“Italia e Balcani. Storia di una prossimità” di Egidio Ivetic e Alberto Basciani

Prof.ri Egidio Ivetic e Alberto Basciani, Voi siete autori del libro Italia e Balcani. Storia di una prossimità edito dal Mulino: quale importanza rivestono, per la storia d’Europa, le sue regioni storiche?
Italia e Balcani. Storia di una prossimità, Egidio Ivetic, Alberto BascianiL’Italia e i Balcani rimangono due compagini europee del tutto diverse, per storia, culture e civiltà. L’Italia è il centro del Mediterraneo, il luogo in cui l’Europa, dal Mille in poi, si è misurata con il Mediterraneo. I Balcani sono intesi come qualcosa di unitario dal Cinquecento, ma con il nome di Rumelia, per gli ottomani, o Turchia in Europa, per gli europei. I Balcani sono stati per lungo tempo l’Oriente vicino. Sono stati intesi come penisola balcanica dalle sistemazioni geografiche di fine Ottocento. Italia e Balcani sono due regioni storiche europee. I Balcani sono ormai codificati come tali in Europa e nel mondo. Balcani è un concetto ombrello sotto il quale sono poste le diverse realtà storiche, politiche, nazionali e culturali della regione, ognuna delle quali attesta la frammentarietà della compagine e ognuna delle quali manca in parte o del tutto di attributi per essere un soggetto politico su scala europea. Dell’Italia c’è un’auto-percezione più complessa, che si riversa sul canone storico nazionale, come insieme di storie regionali, come frammentarietà non di contrapposizioni (come avviene nei Balcani), bensì di specificità e localismi. Una costante frammentarietà tra contesti e poteri locali difficile da omologare (dopo la caduta dell’impero romano) e determinante a rendere l’Italia un ente storico e morale incompleto e inconcludente. Fuori d’Italia, tra le storiografie europee e oltre, l’Italia è piuttosto il luogo dei topoi culturali e di diversi passaggi imprescindibili per la storia europea e mondiale (Rinascimento, fascismo). Tuttavia, non si parla di essa come di una regione storica d’Europa. L’Italia sembra prigioniera di una concezione non tanto legata alla sua geografia, quanto all’essere un’espressione di arte e cultura, e in ciò prigioniera della propria astrazione.

Quale prossimità storica esiste tra Italia e Balcani?
La prossimità, come categoria interpretativa, è ampiamente impiegata a livello teorico, a partire dalla filosofia e psicologia alla pedagogia, alla giurisprudenza, fino al diritto della contrattazione del lavoro e alla sociologia degli ambienti urbani. Prossimità come condizione intermedia, passiva, attiva o fatta di negoziazioni, tra due concetti o due realtà, o soggetti vari. Nella ricerca e riflessione storica è un approccio che deve ancora essere sviluppato.

La regione italiana si è storicamente confrontata con i Balcani occidentali e le terre greche e i sistemi insulari dello Ionio ed Egeo. Di centrale importanza è la Dalmazia. La conoscenza del mondo slavo da parte della latinità medievale cominciò proprio in questo contesto, così come la trasmissione della cultura classica dall’impero bizantino ormai in agonia verso l’Italia. Per il resto dei Balcani, attraverso i secoli osserviamo legami culturali tra le élites e l’Italia, per esempio all’università di Padova, ma non si può parlare di continuità, di una prossimità strutturale, come avviene con la parte occidentale dei Balcani, la sponda dell’Adriatico orientale.

Sono quindi le sponde adriatiche a filtrare i rapporti tra l’Italia e i Balcani. In particolare è l’Adriatico orientale, inteso come litorale, cioè come territorio e mare, a racchiudere in sé una pluralità di confini culturali, a riassumere la storia delle relazioni tra l’Italia e la Slavia meridionale, e quindi a essere un litorale che, come pochi altri nel Mediterraneo, esprime convivenze e contrapposizioni, simbiosi e memorie difficili. Esiti vicendevoli di una prossimità storica.

