
Questa pratica, che unisce uno degli oggetti consumistici più riconoscibili sul pianeta, l’automobile, allo sfoggio di abilità personale, sullo sfondo di un’urbanizzazione molto forte, di cui noi però conosciamo solo gli aspetti sfarzosi ed alla moda che ci vengono proposti dai media, è icastica delle contraddizioni che scuotono l’Arabia Saudita. Queste contraddizioni, prima ancora che sociali ed economiche, sono fondamentalmente quelle tipiche dei paesi che vengono investiti dalle dinamiche del regime capitalistico e dalle sue ricadute consumistiche in termini di comportamenti individuali.
La principale contraddizione che vive l’Arabia Saudita oggi è infatti quella di un paese che afferma di avere come costituzione il Corano, che è custode dei luoghi Santi dell’Islam e che diffonde la religiosità wahhabita in tutto il mondo, ma che allo stesso tempo è uno dei laboratori più avanzati del capitalismo contemporaneo, con tutto il suo carico di sregolato desiderio consumistico. Quel capitalismo consumista che sta dimostrando ampiamente di sapersi sviluppare benissimo anche in assenza di un regime democratico, liberale e dei diritti che secondo l’interpretazione corrente ne dovrebbe denotare l’adozione. Questa è la stridente contraddizione su cui si gioca proprio il destino dell’Arabia Saudita e la sua peculiare evoluzione.
Ciò che dunque scuote l’Arabia Saudita è fondamentalmente l’inizio di un’ibridazione fra le logiche capitalistiche e l’esigenza politica di un dominio religioso, che al di là delle forme in cui si tende nel nostro paese a ridurre la complessità della società saudita, è pronto ad essere cooptato nella logica più profonda del consumismo. L’ipotesi del libro è che la religiosità wahhabita, di per sé connotata proprio da un ferreo letteralismo nell’interpretazione coranica, oltre che da uno storico pragmatismo nel rapporto col potere dei Saud, costituisca un terreno estremamente fertile in questo senso. La vulgata neoliberale postula l’adozione di logiche capitalistiche come condizione per la secolarizzazione della cultura e dei costumi, e dunque legge queste contraddizioni come il classico contrasto fra una logica religioso/trascendentale e l’affermarsi di comportamenti secolarizzati ed improntati alle specifiche del regime consumistico. Ritengo invece che le contraddizioni che attraversano il regno Saudita siano dovute alla trasformazione di un particolare regime religioso, non solo, come accennato, cooptato dentro le logiche di mercato, ma esso stesso in qualche modo funzionale a questo processo. La similitudine più evidente è quella col puritanesimo protestante.
È un processo che dietro l’apparenza del lusso e della “modernità” – aspetti nei quali è più facile proiettare i valori che riconosciamo e che connotano i regimi capitalistici nei quali viviamo – sprigiona un elevato tasso di violenza perché intacca la costruzione dell’identità in tutte le sue declinazioni: religiosa, sociale, di genere, culturale in senso lato. I brand di abbigliamento islamico, il business del cibo halal, così come la certificazione shariatica dei fondi di investimento finanziari, ne sono l’esempio culturalmente più spendibile e meno controverso. Ma in questa ibridazione, come accennato, non scompaiono affatto le manifestazioni più virulente del rigorismo religioso wahhabita in termini di esecuzioni capitali e repressione dei costumi e delle minoranze, così come non viene meno la tendenza pragmatica dei Saud a spostare all’esterno del paese il conflitto che questo processo di grande trasformazione produce, con guerre e conflitti geopolitici che sono il corollario di qualsiasi dinamica con cui il capitalismo estende ed approfondisce il suo dominio, non solo in termini economici.
Interpretare le convulsioni che attraversano il regno Saudita – il quale per altro esercita un controllo ferreo sull’informazione – con le categorie proprie della nostra cultura, significa però replicare la dicotomia “noi-loro”, che quando non risulta distorcente od inefficace, finisce per scadere in una lettura neocoloniale, se non in uno sterile relativismo culturale. Le contraddizioni, da questo punto di vista, spesso risiedono negli strumenti conoscitivi che si impiegano. Personalmente ritengo più efficace – e dopotutto inevitabile dato che l’intero pianeta è plasmato dal solo regime capitalistico – investigare in che modo le logiche del capitale vanno ad impattare le varie società, e nello specifico la religiosità islamica dell’Arabia Saudita, parte in ogni caso della famiglia delle religioni abramitiche, e come questa si evolva sotto quest’urto, secondo il suo specifico carattere. Questo significa tentare di dotarsi di uno sguardo compiutamente globale, di un sapere che cerchi di analizzare come “il” sistema per eccellenza, l’attuale regime capitalistico planetario, determini processi sociali dinamici, togliendo a questo dinamismo ogni pretesa teleologica o evolutiva. Il dinamismo tipico che contraddistingue tutti questi processi, e quindi anche quelli che riguardano l’Arabia Saudita, è fondamentalmente fonte di violenza e di conflitto, ma anche di radicali trasformazioni ed ibridazioni.
