“Israele. Prosperità senza pace” di Claudia De Martino

Dott.ssa Claudia De Martino, Lei è autrice del libro Israele. Prosperità senza pace edito da Castelvecchi: qual è la situazione attuale nei Territori Occupati e come sta evolvendo?
Israele. Prosperità senza pace, Claudia De MartinoLa situazione nei Territori occupati è molto preoccupante, ma il libro che ho voluto scrivere a ridosso di quella che sembrava un’annessione imminente della Cisgiordania da parte israeliana è nato dall’urgenza di comunicare all’opinione pubblica italiana che il dibattito internazionale sui due Stati è impostato su categorie ormai superate dal tempo.

Troppo spesso, infatti, in Europa si sente parlare di “processo di pace” come se ve ne fosse ancora uno in corso, ebbene occorre fugare ogni dubbio in merito, perché non è così.

L’ultimo processo di pace istruito -gli Accordi di Oslo- risale a quasi trent’anni fa e dal 1996, ovvero appena tre anni dopo la trionfalistica stretta di mano tra il Presidente Arafat e il Premier Itzhak Rabin mediato dall’allora Presidente USA Bill Clinton, quel processo si è arenato. Tuttavia, “arenato” è un termine convenzionale che si applica a una trattativa che non ha avuto esito positivo per cause di forza maggiore che prescindono dalle parti, mentre nel caso del fallimento degli Accordi di Oslo le responsabilità politiche israeliane sono evidenti.

L’ultimo processo di pace seriamente avviato tra le parti naufragò per una scelta mirata del Primo ministro Benyamin Netanyahu – che è ancora oggi in carica, costituendo il più longevo politico israeliano continuativamente al potere (superando anche il Padre della patria Ben Gurion) -, eletto proprio nel 1996 con il mandato di rendere impossibile la costruzione di uno Stato palestinese indipendente. Compito da lui assolto perfettamente: protagonista di un’efferata campagna d’odio ai danni della Sinistra laburista, che avrebbe alimentato il pericoloso sostrato culturale responsabile dell’omicidio del Premier Rabin incolpato di essere l’artefice della “svendita” di legittimi territori ebraici agli Arabi propagandata come un nuovo “Olocausto”-, Netanyahu avrebbe fatto di tutto per minare il processo di pace dall’interno. Lo fece infatti implodere su sé stesso con una semplice mossa: raddoppiare -dai 100.000 del 1993 ai circa 200.000 del 1999- in pochi anni il numero di coloni presenti oltre la “Linea Verde”, ovvero la linea invisibile che secondo il diritto internazionale separerebbe ancora oggi Israele e Palestina. Oggi i coloni sono oltre 600.000 (464.000 nei Territori occupati e 230.000 circa nei quartieri posti a Gerusalemme est).

Non è un caso che è a partire da quegli anni che il dibattito internazionale si focalizza sulle colonie, identificando in esse l’anello debole nel riavvio del “processo di pace”, che pur non ripartendo mai seriamente, viene evocato dai politici israeliani e palestinesi come l’obiettivo a cui entrambe le parti tendono.

Ma chi sono questi coloni e perché si trovano tanti Israeliani -o ebrei stranieri naturalizzati israeliani- che intendono prendere parte a questo crimine -la colonizzazione-, nonostante i rischi individuali oggettivi -omicidi, rapimenti, attentati- che vivere oltre la Linea Verde comporta? Ebbene questo punto non è stato spiegato a sufficienza dai giornali all’opinione pubblica europea, che ragiona sul problema delle “colonie” senza soffermarsi su chi siano i “coloni”, ovvero i protagonisti della colonizzazione in atto.

