“Italiani. Stereotipi di casa nostra” di Loredana Sciolla

Prof.ssa Loredana Sciolla, Lei è autrice del libro Italiani. Stereotipi di casa nostra ora ripubblicato da Ledizioni: quali sono gli stereotipi più diffusi e radicati sul nostro conto?
Italiani. Stereotipi di casa nostra, Loredana SciollaTutti i popoli sono rappresentati da stereotipi, ossia da opinioni precostituite che sono il prodotto di un processo di ipersemplificazione che estende a un intero gruppo singoli aspetti più o meno ricorrenti e veritieri. Gli stereotipi riguardano soprattutto il modo in cui ci vedono gli altri, ma si riflettono almeno in parte anche sul modo in cui rappresentiamo noi stessi. Non siamo quindi solo noi italiani ad essere oggetto di pregiudizi e di stereotipi da parte di altri soggetti, individuali o collettivi. Pensiamo, per fare solo un esempio, ai tedeschi visti dall’esterno come obbedienti, tutti d’un pezzo, rispettosi delle regole, efficienti e organizzati, ma anche un po’ rigidi e scortesi e con uno scarso senso dell’umorismo. Potrei continuare elencando tratti, negativi e positivi, del cosiddetto “carattere nazionale” di molti altri paesi europei e non.

Anche gli italiani non fanno eccezione, con due particolarità a mio parere molto significative che li differenziano dalle altre popolazioni. La prima riguarda il fatto che gli stereotipi più diffusi sul nostro conto sono per la maggior parte negativi. Siamo visti come un popolo di cinici, individualisti, incuranti del bene pubblico, inclini al clientelismo, troppo attaccati alla mamma, disorganizzati, chiacchieroni e voltagabbana. Più alcuni altri minori come la tendenza a gesticolare in modo eccessivo, ad essere sempre in ritardo, ad amare esageratamente l’opera, gli spaghetti e la pizza. Un tratto positivo, generalmente riconosciuto, riguarda la creatività. Anche questo, tuttavia, è declinato spesso in negativo o perlomeno in maniera ambigua come “arte di arrangiarsi” che fa riferimento sì alla creatività, ma anche alla scaltrezza, furberia, opportunismo, mancanza di scrupoli. Proprio come Alberto Sordi nel film L’arte di arrangiarsi diretto da Luigi Zampa nel 1954. Nei suoi film questo grande attore ha rappresentato per la maggior parte dei commentatori l’essenza del carattere degli italiani.

La seconda particolarità consiste nel fatto che, diversamente da quanto avviene per le popolazioni degli altri paesi, gli italiani tendono a percepirsi e autorappresentarsi nello stesso modo negativo con cui sono visti dall’esterno. Insomma questi stereotipi sono generalmente accettati dagli stessi italiani che mostrano di avere un’immagine di sé stessi nient’affatto lusinghiera.

Gli italiani sono noti per la loro mancanza di orgoglio nazionale, sempre pronti a parlar male del proprio Paese: è davvero così?
Sulla debole identità nazionale degli italiani si sono versati fiumi di parole. L’interesse per questo tema è cresciuto enormemente dagli anni Novanta del secolo scorso, stimolato dalla crescente visibilità della Lega nord sulla scena politica che, con la sua impronta secessionista, sembrava confermare la “disunità” degli italiani. Se tuttavia chiediamo agli italiani se sono orgogliosi del proprio paese, otteniamo un quadro diverso. Le ricerche empiriche che hanno cercato di misurare questo sentimento di orgoglio per la propria nazione, molto importante per capire la diffusione del senso di appartenenza nazionale, mostrano che gli italiani esprimono un orgoglio nazionale elevato esteso alla grande maggioranza della popolazione. Esso risulta non solo di poco inferiore a quello manifestato da francesi e inglesi, considerati popoli con una forte coscienza nazionale, ma molto superiore, ad esempio, a quella dei tedeschi. Inoltre si mantiene relativamente stabile nel corso degli anni. Anche in questo caso gli italiani mostrano una significativa particolarità. Le ragioni per essere orgogliosi del proprio paese differiscono notevolmente da quelle degli altri paesi occidentali. Gli italiani sono molto meno propensi di quanto lo siano svedesi, inglesi, americani ad indicare come motivo di orgoglio aspetti del sistema politico o il funzionamento della democrazia, concentrandosi invece su tratti prepolitici come la storia, il patrimonio artistico, il successo sportivo. Se a ciò aggiungiamo il fatto che gli italiani sono tra le popolazioni che esprimono il più alto grado di sfiducia nelle istituzioni politiche (dal parlamento, al governo, ai partiti) ne esce un’immagine più complessa e articolata della coscienza nazionale e del suo significato.