Il wahhabismo in Arabia Saudita è lo snodo di queste contraddizioni ed anche il loro catalizzatore, poiché in nuce contiene elementi del tutto consoni proprio all’adozione della versione attuale del capitalismo globalizzato, connotato da aspetti che uno sguardo solo “occidente-centrico” pretende ancora di associare a visioni progressiste o meglio “di gestione” delle dinamiche del capitale. Il più totale dispiegamento del capitalismo contemporaneo vede invece, per fare un esempio inquietante ma oltremodo diffuso, il proliferare di molteplici forme di schiavitù de facto. Accettare questo stato di cose nella sua autentica natura, significa riuscire a leggere anche fenomeni come lo spietato rigorismo religioso wahhabita, che altrimenti si pretenderebbe di interpretare, con le nostre categorie culturali figlie dell’umanesimo, solo come oppressione religiosa, come un tipo di fenomeno religioso che condivide invece col capitalismo alcune caratteristiche “di fondo”. È qui che si gioca la profonda contraddizione in cui si dibatte l’Arabia Saudita.
Cosa propugna il wahhabismo?
Premetto che non sono un islamologo, né un teologo. Nell’indicare quindi cosa propugna il wahhabismo ho cercato di isolare, con rigore storico, quali sono le caratteristiche che questo movimento religioso ha sviluppato. La wahhabiyya infatti ha innervato fin dal primo momento la storia del dominio dei Saud sulla penisola Arabica, fin quasi ad identificarsi con essi – nella tipica tradizione che nell’Islam vede il dominio del potere politico su quello religioso, al contrario di quanto si vuole far credere oggi.
Il wahhabismo propugna sostanzialmente un ritorno all’Islam originario nella sua purezza, o meglio, a quello che esso ritiene essere l’Islam delle origini. Quest’idea non è propria solo del wahhabismo, il quale però è storicamente il primo a porre con estrema forza questo tema, articolandolo in un modo molto caratteristico.
Il fondatore del wahhabismo, Muhammad ibn Abd al-Wahhab, era un esperto di diritto islamico (un faqih) di scuola Hanbalita, una delle quattro scuole giuridico religiose principali (Hanafita, Malikita, Shafita ed Hanbalita). Queste scuole coraniche (i madhhab) nei secoli hanno accumulato, e spesso cristallizzato, diverse interpretazioni del Corano e della Sunna, le due principali fonti per l’interpretazione della Legge coranica, la sharia, che non va assolutamente intesa come un testo, dato che non lo è, ma come una serie d’interpretazioni con valenza giuridica degli insegnamenti religiosi presenti appunto nel Corano e nella Sunna. L’insieme delle loro interpretazioni costituisce la giurisprudenza islamica, cioè il fiqh.
La scuola da cui proviene il wahhabismo è appunto quella Hanbalita, che propugna un’interpretazione letteralista del Corano, escludendo tutte le letture che fanno ricorso all’analogia o a forme d’interpretazione personale. Ma il wahhabismo va ben oltre, esasperando in modo parossistico una caratteristica tipica della religione islamica, quella cioè di essere un’ortoprassi, anziché un’ortodossia, di basarsi cioè sulla regolazione dei comportamenti corretti e conformi al dettato coranico, più che su un credo formalizzato, e di discriminare ciò che è puro da ciò che è impuro.
Il suo primo assunto, dal quale deriva in qualche modo l’intera struttura del wahhabismo, riguarda l’unicità di dio (tawhid). Un’unicità affermata con una forza che non ha eguali in tutto il mondo islamico. Per i wahhabiti, che infatti chiamano se stessi i muwahhidun (gli unitari), qualsiasi tipo di associazione ad Allah di figure umane, luoghi ed oggetti o manufatti, è da considerarsi shirk (letteralmente politeismo), l’unico peccato imperdonabile. Per capire la forza di questa loro impostazione, basti pensare che considerano shirk anche il voler associare ad Allah lo stesso Profeta Muhammad. Hanno inoltre distrutto mausolei e tombe della tradizione religiosa islamica, considerati appunto forme di associazionismo che viola il tawhid: alla conquista de la Mecca, abbatterono ad esempio la casa di Khadija, la prima moglie del Profeta, o il mausoleo del primo dei quattro “Califfi ben guidati”, Abu Bakr.