Analizzandolo, però, si chiariscono molti aspetti: in primis, i “coloni” non sono una razza separata di uomini, dei cittadini diversi dagli altri, ma godono di pari diritti e doveri rispetto agli altri cittadini israeliani. In altri termini, non sono affatto discriminati a livello giuridico per la loro scelta “non convenzionale” di andare a vivere oltre il confine internazionalmente pattuito e questa scelta non è attribuibile nemmeno alla Destra israeliana -al Likud di Netanyahu per intenderci-, ma a tutti i governi israeliani, tanto afferenti alla Destra che alla Sinistra laburista, almeno a partire dal 1967, ovvero da 60 anni.

Proseguendo, ci si può chiedere dove vivano questi coloni, ovvero se in prefabbricati di fortuna costruiti nel deserto o nella Valle del Giordano o in tende semimobili, scoprendo invece che molti di coloro che sono conteggiati come “coloni” (il 71% circa) vivono in comode città dotate di tutti i servizi moderni (si pensi ad Ariel), ivi comprese strade ad alto scorrimento che li collegano in pochi minuti alle due megalopoli di Gerusalemme e Tel Aviv. Inoltre, aggiungendo un altro tassello, si scopre che essi usufruiscono persino di incentivi fiscali governativi per ripianare il disagio che comporta inevitabilmente vivere oltre la Linea Verde, nonostante il prezzo degli immobili sia notevolmente inferiore alle città e ai paesi dell’”Israele legittimo” e molte altre attività, come l’insediamento di impianti industriali (si pensi a Barkan), siano sovvenzionate dalle autorità, che al contempo provvedono all’erogazione di tutti i servizi base (elettricità, acqua, pulizie delle strade, raccolta dei rifiuti, illuminazione pubblica, asili, scuole ed Università, parchi e impianti sportivi) alla stregua di tutti gli altri enti locali.

Infine, approfondendo ancora la questione dei “coloni”, si scopre statisticamente che a fronte di una percentuale del circa 10% sull’insieme della popolazione israeliana, essi sono rappresentati da un forte e coeso partito alla Knesset (presente con ben 5 seggi nell’attuale Parlamento), la Destra (Yamina), che ha partecipato ai governi di tutti gli ultimi 20 anni da posizioni chiave, esprimendo Ministri della difesa, dell’istruzione, della giustizia e dei trasporti. Assimilando già solo questo ultimo dato si comprende bene come questi “coloni” non possano percepirsi come un “corpo estraneo” in Israele, ma se ne sentano integralmente parte e come essi non accettino di essere bollati come degli “infami” o degli “avventurieri” da parte di Stati stranieri, ed in particolare europei, che pretendono di ignorare questo fattore intrinseco alla politica israeliana solo perché non corrisponde agli standard democratici dei Paesi occidentali. Occorrerebbe, invece, arrendersi all’idea che Israele non sia tenuto a rispettare quegli standard, perché non è uno Stato europeo, né una democrazia occidentale che presuppone l’uguaglianza formale tra tutti i propri cittadini.

Da 24 anni ormai non è nemmeno uno Stato interessato a riannodare un processo di pace che è stato volontariamente insabbiato dalla stessa persona -dalle stesse coalizioni governative a guida Likud- al potere nell’allora 1996 e lì ancora oggi. Non è dunque una “sciagura” il fatto che uno Stato palestinese non abbia visto la luce, ma la sua assenza è il risultato di una scelta strategica deliberata compiuta tanto dalla Sinistra che dalla Destra israeliane di spostare quanti più “cittadini” possibili oltre la Linea Verde in modo da rendere di fatto impossibile la separazione del territorio in due Stati il più possibile omogenei, come ben delineato da libri importanti come quello pubblicato dallo storico Gershom Gorenberg (2006).

