
Giona era, quindi, un vescovo di tipo nuovo, molto colto. La sua cultura traspare dalla sua produzione scritta: fu autore di diverse opere. Egli sviluppò una particolare specializzazione per i trattati, o comunque i testi, a carattere per l’appunto morale. Li indirizzò a diversi destinatari: ne scrisse per i laici, per i sovrani, per i suoi colleghi vescovi (nella forma di testi agiografici). Talora scrisse su richiesta, talaltra di sua iniziativa. Si impegnò anche nei dibattiti dottrinali del suo tempo, componendo un trattato sulla liceità del culto delle immagini sacre, dei santi e delle reliquie, e della pratica del pellegrinaggio. Tutte le sue opere sono impregnate di cultura e di citazioni bibliche e patristiche, tratte tanto dai best-sellers che circolavano nell’alto medioevo (Agostino, Girolamo, Isidoro, Beda), sia da autori meno conosciuti. Del resto aveva a disposizione biblioteche ricche e importanti in diocesi di Orléans, come quella della cattedrale e quelle di diversi monasteri, tra cui Fleury e Micy. I suoi testi appaiono in molte parti come dei florilegi di citazioni – il che indica sia la sua padronanza della letteratura cristiana, sia quella che egli pretendeva, o dava per scontata, presso il suo pubblico. I laici carolingi, lo ha sottolineato la storiografia recente, non erano così ignoranti come un tempo si pensava.
Giona era, in quanto vescovo e in quanto intellettuale, una figura pubblica. Fu in stretti rapporti con alcuni dei principali personaggi politici dell’epoca, come Matfrido di Orléans, destinatario dell’Institutio laicalis. O come Ugo di Tours, consuocero di Ludovico il Pio. Svolse incarichi ufficiali per conto dell’imperatore, partecipando all’opera di riforma del monastero regio di Saint-Denis, compiendo missioni diplomatiche e giudiziarie. Secondo una fonte della seconda metà del IX secolo, fu inoltre colui che dettò la sentenza di deposizione di Ebbone, arcivescovo di Reims. Ebbone fu il capro espiatorio per le travagliate vicende delle rivolte dei figli di Ludovico il Pio contro il loro padre, tra 830 e 834. Quegli anni furono particolarmente intensi, complicati, perfino traumatici per l’impero, scosso dalle lotte fratricide tra i membri della famiglia imperiale. La deposizione di Ebbone, accusato di aver guidato e fomentato le rivolte, chiuse – almeno formalmente – quella fase. E quando ciò avvenne, Giona fu in prima linea a rinnovare il sostegno suo e dell’episcopato dell’impero a Ludovico il Pio. Anche dal punto di vista prettamente politico il suo ruolo fu insomma centrale.
Qual è l’importanza dell’Institutio laicalis?
Anzitutto sono lieto sia passato il messaggio del cambio di titolo da me proposto. Finora il trattato morale di Giona per i laici era sempre stato chiamato De institutione laicali. Può apparire una variazione di poco conto, in realtà a me sembra importante perché, come l’autore afferma nella lettera dedicatoria del testo – come a dire, nella sua introduzione –, la sua intenzione era proprio quella di scrivere una institutio, un testo al contempo didattico e normativo, come quelli che tra 816 e 817 furono emanati, in sede conciliare e per volontà imperiale, per i canonici e per le donne votate a vita religiosa; e come già esisteva per i monaci nella forma della regola di Benedetto. La sua è quindi in tutto e per tutto una institutio, non un libro de institutione, ‘a proposito di’ una institutio. Ciò detto, il trattato è importante da molti punti di vista. Il cospicuo numero di capitoli dedicati al matrimonio e alla vita coniugale rappresenta la più ampia trattazione carolingia su questi temi, in quel periodo oggetto di accesi dibattiti e riformulazioni. In generale il testo presenta la via offerta ai laici per ottenere la salvezza della propria anima dopo la morte, anche attraverso il matrimonio. Nel pensiero cristiano la condizione coniugale non godeva di una buonissima stampa, a parte le opere, cui Giona si rifa abbondantemente, di Agostino. Tuttavia l’ideologia carolingia, che assegnava al sovrano il compito ultimo – e parecchio ambizioso – di condurre tutti i suoi sudditi alla salvezza spirituale, richiedeva che anche ai laici fosse indicato uno stile di vita consono al raggiungimento di questo scopo. La condizione dei laici era caratterizzata dall’accesso al matrimonio, precluso agli ecclesiastici. Dunque occorreva costruire un modello morale di condotta che abbracciasse il loro tratto distintivo, quello di (poter) essere sposati. Giona si prese la briga di fare esattamente questo, e dunque di contribuire al consolidamento dell’edificio morale, e al contempo politico-ideologico, carolingio. Infine l’Institutio è di particolare importanza per il percorso individuale di Giona stesso. La versione del testo da me studiata è il più antico scritto di Giona giunto sino a noi. Essa costituì quindi, per certi versi, l’avvio della sua carriera da moralizzatore di un impero.