Il wahhabismo radicalizza poi la distinzione fra vero e falso credente, postulando il dovere di allearsi con i veri credenti contro i falsi credenti. Come ho scritto nel libro si tratta di «un’esasperata distinzione fra veri credenti e falsi credenti – distinzione che in sé trascina l’idea dell’impossibilità di ogni mediazione – marcata in modo così forte e così netto da permetterne ed anzi incoraggiarne un uso volto all’aperta ostilità.» Implicitamente quindi si fa portatore di una delle categorie fondanti del politico, quella della distinzione amico/nemico, con grande nettezza e decisione.
I wahhabiti inoltre considerano il Corano non come manifestazione di Allah nella storia, ma come suo attributo. In sostanza ne rivendicano il carattere increato, non storico, eterno come eterno ed increato è Allah. Questo significa che ogni tentativo di storicizzarne il testo è considerato apostasia. Una virulenza antistorica non inedita anche sul versante del neoliberismo più smaccato.
I muwahhidun per lungo tempo hanno sostenuto l’ijtihad, lo “sforzo personale” verso dio, e sono stati nemici acerrimi della formalizzazione delle interpretazioni coraniche in qualche modo “sclerotizzate”, secondo loro, nella tradizione giurisprudenziale (il taqlid) e nella religiosità popolare. Un aspetto assai controverso, visto che le origini della wahhabbiyya risiedono proprio nella più letteralista delle scuole coraniche. Ma questa forte carica riformatrice – un aspetto che li ha fatti paragonare per certi versi ai puritani protestanti – è oggi poco più che un ricordo, dato che dal momento in cui i Saud conquistarono definitivamente il potere, essi hanno in sostanza ripristinato il potere degli ulema, accentuando tutti gli aspetti tipici di un inflessibile rigorismo formale giuridico.
Sulla base di una caratteristica tipica del mondo islamico sunnita, cioè la mancanza di un clero e di una struttura di tipo centralizzato come la chiesa cattolica – un’aspetto che per altro ha storicamente favorito l’espansione dell’Islam e connotato la sua “duttilità” sociale – la wahhabiyya ha finito invece per costringere nei limiti del formalismo la religiosità, proprio per il suo ossessivo letteralismo. Terminata l’utilità politica e militare di tanto zelo religioso, questo formalismo ha finito quindi per contaminarsi con tematiche identitarie forti, quelle cioè tipiche proprio delle identità in crisi, fornendo con ciò uno dei punti di contatto e di ibridazione con le logiche consumistiche, dove per consumismo non si intende il mero consumo di beni e servizi, ma il reale nucleo attivo dei comportamenti individualistici e di consumo, sia questo consumo pacifico che violento, visibile o attivamente occultato.
Come è riuscito un regime ultraconservatore e rigorista come quello saudita a conciliare consumismo capitalista e islam?
Uno dei paradossi della religiosità wahhabita è proprio quello di essere considerata ultraconservatrice, quando in realtà la wahhabiyya è nata e si è sviluppata come un virulento movimento religioso in aperto conflitto con le autorità religiose e con la tradizione religiosa sia istituzionale che popolare. Il suo autentico carattere è quello di un movimento riformatore. Non a caso è stato a lungo stigmatizzato e combattuto come una setta da larga parte della religiosità islamica, ed è ancora oggi apertamente osteggiato, sebbene sappia imporsi soprattutto attraverso le enormi ricchezze che ha accumulato grazie ai Saud. In questo senso, dunque, non dobbiamo confondere letteralismo e rigorismo con tradizionalismo o conservatorismo. Il wahhabismo è letteralista (ma molti islamologi potrebbero eccepire anche su questo) e rigorista, e non è affatto né tradizionalista, né conservatore.
Non è tradizionalista perché della lotta anche feroce contro ogni forma di religiosità tradizionale, come ad esempio la devozione popolare verso gli uomini pii, diffusa anche nel sunnismo, ha fatto fin da subito una delle sue bandiere. Le tradizioni si sedimentano e si modificano nel tempo, anche nelle religioni, e questo aspetto storico della fede è radicalmente osteggiato dal wahhabismo che asserisce di rifarsi alle scaturigini stesse dell’Islam, con un approccio del tutto astorico.