Perché se esiste un obiettivo di fondo a cui la Destra e la Sinistra israeliane hanno sempre collaborato è il desiderio di ostacolare la nascita di uno Stato palestinese ai confini di Israele che sarebbe stato militarmente difficile da controllare e avrebbe costituito una minaccia permanente per lo Stato ebraico, oltre a privarlo di vari assets strategici in termini di risorse naturali (fonti acquifere nella Valle del Giordano), avamposti militari (le colline della Giudea sono disseminate di basi aeree) e controllo dei confini con i Paesi arabi limitrofi. È per questo che alcuni storici, anche da parte israeliana, hanno sempre criticato perfino l’impostazione degli Accordi di Oslo che, anche qualora fossero proseguiti secondo i termini negoziati, non avrebbero portato alla nascita di un vero e proprio Stato in Palestina, perché comunque privo di controllo delle frontiere e dello spazio aereo, oltre che necessariamente demilitarizzato. In altri termini, anche Oslo avrebbe comunque condotto ad “un’autonomia rafforzata” a sovranità limitata, mentre ai cittadini palestinesi veniva lasciato intendere, anche per collusione delle loro classi dirigenti, che avrebbero ottenuto uno Stato su un piano di piena parità con Israele, possibilità che non si è mai data.

Quali vicende hanno segnato la più recente storia della questione palestinese?
Ve ne sono tante, ma io citerei la prima (1987-93) e la seconda Intifada (2000-04) e le tre guerre (2008, 2012, 2014) che Israele ha condotto contro la Striscia di Gaza schiacciandone di fatto la resistenza, conducendo Hamas a desistere da attacchi armati ad Israele ma anche spingendolo a richiedere una “tahadiya”, ovvero un negoziato indiretto con Israele per tramite del Qatar. Tra gli eventi non importanti, invece, ve ne sono alcuni che hanno avuto molto eco sui giornali, ma che non hanno affatto costituito una differenza, come la promulgazione della legge su “Israele-Stato ebraico” (ovvero la “legge fondamentale sullo Stato-nazionale”, 2018), che non ha sostanzialmente modificato nulla negli equilibri tra ebrei ed arabi, né affermato nulla che non fosse di per sé già evidente, ovvero che gli ebrei godono di privilegi collettivi speciali in quanto gruppo nazionale prioritario (e demograficamente maggioritario) all’interno di Israele.

Occorre scremare gli eventi fondanti tra la mole enorme di notizie sensazionalistiche che riguardano oggi il Medio Oriente.

Io ho scritto un libro che ruota tutto attorno alla paventata annessione israeliana della Valle del Giordano e, oggi che la fatidica data del 1° luglio è superata e il progetto di annessione sembra inesorabilmente accantonato, si potrebbe quasi denunciarne l’irrilevanza. Tuttavia, io lo difendo perché credo -al contrario della direzione intrapresa dagli eventi di cronaca e dai titoli dei quotidiani che si soffermano sul carattere epocale dei nuovi trattati di pace siglati tra Israele ed Emirati arabi e Bahrein- che i grandi movimenti della storia si producano nel lungo periodo e non siano legati ad effimere cerimonie diplomatiche che intendono distogliere l’attenzione generale dal tema centrale, che è quello della cancellazione della questione palestinese dall’agenda politica internazionale.

Gli Emirati arabi e il Bahrein non sono altro che gli ambasciatori dell’Arabia saudita, che attendeva di testare come l’incipit di una normalizzazione sarebbe stato recepito dalla comunità internazionale e dalla “piazza” araba.

Ebbene, la normalizzazione sembra essere stata accettata senza ripercussioni negative: è vero, i Palestinesi sono scesi in strada nei Territori occupati per protestare veementemente, ma chi ha raccolto le loro proteste? Chi ha dato loro voce sui grandi media internazionali? Chi organizzerà oggi per loro conto una grande manifestazione come quella contro la guerra in Iraq del 2003? Perché senza portare almeno un milione di persone in piazza in tutti i maggiori Paesi occidentali, la normalizzazione sarà di fatto riuscita perché le cancellerie europee non si muoveranno per arrestarla. Tutto sommato, credo che quelle stesse cancellerie in qualche modo si rallegrino persino della “svolta” nelle relazioni diplomatiche tra Israele e una parte del mondo sunnita. Però questa svolta ha già compiuto molte vittime collaterali: i primi sono i Palestinesi, che saranno i grandi dimenticati della storia e si avviano ad avere un destino simile ai Curdi; la seconda è la Giordania, verso la quale consistenti flussi migratori dalla Palestina si muoveranno nei prossimo mesi se la situazione dovesse confermarsi questa, destabilizzandola al suo interno; la terza vittima è il diritto internazionale, che dimostra ancora una volta di rimanere carta straccia senza una grande potenza politicamente interessata ad esigerne il rispetto.