Su quali versioni del testo si basa l’edizione proposta?
Del testo di Giona ci sono pervenute due versioni, ma se ne conoscono almeno tre. La prima e più antica non è sopravvissuta, ma è stata postulata da Odile Dubreucq in anni recenti sulla base di un esame della tradizione manoscritta e delle altre due versioni. La prima di queste fu indirizzata a Matfrido di Orléans, che si era rivolto a Giona per chiedergli lumi su come vivere da buoni cristiani nel matrimonio. La seconda fu scritta alcuni anni più tardi, dopo il declino politico del conte Matfrido, incappato nelle ire del sovrano per la cattiva gestione di una spedizione militare. Se nella prima versione il nome di Matfrido compare esplicitamente, nella seconda esso fu eliminato: Giona sentì il bisogno di lavare via anche le testimonianze scritte del suo rapporto con l’ex-conte, e ne approfittò per rivedere il suo testo, cambiandone in parte i contenuti e rendendolo più simile, sembrerebbe, alla prima e perduta versione. La mia edizione si sofferma sul testo per Matfrido, la più antica delle due recensioni superstiti. Le ragioni sono almeno due. Da un lato questa versione è trasmessa dai più antichi testimoni manoscritti dell’Institutio a oggi noti, uno dei quali con ogni probabilità supervisionato dallo stesso autore. Finora, sembrerà assurdo, essi non erano mai stati usati come basi per un’edizione del testo. Dall’altro lato, la versione per Matfrido, come ho detto, segna ai nostri occhi l’esordio dell’opera di correzione morale di Giona. I motivi sono dunque al contempo filologico-testuali e storici.
Come si sono sviluppati nei secoli gli studi sull’Institutio laicalis?
L’Institutio laicalis fu studiata già in epoca medievale, anzi, a pochi decenni di distanza dalla sua composizione. Sappiamo che Incmaro di Reims la lesse e se ne servì per elaborare la sua posizione a proposito dello spinoso caso dell’annullamento del matrimonio di Lotario II, nella seconda metà del IX. Già allora il testo era visto come un repertorio di norme per i coniugati. Successivamente un rinnovato interesse per il trattato di Giona si colloca tra fine XI e XII secolo, nel periodo della riforma ecclesiastica (quella che una volta si definiva “riforma gregoriana”), quando i temi matrimoniali e il divieto di sposarsi per i chierici tornarono prepotentemente al centro del dibattito pubblico. Gli ordini mendicanti conoscevano e copiarono il testo di Giona. In epoche più recenti, la storiografia lo ha approcciato da almeno tre diverse angolature. In primo luogo lo ha esaminato come uno speculum, un trattato morale, tra gli altri, dunque come un testo all’interno di un corpus, evidenziandone i caratteri peculiari e la concentrazione di questi testi, fatto molto interessante, in epoca carolingia – terminata la quale la loro produzione cessò per riprendere, in forme molto diverse, qualche secolo più tardi. Poi gli studiosi hanno analizzato con molta attenzione gli insegnamenti di Giona sul matrimonio e il rapporto tra marito e moglie, ponendoli in dialogo con le altre fonti carolinge che parlano di questi temi. Lo scopo era quello di delineare il discorso (o i discorsi) carolingio sul matrimonio e il nuovo ruolo attribuito alla coniugalità come elemento distintivo della macrocategoria sociale dei laici. Più di recente l’Institutio è entrata nell’orbita dei gender studies, e soprattutto degli studi sulla costruzione di modelli di mascolinità: come doveva comportarsi, e come era rappresentato, l’uomo laico ideale in epoca carolingia.