Da cosa nascono tali errate convinzioni?
In realtà l’idea, espressa da numerosi autori, che l’Italia abbia una debole identità nazionale, non è in contrasto con il tipo di orgoglio nazionale espresso dagli italiani nelle indagini a cui prima mi riferivo. La debolezza dell’identità italiana risiede nel percorso di costruzione nazionale, segnato da conflitti, da culture politiche contrapposte, dalla difficoltà di parlare di patria e di nazione dopo il periodo fascista che ne ha fatto un marchio di parte, di un regime illiberale e autoritario, nonché dalla forte differenziazione interna tra le diverse parti e regioni d’Italia che hanno reso difficoltosa l’unificazione politica del paese e molto altro ancora. L’orgoglio degli italiani può convivere con questa debolezza, in quanto, come si diceva, ha un carattere più culturale che politico. Gli italiani non sono affatto orgogliosi di come funziona il sistema politico che percepiscono come inefficiente e perfino corrotto, ma riconoscono l’eccellenza che da sempre contraddistingue il “bel Paese”, dall’arte alla cucina alle bellezze naturali. Ne sono fieri. Un “noi” comunque debole, perché l’identità di un paese è fatto anche e forse soprattutto dal sentirsi a pieno titolo cittadini, impegnati e politicamente partecipi, capaci di condividere valori al di sopra delle fazioni e polarizzazioni ideologiche.

È il campanilismo/familismo il male italiano?
Tra gli studiosi, in particolare quelli di origine anglosassone, fin dagli anni Cinquanta dominava un modello esplicativo dei mali dell’Italia incentrato su quella che ho chiamato “sindrome particolarista-familista”. Secondo tale modello l’Italia risultava arretrata sul piano politico e poco sviluppata su quello economico, se comparata con i paesi di matrice anglosassone e nord europea, perché prigioniera di una visione corta, ristretta ai gruppi primari, soprattutto alla famiglia, e orientata a difenderne a spada tratta gli interessi immediati e particolari a detrimento di un più ampio impegno verso l’interesse della collettività e il bene comune. L’attaccamento degli italiani alla famiglia, peraltro difficilmente contestabile, che si estendeva anche ad altre relazioni comunitarie, di tipo perlopiù localistico, finiva per essere considerato in sé antitetico a una cultura improntata al civismo. Tale antitesi, tuttavia, era più un presupposto non dimostrato che un’evidenza empirica. Ripreso con grande enfasi dai media, tale modello diventava una sorta di passepartout buono ad aprire tutte le porte, a render conto di fenomeni complessi e molto distanti tra loro, dalla corruzione politica alla mafia, dall’inefficienza istituzionale alla italica predisposizione alla raccomandazione. Diventava, in altri termini, uno stereotipo del carattere nazionale. Numerose ricerche svolte a livello nazionale o nel Mezzogiorno, hanno rilevato che, nel quadro della debolezza del processo di costruzione dello stato e della generalizzata sfiducia nelle istituzioni politiche che ne é derivata, i legami familiari e comunitari sono stati spesso un fattore di modernizzazione e un elemento importante di sviluppo economico e sociale. Questi legami si sono anche rivelati fattori di compensazione di spazi sociali dove le istituzioni dello stato si presentavano maggiormente carenti, come nel caso del sistema di welfare o nel supporto dei giovani all’ingresso nel mercato del lavoro e della vita adulta in generale, in assenza di politiche efficaci a questi dedicate.

