
Durante il Maxiprocesso, Pippo Calò deve sostenere il confronto con Tommaso Buscetta. Per screditarlo, racconta le confessioni raccolte dal fratello di Buscetta: “Vedi cosa mi ha combinato, mi ha lasciato un figlio in carcere e uno drogato”. In pochi secondi, Calò tocca tasti delicati del cosiddetto codice d’onore dei mafiosi: la droga che in famiglia è disdicevole, l’abbandono dei cari alla galera, la strafottenza nei confronti della famiglia. Poi aggiunge qualcosa sul fatto che a Buscetta piacciono, troppo secondo lui, le donne. Che cosa ci si può aspettare da uno che vive da poligamo, in piena promiscuità sessuale? È una persona inaffidabile.
Nel caso di Pier Paolo Pasolini, invece, durante il processo dei guanti neri che si tenne negli anni Sessanta davanti al Tribunale di Latina, sempre attraverso una relazione psichiatrica si cercò di stabilire un’equazione: Pasolini è accusato di aver minacciato un ragazzo e di avergli fatto proposte sessuali, Paolini è un omosessuale e un immorale, Pasolini non può che aver fatto quello di cui è accusato.
Quale utilizzo “creativo” è stato fatto della malattia mentale negli anni della strategia della tensione e negli anni di piombo?
Si può dire che non ci sia stato processo su quegli anni che non si sia giocato a colpi di perizie. La follia è stata tirata in ballo per sgonfiare le dichiarazioni di collaboratori scomodi, oppure per sospendere le udienze, o per relegare al gesto di un folle una strage.
Tutti i militanti del circolo anarchico 22 marzo di Roma, nella prima fase del processo su piazza Fontana, furono sottoposti a perizia psichiatrica. Compreso Pietro Valpreda.
Nei giorni del sequestro di Aldo Moro, fu creato un Comitato di esperti della mente che, in sostanza, preparò il campo a una sorta di legittimazione scientifica per i politici. In caso di dichiarazioni troppo imbarazzanti del prigioniero, avrebbero detto che il Presidente aveva parlato così perché era affetto dalla Sindrome di Stoccolma: una risposta irrazionale allo stress per effetto della quale il sequestrato sceglie di diventare amico del sequestratore.
In che modo il crimine organizzato ha utilizzato la malattia mentale per ottenere benefici di giustizia?
In tutti i modi possibili. I mafiosi considerano il carcere come la loro malattia professionale e la follia è stata la terapia, la corsia preferenziale verso l’impunità. Attraverso la simulazione o l’esagerazione di disturbi psichici, hanno chiesto, e spesso ottenuto, scarcerazioni, sospensioni dei processi, riduzioni delle pene e proscioglimenti.
Raffaele Cutolo ha avuto una decina di perizie che diagnosticavano sempre la stessa cosa: epilessia e paranoia. Nonostante questo, teneva moltissimo a dare a vedere quanto fosse lucido e sano di mente, proprio per dimostrare la sua forza e la sua scaltrezza. Cosa che gli consentiva, oltretutto, di accrescere il prestigio sociale fra i suoi affiliati.
Finto pazzo è stato il basista della strage di Capaci, finti pazzi sono stati molti Corleonesi, i capi dei Casalesi, i boss della Nuova Famiglia, quelli della banda della Magliana. Proprio grazie a ricoveri compiacenti nei manicomi giudiziari, la banda della Magliana ha stretto rapporti con Cutolo prima e con i corleonesi poi.
Come è stato utilizzato il disagio mentale da parte dell’estremismo?
Per grosse linee, eversione rossa e nera hanno avuto un approccio antitetico alla follia. Esistono stereotipi e luoghi comuni sulla malattia mentale, per lo più falsi, che sono comunque incompatibili con la militanza in gruppi politicizzati: inaffidabilità, scarsa capacità di progettazione, mancanza di competenze relazionali. Peraltro, a differenza di quanto accade nel caso delle affiliazioni mafiose, la militanza politica presuppone l’appropriazione psicologica di un credo da cui scaturiscono comportamenti. Ecco perché fra gli autori di reati politici è meno diffuso l’utilizzo della follia come strategia difensiva.