A dimostrare la mancanza di conservatorismo, inoltre, basti pensare che quando all’inizio del XIX secolo i Saud occuparono per la prima volta la Mecca con il loro sostegno, i muwahhidun si abbandonarono a tali e tanti oltraggi da indurre il Sultano della Sublime Porta, che all’epoca era ancora formalmente l’autorità califfale e il protettore dei luoghi santi dell’Islam, a scatenare la prima guerra Ottomano-Wahhabita, che portò alla distruzione dell’Emirato di Dirriyya, il primo stato Saudita. Per non parlare delle rivolte degli Ikwhan, una confraternita wahhabita che dopo aver sostenuto i Saud nella conquista del regno, sul finire degli anni ’20 del XX secolo gli si ribellò contro, per venire poi liquidata, anche grazie all’aiuto inglese. Quindi il wahhabismo non è una forza conservatrice, o sarebbe stato già spazzato via.
Il rigorismo ed il letteralismo del wahhabismo, invece, hanno fornito ai Saud un fenomenale grimaldello politico per dare una legittimazione religiosa alla loro conquista prima ed al loro potere poi. Se poi consideriamo anche il pragmatismo che denota la wahhabiyya, una sorta di vera e propria real politik religiosa, ecco che abbiamo per così dire il mix che permette al regime Saudita di interpretare nella maniera più intraprendente le forme più spettacolari proprie del capitalismo contemporaneo, all’ombra di un formalismo religioso che però non intacca affatto l’espansione di queste forme, che ne costituiscono, per inciso, anche una forma poderosa di finanziamento (il cosiddetto petro-Islam saudita, il quale costituisce una forma di colonialismo interno al mondo musulmano).
Tornando alla domanda, si possono distinguere due modalità con cui il regime Saudita coniuga un Islam come quello wahhabita al consumismo capitalista.
La prima modalità è se si vuole quella più evidente. Il wahhabismo costituisce per i Saud una grande fonte di legittimazione ideologica, ma essi hanno anche la necessità di controllare i processi sociali che il capitalismo induce nel paese. Un paese dove i lavoratori stranieri costituiscono circa il 38% dell’intera popolazione (12,6 milioni su 33,4 milioni di abitanti) e quasi il 50% della popolazione attiva, per dare solo un’impressione dell’enormità delle dinamiche in atto. Un paese spesso lacerato da conflitti religiosi intestini del tutto occultati dai media, con problemi sociali ed economici che affliggono un numero non indifferente della popolazione e grandi difficoltà a sviluppare settori economici che possano costituire alla lunga un’alternativa alle rendite petrolifere (per altro in notevole contrazione dal 2012). Le tensioni sociali che questa situazione genera non trovano però espressione nelle forme di conflitto politico a cui siamo abituati in Europa. L’arena pubblica è declinata in termini religiosi e il wahhabismo è nelle mani dei Saud un fenomenale strumento per varie operazioni: l’indottrinamento scolastico; il controllo sociale esercitato attraverso l’applicazione draconiana della sharia (il numero delle esecuzioni capitali senza processo è assai elevato) e la repressione di qualsiasi forma di dissenso; la legittimazione del potere vigente e delle sue scelte, come ad esempio la già citata certificazione shariatica degli asset finanziari sauditi. Il preteso rigorismo dei wahhabiti è sotto questo aspetto un puro instrumentum regni che della purezza religiosa ha ben poco, soprattutto alla luce del fatto che il re Saudita è anche imam, cioè guida dei fedeli e principale autorità religiosa, due attributi che hanno anche una rilevante valenza giuridica, nel mondo musulmano.
L’altra modalità è meno evidente e va vista, per così dire, in filigrana. In concreto le caratteristiche che la wahhabbiyya ha avuto fin dalle sue origini, e che nel tempo ha delineato con sempre maggiore forza, si coniugano in modo peculiare e particolare proprio con le esigenze del capitalismo consumistico contemporaneo. L’errore che comunemente si compie nel leggere un atteggiamento letteralista come quello della wahhabiyya in termini di conservatorismo – oltre alle considerazioni fatte precedentemente – consiste nella pretesa di poter interpretare le dinamiche sociali che riguardano un paese come l’Arabia Saudita senza valutarle in prospettiva storica. Un rigorismo religioso che esclude qualsiasi processo di mediazione, che insiste sulla letteralità, che rigetta l’idea stessa di una storicità del messaggio religioso rivelato, e che allo stesso tempo ha sempre propugnato con forza le proprie affermazioni (il cosiddetto “regime della verità” che connota molti movimenti religiosi, da quelli evangelici protestanti alla “teologia della Terra” sviluppata in Israele), non è assolutamente incompatibile con quelle che sono le linee di sviluppo del capitalismo contemporaneo a livello globale, anzi. La possibilità di coniugare questo “regime della verità” col capitalismo contemporaneo, infatti, risiede proprio nel fatto che le dinamiche che sottostanno al capitalismo contemporaneo ne condividono molte caratteristiche. Ma questo sarà l’argomento centrale di un altro lavoro in preparazione.