Dalle ricerche da me condotte negli anni Novanta si delineava un quadro dell’ “anomalia” italiana molto diverso da quello sottointeso dallo stereotipo dominante: non un paese privo di valori civili, ma in cui questi ultimi restano isolati, privi di efficacia pratica. Si presentava, in altri termini, il paradosso tutto italiano dell’assenza di sinergia tra spirito civico e impegno pubblico. Non “virtù” inesistente, dunque, ma destinata a restare un’etica privata, mentre la partecipazione politica, separata dalla civicness, prendeva (e oserei dire prende) facilmente la strada della protesta antiistituzionale, poco sensibile all’etica della responsabilità. Una conclusione più generale a cui si poteva giungere alla fine del secolo era che la presenza di una società civile densa e con un consistente capitale sociale soprattutto nelle regioni del Centro e del Nord (lascito delle subculture politiche territoriali) ha permesso l’emergere di un senso di cittadinanza senza produrre un sentimento più largo di appartenenza allo stato e alla nazione.

A distanza di quasi un quarto di secolo dalla prima edizione della Sua ricerca, come è cambiato il panorama valoriale degli italiani e la sua percezione?
Considerando i dati dell’ultima indagine internazionale EVS (European Value Study) del 2018 e mettendoli a confronto con le indagini precedenti che coprono un arco considerevole di tempo (dal 1981 al 2018), si può analizzare l’evoluzione degli atteggiamenti e degli orientamenti valoriali degli italiani in quarant’anni di storia italiana. Non si può fare a meno di notare l’accelerazione subita dal processo di secolarizzazione, soprattutto tra i giovani, mentre la gerarchia dei valori importanti nella vita resta nel tempo stabile: la famiglia è sempre al primo posto (come in quasi tutti i paesi europei), poi viene il lavoro, gli amici, il tempo libero. Agli ultimi posti troviamo la religione e la politica. Un volume appena pubblicato (Come cambiano gli italiani. Valori e atteggiamenti dagli anni Ottanta a oggi a cura di Biolcati, Rovati e Segatti) tocca molti altri aspetti che qui mi è impossibile ricordare. In un capitolo di questo volume, scritto insieme a Paola Torrioni, ho avuto modo di verificare l’andamento dei valori di cui ho maggiormente trattato nel mio libro scritto nel 1997. Si può notare, ad esempio, che la sfiducia verso le istituzioni politiche è rimasta un tratto della cultura politica degli italiani durante tutti i quarant’anni. Cresce la percentuale di italiani che fa proprie posizioni più libertarie in tema di sessualità, di inizio e fine vita. Cresce, anche se più lentamente, il civismo. Nonostante che, nei vent’anni che ci separano dalla pubblicazione del libro, la società italiana sia molto cambiata, le ricerche da me condotte su basi dati internazionali negli anni successivi fino ad oggi, mostrano che i risultati sulla cultura civica degli italiani nelle sue tendenze di fondo e correlazioni significative a cui il libro era giunto alla fine degli anni Novanta sono ancora validi oggi.

Loredana Sciolla è Professore Emerito di Sociologia presso l’Università degli Studi di Torino. Dal 1990 è stata professore ordinario prima nell’Università di Firenze e poi in quella di Torino, dove ha ricoperto numerosi incarichi accademici tra cui Direttore del Dipartimento di Scienze Sociali (1998-2001) e membro del Senato Accademico (2012-2015). È stata, inoltre, membro del Consiglio direttivo dell’Associazione Italiana di Sociologia dal 1989 al 1991, membro del Consiglio Scientifico dell’Istituto dell’Enciclopedia Italiana Treccani, dal 2009 al 2011, membro del Comitato direttivo dell’Associazione di cultura e politica “Il Mulino” in diversi periodi e dal 2018 ad oggi. Dell’Associazione “Il Mulino” è stata anche Vicepresidente dal 2009 al 2011. Ha diretto la “Rassegna Italiana di Sociologia” per due trienni (1995-1998) (2007-2009); dal 1985 fa parte della sua Direzione. È inoltre nel comitato scientifico e direttivo di numerose riviste scientifiche italiane e straniere. Dal 2018 è socio dell’Accademia delle Scienze di Torino. Tra i suoi volumi più recenti: Europa. Culture e società (a cura) con M. Lazar e M. Salvati, III vol, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Treccani, Roma 2018; L’Italia e le sue regioni (L’età repubblicana) (a cura) con M. Salvati, 4 volumi, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Treccani, Roma 2015. Tra gli altri suoi volumi, si ricordano: L’identità a più dimensioni. Il soggetto e la trasformazione dei legami sociali, Ediesse, Roma 2010 e La sfida dei valori. Rispetto delle regole e rispetto dei diritti in Italia, Il Mulino, Bologna 2004.

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