Tutti questi approcci, molto diversi, hanno un tratto comune: non si soffermano sul testo nella sua interezza. Il primo, per così dire, lo supera, studiandolo all’interno di un gruppo più ampio di testi. Il secondo ne isola i contenuti a carattere matrimoniale. Il terzo fa lo stesso, estendendo però la sua analisi anche ad altri temi, come i doveri pubblici, il rapporto con la sfera del sacro, ecc. A me premeva soprattutto fornire una lettura d’insieme – e mettere il lettore nella condizione di farsene una propria – del testo tutto, evidenziando il ruolo dei capitoli sul matrimonio nell’economia e negli scopi complessivi dell’opera.
Come si struttura l’Institutio laicalis?
Il testo si suddivide in tre libri, per un totale di 69 capitoli: 20 il primo, 29 il secondo, altri 20 il terzo. Il secondo libro doveva in realtà comprendere 30 capitoli, ma poi Giona scorporò il trentesimo, De principibus, per farne un trattato morale a sé, rivolto a quei laici particolari che erano i sovrani. I contenuti del testo riflettono poi una struttura più complessa. Il primo libro parla del battesimo, del corretto approccio agli spazi sacri (edifici ecclesiastici), della penitenza, delle buone opere; insomma, della formazione cristiana del laico, sin da quando nasce alla vita vera, quella religiosa, con il battesimo. Il secondo si apre con i ben 16 capitoli dedicati al matrimonio, una sorta di minitrattato dentro al trattato. E prosegue con diverse mansioni pubbliche dei laici aristocratici (maschi), in particolare dei conti: amministrazione della giustizia, pagamento delle decime, ospitalità, rapporto con i sacerdoti – perfino la caccia. Il secondo libro pone dunque in dialogo vita privata e vita pubblica dei laici carolingi nel pieno delle loro funzioni. Il terzo libro presenta una teoria di vizi e virtù, la cui messa in pratica porta alla conclusione del destino individuale e, con esso, dell’opera: la dannazione oppure la salvezza eterne. L’Institutio copre insomma tutta l’esistenza spirituale individuale, dall’ingresso nel popolo cristiano al destino dell’anima dopo la morte; uno schema che ben rispondeva alle necessità del potere pubblico carolingio, fortemente connotato in senso cristiano.
Anche i singoli capitoli hanno una loro struttura interna, grosso modo sempre la stessa. Giona introduce il tema, lo svolge con una sequenza più o meno lunga di citazioni bibliche e patristiche, quindi conclude con considerazioni personali. Non occorre nemmeno dire che le citazioni sono accuratamente selezionate e messe insieme per far loro dire ciò che all’autore interessa dire…
Di quali altre opere è autore Giona di Orléans?
Come dicevo Giona ha composto molti altri testi a carattere morale. Oltre alla seconda versione dell’Institutio vi è quella specifica per i sovrani, il De institutione regia, indirizzato a Pipino di Aquitania. Per i vescovi, e su richiesta di Walcaudo di Liegi, Giona riscrisse la Vita di sant’Uberto, vescovo di Liegi nella prima metà dell’VIII secolo, riadattandone la forma ai gusti letterari della sua epoca, e soprattutto ricorrendo sistematicamente al linguaggio politico carolingio della correctio morale e delle gerarchie sociali che questa funzione stabiliva fra correttori e corretti. Una sorta di antimodello episcopale è poi inserita nel De cultu imaginum, con cui Giona rispose a Claudio di Torino e alla sua condanna del culto delle icone e delle reliquie. Fu, quella, l’occasione per mostrare Claudio come l’esatto contrario di quello che un vescovo dovrebbe essere: collerico, eretico, tirannico, incapace di affrontare i problemi pastorali cui si trovava davanti se non con la violenza e le condanne insensate di pratiche religiose ritenute (e presentate da Giona come) perfettamente lecite. Infine al vescovo di Orléans è attribuita anche una lettera di fuoco sempre a Pipino di Aquitania sul divieto di usurpare o incamerare beni ecclesiastici (De rebus ecclesiasticis non invadendis). Giona fu forse anche il ‘segretario’ di un paio di importanti concili episcopali, tenuti a Parigi nell’825 e 829, e quindi il probabile estensore dei loro atti. Giona seppe indirizzare la sua opera moralizzatrice a interlocutori diversi tramite strumenti testuali diversi, ritenuti adatti ai tipi di pubblico cui volta per volta si rivolgeva.