Si possono dire molte cose contrastanti dell’Amministrazione Trump di questi ultimi cinque anni, ma essa è riuscita in ogni caso ad imprimere un maggiore cinismo alle relazioni internazionali e ha evidenziato tutte le debolezze e divisioni interne all’Unione Europea e alla Sinistra.

Quali scenari aprirebbe l’annessione israeliana di parte della Cisgiordania?
Il punto fondamentale e la premessa alla mia riflessione è che non vi sia più alcun conflitto tra Israeliani e Palestinesi semplicemente perché Israele ha già vinto su tutti i fronti. L’annessione formale non avrebbe cambiato assolutamente nulla per gli Israeliani e forse è questa una delle ragioni per cui essa non è stata condotta a termine e una maggioranza dell’opinione pubblica israeliana non se ne dimostrasse entusiasta. Non avrebbe arrecato alcun beneficio materiale di cui essi già non godessero, governando la Valle del Giordano, che rientra nell’area C a esclusiva sovranità israeliana, e sfruttandone a pieno tutte le principali risorse minerarie, acquifere e agricole. Dunque, l’annessione avrebbe formalizzato e ufficializzato soltanto una situazione che già vige dal 1993, ovvero dalla stipula degli Accordi di Oslo e dalla divisione dei Territori in aree A, B e C, rispettivamente a sovranità palestinese, mista ed esclusivamente israeliana.

A cosa sarebbe servita tale ufficializzazione? Essenzialmente a dichiarare al resto del mondo, ed in primis all’Unione Europea, che la “questione palestinese” fosse chiusa per sempre. Decisione in linea con il cosiddetto “Piano di pace” Trump, che anch’esso punta alla chiusura del conflitto israelo-palestinese con l’annuncio unilaterale della vittoria israeliana e una situazione di “accomodamento” molto parziale delle richieste della parte sconfitta. L’obiettivo del Governo Netanyahu, quindi, non era tanto quello di annettere un territorio -spiegazione del tutto fuorviante, dato che quel territorio lo governa già e soprattutto non è assolutamente tenuta oggi a restituirlo! -, ma di “risolvere la questione una volta per tutte”, ponendo fine a una diatriba che per il governo israeliano continua a trascinarsi solo a livello internazionale e presso le opinioni pubbliche occidentali, mentre in Israele e da una prospettiva strettamente regionale essa è già stata archiviata del tutto.

Prova ne è che gli Stati arabi più ragionevoli -in Occidente li definiremmo “moderati”, come l’Egitto e l’Arabia Saudita – non abbiano reagito negativamente all’annuncio dell’annessione, limitandosi a criticarla con toni per l’appunto molto moderati, in una sorta di “gioco delle parti” obbligatorio. Nessuno, anche nel mondo arabo, crede più alla possibilità di “liberare la Palestina”, né intende spendersi, anche solo diplomaticamente, per questo obiettivo. In realtà a molti Paesi arabi sunniti, che adesso vorrebbero solo concentrare i propri sforzi per il contenimento militare della Repubblica islamica iraniana, farebbe comodo che la causa palestinese scivolasse nel dimenticatoio generale oppure si risolvesse con un accordo di facciata che salvasse un minimo di forma, preservando nominalmente la dignità dei popoli arabi.