L’Arabia Saudita rappresenta uno tra i maggiori rentier state: quali prospettive di trasformazione della propria economia ha il regno?
È una domanda davvero complessa e non credo di essere in grado di dare una risposta, né univoca, né tantomeno semplice. Si può al limite cercare di isolare alcuni elementi. Il primo è che il consumo di idrocarburi nella parte economicamente più sviluppata del pianeta è in calo per l’affermarsi di altre forme di approvvigionamento energetico e la diffusione di apparecchi e procedure tecnologicamente sofisticati e che riducono i consumi. Personalmente ritengo però che il pianeta rimarrà assetato di petrolio per molti decenni a venire e che il controllo delle fonti di combustibile fossile rimarrà una priorità strategica ancora per lungo tempo, se non altro come forma di conflitto indiretto. Questi due processi, di per sé stridenti e contraddittori, sono da soli fonte di enormi conflitti geopolitici, come si ama dire oggi. L’Arabia Saudita è uno degli attori principali di questi conflitti, ed infatti nel 2016 ha iniziato a pianificare la diversificazione della sua economia, con l’obiettivo di svincolarla dalla rendita petrolifera, con un progetto definito Vision 2030. Ma ad onor del vero l’unico settore nel quale questa diversificazione pare avere successo è quello finanziario. L’evoluzione della finanza islamica è un tema estremamente attuale ed una delle cartine al tornasole dei modi in cui anche un paese in cui vige una religiosità così letteralista e rigorista come quella wahhabita, non incontra particolari difficoltà in questo senso. Questo non toglie che oltre i due terzi di tutte le entrate del regno siano ancora oggi costituite da rendite petrolifere, per altro in costante contrazione.
Non va dimenticato che gli ultimi anni sono stati per il regno saudita anni di deficit commerciale, con cifre in negativo (nel solo 2016, -17,20%, e nel triennio 2015-2017 gli introiti sono diminuiti del 40%), alle quali però ancora oggi la risposta è l’aumento della spesa pubblica – un settore strategico per il mantenimento della “pace sociale” e costituito da trasferimenti di denaro sui conti dei cittadini, il programma conosciuto come Citizen’s Account – che per il 2019 si attesta sui 295 miliardi di dollari. È il più ambizioso e rilevante piano di espansione della spesa pubblica mai varato in Arabia Saudita, allocato per il 70% in tre settori: spese militari e sicurezza, istruzione (nelle mani dei religiosi wahhabiti, improntata allo studio di tematiche religiose ed incapace ancora oggi di formare in numero adeguato ingegneri, scienziati e in genere personale capace di stare sul mercato del lavoro), sanità e welfare. Si è proceduto inoltre all’introduzione dell’imposta sul valore aggiunto, così come alla tassazione del lavoro degli stranieri (come accennato, un terzo abbondante di tutta la popolazione e quasi la metà della forza lavoro). Si cerca poi di attrarre imprese estere attraverso la semplificazione burocratica e la facilitazione finanziaria, così come si cerca di valorizzare il patrimonio minerario del paese e di lanciare progetti di dimensioni colossali come la costruzione della città Neom, nella provincia nord-occidentale di Tabuk, che dovrebbe spostare il baricentro economico saudita verso Israele, cercando di sfruttare una posizione geograficamente strategica nel passaggio delle merci fra Asia, Africa ed Europa.
Una reale diversificazione economica deve però essere in grado di incidere in maniera sensibile sulla composizione del prodotto interno lordo, od anche degli investimenti, delle esportazioni così come delle dinamiche economiche ed occupazionali. E questo, a dispetto degli enormi sforzi profusi in Vision 2030, ancora non sta succedendo in Arabia Saudita, per una molteplicità di fattori, sebbene la proiezione sulla percentuale di gettito fiscale non-oil per il 2019 sia stimata attorno al 32%, con un incremento del 9% rispetto al 2018. Il futuro, in questo senso, è veramente gravido di incognite, come sempre lo sono i momenti di grandi cambiamenti. E chi oggi nell’area soffia sulle tensioni fra Arabia Saudita ed Iran, si comporta in maniera consapevolmente irresponsabile, perché in questo contesto, il deflagrare di un ulteriore conflitto sarebbe devastante.