Nonostante questo, la destra estrema ha dimostrato più disponibilità a scendere a patti con la psicopatologia per raggiungere vantaggi giudiziari. Soprattutto nei casi di maggiore contiguità con certi apparati “deviati” dello Stato, la malattia mentale ha accomodato i processi grazie a professionisti che hanno consentito l’inquinamento della democrazia anche per vicinanza ideologica. Ma l’utilizzo degli psichiatri è dipeso anche dal fatto che i neri spesso provenivano da ambienti borghesi, protettivi, che potevano permettersi strategie difensive costose.
Nel caso delle Brigate Rosse, invece, ha prevalso l’idea che la lotta armata richiedesse consapevolezza, lucidità, coerenza. Il progetto è stato un continuo richiamo alla ragione dell’identità politica e lo scontro si è mosso su un piano di realtà. La scorciatoia della perizia psichiatrica, per i brigatisti, è stata inaccettabile.
Quali casi descrivono, a Suo avviso, in maniera più eclatante i rischi della strumentalizzazione e della manipolazione dei punti deboli della psichiatria?
Ne scelgo tre: Carlo Maria Maggi, Antonio Pelle e Bernardo Provenzano.
Carlo Maria Maggi è stato l’ultimo ergastolano della strage di piazza della Loggia. Era un medico veneziano, il referente di Ordine Nuovo nel Triveneto. La sua vicenda è emblematica di una stagione oscura della nostra storia: è stato sottoposto a perizia psichiatrica nel 2015 per stabilire se fosse in grado di partecipare al processo per una vicenda avvenuta nel 1974. Nel suo caso, il punto non era tanto il tema della simulazione ma il fatto che potesse, a più di ottant’anni, avere malattie che gli impedissero di difendersi utilmente. E quindi il rischio, che si ripete ogni volta che si giudicano vicende criminali con radici antiche, di dover fare i conti di invecchiamenti senili fisiologici, Alzheimer e altre forme di demenza. Il corollario di questa situazione è che in alcuni casi, come è accaduto con Gherard Sommer nel processo sulla strage nazista di Sant’Anna di Stazzema, si rischia di non arrivare mai a una conclusione perché se un imputato non è in grado di partecipare coscientemente a un processo, quel processo deve essere sospeso. E se non è in grado di farlo a causa di malattie da cui non si torna indietro, come la demenza, quella sospensione significherà l’archiviazione.
Antonio Pelle, detto “la mamma”, è un boss di ‘ndrangheta coinvolto anche nella strage di Duisburg. Pelle riesce a farsi ricoverare a Locri con la diagnosi di anoressia. Quando capisce che la Procura di Reggio Calabria gli sta addosso e che sarebbe stato di nuovo arrestato, scappa dall’ospedale e resta latitante per cinque anni. Lo ritroveranno in un bunker dove coltiva marijuana. L’anoressia è una delle diagnosi più richieste dai mafiosi perché si tratta di una patologia cronica che richiede trattamenti in strutture specialistiche. Ma nella maggior parte dei casi, i dimagrimenti dei boss sono volontari e non hanno niente a che vedere con l’anoressia: i mafiosi non hanno paura di ingrassare, non vedono alterato il loro corpo come, invece, lo vedono le ragazze che soffrono di disturbi del comportamento alimentare. Il tema dei dimagrimenti procurati solleva un’altra questione delicata: talvolta le simulazioni si spingono a tal punto da mettere in pericolo di vita chi le compie.
Concludo con un cortocircuito, quello che ha riguardato Bernardo Provenzano. Nel suo caso, il 41bis è stato prorogato nonostante le perizie mediche attestassero un decadimento cognitivo clamoroso. Tanto clamoroso, da non metterlo in condizione di rispondere alle domande più semplici o di esprimere il consenso alle cure necessarie per tenerlo in vita. Nel suo caso, quella proroga è sembrata più una gusta pena, un accanimento carcerario, cosa che il 41bis non è, che una misura di prevenzione che fonda la sua ragion d’essere sulla pericolosità attuale del detenuto.
Corrado De Rosa è uno psichiatra. Per conto dell’Autorità Giudiziaria si è occupato di camorra, infiltrazioni mafiose ed eversione. Autore di numerosi saggi sulla follia come strumento di manipolazione dei processi, ha pubblicato, tra gli altri, I medici della camorra (Castelvecchi, 2011), Mafia da legare (con Laura Galesi, Sperling & Kupfer, 2013), La mente nera (Sperling & Kupfer, 2014), L’uomo che dorme (Rizzoli, 2018).