geografica (come solo più, calco dal dialetto, nell’italiano del Piemonte) se non, addirittura, su scala panitaliana (come il prestito giocattolo, dal veneziano zugatolo). Il che è dovuto a una serie di fattori, quali, per prestiti e calchi, l’essere privi di corrispondenti nella varietà standard nazionale e l’essere esposti, o al contrario sfuggire, all’intervento correttivo dell’insegnamento scolastico.

Anche i tratti linguistici che passano dall’italiano al dialetto possono collocarsi in varietà diverse, da quella letteraria a quelle più rurali. Per l’italianizzazione dei dialetti, però, può essere più significativo esaminare gli effetti che prestiti e calchi hanno sul sistema linguistico originario (effetti che potremmo altresì verificare per i trasferimenti dal dialetto all’italiano). Nel lessico, ad esempio, l’ingresso di un italianismo può creare coppie sinonimiche e avere ripercussioni sul piano del significato, quali il livellamento di distinzioni preesistenti (in siciliano, ad esempio, prestu viene a inglobare i cinque diversi significati prima veicolati dalle parole currennu, prima/primu, tunna!, matinu e daùra) e il restringimento semantico di lessemi dialettali (ad es. coscë, che in napoletano indicava sia “gamba” sia “coscia” viene a perdere il primo significato con l’introduzione dell’italianismo gamma “gamba”). Nella sintassi, l’influsso dell’italiano può causare la perdita di alcuni elementi propri del dialetto, come in torinese l’obbligatorietà degli articoli partitivi (oltretutto in forma non articolata, ëd/) e i clitici soggetto per tutte le persone.

Ci sembra insomma che i fenomeni di contatto linguistico offrano un punto di osservazione privilegiato per comprendere le dinamiche che si sono instaurate, negli ultimi decenni, fra italiano e dialetto.

Massimo Cerruti insegna Linguistica generale e Sociolinguistica all’Università di Torino. La sua attività di ricerca verte prevalentemente sulla variazione sociolinguistica dell’italiano, con particolare attenzione a fenomeni morfosintattici, e sugli aspetti strutturali del contatto fra italiano e dialetto, anche in prospettiva teorica. È responsabile scientifico (con Caterina Mauri, Silvia Ballarè ed Eugenio Goria) del corpus di italiano parlato KIParla (www.kiparla.it).
Riccardo Regis è docente di Linguistica italiana all’Università di Torino. Le sue ricerche riguardano principalmente la linguistica del contatto, la sociologia del linguaggio e la dialettologia italiana. È responsabile scientifico dell’Atlante Linguistico ed Etnografico del Piemonte Occidentale (ALEPO) (www.alepo.eu).

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