È realistico, a Suo avviso, pensare che in un tale scenario i Palestinesi possano rinunciare alla logica dei due Stati per abbracciare una lotta progressista per i diritti di cittadinanza all’interno dello Stato ebraico?
Assolutamente si! I Palestinesi non sono stupidi: sono stati a lungo una delle società più istruite del Medio Oriente e comprendono perfettamente la loro completa irrilevanza geopolitica all’interno del nuovo scacchiere mondiale che si è ridisegnato a partire dal 21° secolo. Non vogliono subire lo stesso destino dei Curdi. Nessuno meglio di loro sa che l’occupazione israeliana è lì per restare, che ormai infonde tutti gli aspetti della loro vita quotidiana, che l’Autorità Nazionale Palestinese è un fantoccio che si regge solo ed esclusivamente su prestiti internazionali e sulla buona volontà del Governo israeliano di rimetterle le tasse (secondo gli Accordi di Parigi, altro controverso lascito di Oslo) e di lasciare affluire beni e servizi.

Basta loro vedere l’indifferenza generale in cui versa la Striscia di Gaza, bloccata da anni (dal 2006) da ogni lato dall’azione congiunta di Israele ed Egitto, ridotta alla fame, alla sete e all’assenza di qualsiasi prospettiva di miglioramento, con una popolazione allo stremo con tassi di disoccupazione altissimi (oltre il 45% quello ufficiale), servizi al collasso (poche ore di elettricità al giorno) e collettivamente privata della libertà come in un enorme carcere, tenuta in una morsa talmente stretta che nulla vi può più pervenire senza che gli Israeliani lo vogliano, senza che questa miserevole condizione sollevi più lo sdegno della comunità internazionale.

I Palestinesi di Ramallah, di Hebron, di Nablus e Jenin sanno che loro potrebbero essere i prossimi e che potrebbero non essere più fortunati dei loro connazionali gazioti. A ciò si aggiunge una profonda disillusione rispetto alla propria leadership -ovvero ad entrambe le leadership, tanto di Hamas che di al-Fatah- che non hanno saputo fare altro che alimentare la causa di un’immaginaria quanto sempre più impossibile indipendenza nazionale alle spese dei cittadini: il primo, Hamas, lanciando ridicole azioni militari -come il lancio di razzi dalla Striscia- che hanno provocato migliaia di morti per le prevedibili ritorsioni israeliane, la seconda, l’ANP, temporeggiando diplomaticamente e riproponendo periodicamente lo scheletro di una soluzione politica ormai priva di fondamenta.

Le soluzioni esisterebbero e sono già state individuate dalla parte più progressista della società palestinese e appoggiate a maggioranza dalle nuove generazioni, che più di tutte ambiscono ad una svolta politica che possa impattare positivamente sulle loro vite, rinunciando al passivo atteggiamento millenaristico che ha contraddistinto l’attaccamento ad un’astratta “causa nazionale” di molti dei loro genitori. Questo cambiamento sostanziale di paradigma è già stato prospettato dagli Arabo-israeliani – o arabi del ’48 o palestinesi d’Israele che li si voglia chiamare -, che più di tutti si confrontano con gli aspetti contraddittori del vivere in una società israeliana che li discrimina formalmente ma garantisce anche loro libertà fondamentali.

In una serie di documenti stilati nel 2008 – intitolati “Visioni del futuro”, “una Costituzione uguale per tutti”, “Una costituzione democratica” -, il cosiddetto “gruppo di Haifa”- un gruppo di attivisti esponenti della società civile di una grande città mista arabo-ebraica d’Israele- argomenta a favore dello Stato unico e di pari diritti (e doveri!) al suo interno per arabi ed ebrei: una soluzione che dovrebbe contemplare il diritto al ritorno dei rifugiati (almeno parziale) ed un riconoscimento ufficiale della Nakba, della “catastrofe” inflitta al popolo palestinese con le espulsioni di massa nella guerra del ’48, ma che garantirebbe la convivenza tra i due popoli all’interno dell’unico stato esistente. Sulla stessa linea i documenti elaborati sempre elaborati ad Haifa dalla “Campagna per lo stato unico”, con un dettagliato piano politico espresso in 10 punti fondamentali, ma anche le dichiarazioni di Ayman Odeh, il principale leader della Lista Unita araba al Parlamento israeliano, o ancora di esponenti vicini all’ANP le cui parole sono riportate nel mio libro.