Come si sono articolati i rapporti tra Regno d’Italia e Balcani e quale peso vi ha avuto la guerra?
In primo luogo bisogna intendersi a quale guerra ci riferiamo perché tra il primo e il secondo conflitto mondiale il ruolo giocato dall’Italia nei Balcani fu molto differente. Nel caso della Grande guerra la presenza italiana nel Sud-est dell’Europa fu piuttosto marginale. Effettivamente vi fu un corpo di spedizione italiano dislocato sul cosiddetto Fronte di Salonicco, in particolare nel quadrante albanese, ma si trattò di un impegno del tutto secondario rispetto a quanto avveniva sull’Isonzo e in Trentino. Ben diversa è la questione legata alla Seconda guerra mondiale. In questo caso fu proprio l’Italia a rompere il fragile equilibrio geopolitico interbellico occupando ai primi dell’aprile del 1939 l’Albania. Non si trattò di un avvenimento casuale né l’esasperazione dei sogni di gloria di qualche singolo gerarca, ma la conseguenza ultima di anni di politica balcanica – per quanto a tratti confusa e velleitaria – tesa a fare dell’Italia la potenza dominante della regione. Il fascismo era convinto che il vuoto lasciato aperto dalla fine dei grandi imperi multietnici potesse essere riempito da Roma. In realtà l’impresa apparve già a metà degli anni Venti del tutto sproporzionata rispetto alle reali forze (politiche ed economiche) italiane e nella seconda metà degli anni Trenta l’unico Paese nel quale Roma era riuscita a imporre una virtuale tutela era proprio l’Albania grazie soprattutto ai cospicui finanziamenti diretti verso Tirana e diventati indispensabili per la sopravvivenza del regime di re Zog. Il passaggio da una condizione di virtuale protettorato al dominio diretto fu suggerito da molteplici fattori a cominciare dall’ansia del regime fascista di cercare di mantenere un rapporto paritario con un alleato scomodo come la Germania nazista che nel 1939 dominava l’economia della regione e si preparava a imporre alle potenze locali la propria tutela politica. L’Albania, il Paese più povero e arretrato d’Europa, divenne la testa di ponte italiana nei Balcani. Gli ingenti investimenti nelle infrastrutture, la trasformazione di Tirana in una città moderna, l’avvio di giganteschi piani di sfruttamento delle risorse naturali dovevano fare del Paese delle Aquile una sorta di vetrina della forza e della capacità modernizzatrice del fascismo in tutta la regione balcanica-danubiana. Si trattò di un sogno destinato ben presto a infrangersi contro la dura realtà dei fatti. Ancora una volta l’ansia di mantenere un rapporto paritario con la Germania – la cosiddetta guerra parallela – suggerì a Mussolini di trovare nella regione una facile preda che rilanciasse l’immagine bellica italiana già appannata dopo pochi mesi dall’entrata nel conflitto. Il 28 ottobre 1940 l’attacco contro la Grecia e il suo immediato fallimento da un lato mostrò in tutta la sua gravità l’impreparazione militare italiana ma dall’altro fece definitivamente precipitare la regione balcanica nelle turbolenze della Seconda guerra mondiale. Da quel momento nonostante alcuni limitati successi (soprattutto in Jugoslavia) l’Italia fascista fu solo un alleato complementare della Germania e il grosso esercito (più di 600mila uomini) posto a difesa dei territori occupati in Jugoslavia, Albania e Grecia fu costretto, fino al disastro del settembre del 1943, a un atteggiamento sempre più remissivo rispetto ai vari movimenti di resistenza. Insomma si può dire che la politica balcanica fascista fu la valida cartina di tornasole di una politica di potenza dai tratti imperiali e aggressivi esercitata però senza il sostegno di un adeguato tessuto economico e militare.

Quali vicende hanno segnato le relazioni tra la Repubblica italiana e i Balcani?
Dopo il disastro politico e militare della Seconda guerra mondiale e l’avvio nella regione (con l’eccezione della Grecia) di una trasformazione politica, economica e sociale sul modello sovietico, per lunghi anni l’Italia praticamente scomparve dal Sud-est dell’Europa. Del resto le controverse vicende del confine orientale con la perdita dell’Istria, di Zara e l’esodo di centinaia di migliaia di italiani oltre che da quei territori anche dalla Dalmazia, parevano rappresentare il simbolo più doloroso del fallimento degli anni precedenti che l’Italia impegnata nella ricostruzione e sempre più integrata nel sistema di alleanza occidentale parve quasi voler dimenticare. Solo dalla seconda metà degli anni Sessanta le cose gradualmente cominciarono a cambiare. Il progressivo processo di normalizzazione dei rapporti con la Jugoslavia permise un incremento anche importante degli scambi commerciali ma anche un interessante fenomeno legato alla penetrazione della cultura popolare italiana nel paese vicino attraverso la musica leggera, la moda, il cinema e poi più avanti l’incremento dei visitatori italiani sempre più attratti dalle bellezze delle coste dalmate soprattutto. Questi fattori assieme al particolare clima politico creato dalla Guerra fredda e alla posizione neutrale della Jugoslavia rispetto ai due blocchi, permise di superare – almeno temporaneamente – le dolorose ferite lasciate dalla guerra, riemerse però in anni più recenti anche se però in un’ottica di contrapposizione politica interna alla penisola. Con gli altri Paesi della regione e sempre tenendo conto dell’eccezione ellenica, fino al 1989, i rapporti furono improntati a una sostanziale reciproca correttezza, relazioni economiche (soprattutto con la Romania) e poco più. Anche in questo caso dobbiamo parlare di un’eccezione albanese. Fino alla caduta del regime comunista sqipetaro, l’Italia fu il Paese occidentale con le relazioni politiche, commerciali e culturali più strette con l’Albania come pareva dimostrare anche l’imponente edificio dell’Ambasciata d’Italia a Tirana. Né va sottovalutato il ruolo giocato dai programmi televisivi della RAI nell’aprire in migliaia e migliaia di case albanesi una finestra sul mondo (anche molto distorta per la verità) per migliaia e migliaia di abitanti di quello che era il Paese più isolato d’Europa. La fine della Guerra fredda, la crisi del sistema politico italiano della cosiddetta “prima repubblica” hanno contribuito senz’altro a rendere l’azione italiana meno incisiva negli anni delle guerre jugoslave pur seguite con attenzione dall’opinione pubblica. Dopo la fine dei regimi comunisti più incisiva fu l’azione italiana nel resto dei Balcani nella difficile transizione prima verso il mercato e la democrazia e poi verso l’UE. L’Italia ancora oggi è un partner economico fondamentale per la Romania, la Bulgaria e l’Albania e le consistenti comunità albanesi e romene viventi in Italia dopo anni difficili sono sempre più integrate nel tessuto sociale ed economico del Paese.

Alberto Basciani insegna Storia dell’Europa orientale all’Università Roma Tre. Tra i suoi libri recenti: La difficile unione. La Bessarabia e la Grande Romania (1919-1940) (2007) e L’illusione della modernità. Il Sud-est dell’Europa tra le due guerre mondiali (2016).
Egidio Ivetic insegna Storia moderna e Storia del Mediterraneo all’Università di Padova. Tra le sue pubblicazioni:
Le guerre balcaniche (nuova ed. 2016), Storia dell’Adriatico. Un mare e la sua civiltà (2019) e I Balcani. Civiltà, confini, popoli (1453-1912) (2020).

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