Il cammino è ancora lungo e certamente il consenso palestinese non è unanime, ma il dato sulle opinioni espresse dalle nuove generazioni e catturato dai sondaggi palestinesi è confortante.

I Palestinesi hanno bisogno di identificare al proprio interno una nuova leadership che sappia emanciparsi dal mito della “causa nazionale” per abbracciare una visione politica moderna, che mantenendo lo stesso principio-chiave, quello dell’uguaglianza tra arabi ed ebrei, lo declini in modo diverso, al contempo maggiormente pragmatico e progressista.

Esiste di fatto un solo Stato perché così Israele ha voluto? Ebbene, i Palestinesi non possono far altro che richiedere di diventarne cittadini a pieno titolo, godendone almeno formalmente pari diritti e doveri.

Israele non è intenzionato a concedere loro alcun diritto di cittadinanza perché non si comporta come una democrazia occidentale? Ebbene deve essere costretto a scegliere a che sistema politico vuole appartenere ed ispirarsi: alle democrazie euro-americane, alle democrazie plebiscitarie del Medio Oriente, ai regimi di apartheid stile sudafricano, alle autocrazie monarchiche stile-Emirati. Non esiste una sola via alla modernità e il successo degli Emirati arabi e dell’Arabi saudita lo hanno sfortunatamente confermato, ma Israele deve essere confrontato con il rischio di non essere più classificato come una “democrazia” – con le conseguenze pratiche che da essa ne deriverebbero, come ad esempio l’esclusione dall’OECD- detenendo in cattività 3 milioni di cittadini (escludendo gli 1.7 milioni di Gaza) appartenenti ad una “minoranza”.

Quanto a lungo potrebbe uno Stato di 9 milioni di cittadini, di cui circa 7 milioni di ebrei e 2 di arabi, tenere in scacco attraverso un capillare controllo militare 3 milioni di persone, pari ad un 1/3 della popolazione? È per questo che la questione demografica è così assillante per i dirigenti israeliani e forse è l’unica destinata a contare in futuro.

I Palestinesi hanno questo asso fondamentale dalla loro parte, ma devono decidere collettivamente di portare la sfida su un altro piano, quello dei diritti, quello della richiesta di cittadinanza, di rappresentanza, di uguaglianza politica, prima, culturale, sociale ed economica, poi. Possono farlo e sarebbe l’unica scelta vincente all’altezza dei valori del 21° secolo, permettendo alla loro causa di attrarre un consenso trasversale in un’opinione pubblica mondiale globalizzata, generalmente distratta ma sensibile al tema dei diritti umani individuali.

L’annessione non si è compiuta, è vero, ma pensare che i Palestinesi abbiano guadagnato qualcosa dal suo arresto temporaneo è una mera illusione, una vittoria di Pirro. La normalizzazione tra Israele e gli Stati arabi della regione alle loro spalle sta lì a dimostrarlo. Occorre agire adesso per recuperare l’iniziativa e non scomparire per sempre dalle agende internazionali come il popolo curdo. È ancora possibile compiere scelte diverse.

Claudia De Martino, ricercatrice all’UNIMED, Unione delle Università del Mediterraneo di Roma, ha conseguito il dottorato in Storia sociale del Mediterraneo all’Università Ca’ Foscari di Venezia. È autrice di Su Gerusalemme. Strategie di controllo dello spazio urbano (2013), The October War (2013), I Mizrahim nella storia di Israele (1949-77) (2016) e di numerosi articoli scientifici.

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