Tutti i cosiddetti rentier state hanno comunque sempre avuto grosse difficoltà a diversificare le loro economie, e questo fatto ha probabilmente ragioni di tipo storico e sociale rispetto alle quali l’Arabia Saudita non fa eccezione. È inoltre in atto un altro processo che ha accompagnato la storia di tutti i rentier state dell’area che periodicamente hanno aspirato ad un ruolo di potenza regionale (dall’Egitto di Nasser all’Iraq di Saddam Hussein, per semplificare), e cioè quello dell’espansione fenomenale delle spese militari. Oggi l’Arabia Saudita, che in sostanza non possiede alcuna industria militare, è il terzo principale acquirente di armi al mondo (per una cifra che nel 2018 ha raggiunto i 67,6 miliardi di dollari). Se si incrocia la percentuale di investimenti nel settore degli armamenti con quella del calo delle rendite petrolifere, si vedrà che tendenzialmente sono fra loro inversamente proporzionali. Basti pensare che fra il 2009 ed il 2015 il regno wahhabita ha incrementato la propria spesa militare del 72%.
Al di fuori dello scenario progettuale di Vision 2030 e delle concomitanti, enormi tensioni in atto, fatte di guerre per procura o come si dice oggi proxy war, sullo sfondo di una del tutto probabile futura decrescita del prezzo del petrolio, il regno saudita non ha altre prospettive, sul medio termine, di trasformazione della propria economia.
Come è destinata ad evolvere, a Suo avviso, la situazione sociale e politica del regno saudita?
Mi limito a fare un’osservazione relativa al tipo di lettura che ho inteso dare al mio lavoro. Perché dopotutto Islamismo capitalista è proprio il tentativo di elaborare un’ipotesi con la quale leggere le dinamiche attraverso le quali avviene l’ibridazione tra le forme contemporanee del capitalismo consumista e la religiosità wahhabita così come si è evoluta negli ultimi 250 anni. Alla domanda potrei dunque rispondere che di certo stiamo assistendo ad una radicale trasformazione. Quella che era un’espressione religiosa agguerrita, certa di essere portatrice di una missione di purificazione dell’Islam, è oggi rinserrata, in Arabia Saudita, in tematiche strettamente identitarie che la rendono ibridabile proprio alle logiche iperidentitarie del consumismo. L’aspetto notevole è che in questo modo la wahhabbiyya non sembra affatto tradire se stessa, bensì trovare un esito conforme alle sue caratteristiche per così dire “strutturali”.
Da questo punto di vista, ad esempio, è esemplare di questa ibridazione il reciproco “spalleggiarsi” fra un’imposizione della sharia fra le più dure nel mondo islamico, tesa a isolare e circoscrivere la presenza straniera (spesso anch’essa musulmana), e una quasi totale assenza di garanzie per i lavoratori non sauditi – in particolare quelli che svolgono le mansioni più umili. L’evoluzione avverrà con tutta probabilità col proliferare di queste forme di ibridazione in cui il fattore religioso si ridurrà, senza per questo perdere la presa sulla repressione e sul controllo del comportamento individuale, a mero tema identitario. Non a caso c’è chi parla, utilizzando però un approccio che non condivido del tutto, di nascente nazionalismo saudita. Trovo che invece si debba parlare di globalizzazione dell’Arabia Saudita, cioè di come la sua società attuale si evolva verso le forme di uno specifico islamismo capitalista. I temi in comune, come ho cercato di presentare nel libro, non sono pochi e non sono affatto irrilevanti.
La situazione politica dell’Arabia Saudita e le sue possibili evoluzioni, e i modi in cui queste vengono rappresentate nella riflessione e nei media, a rigore sono entrambe un vero e proprio terreno di scontro su molteplici livelli: politico, religioso, militare, sociale (per quanto quest’ultimo fronte venga frantumato dalle categorie neoliberali nel pulviscolo dei diritti individuali). L’Arabia Saudita è il vero epicentro attuale di tutte le crisi che scuotono l’area, proprio perché è la punta più avanzata dei processi di ibridazione fra la religiosità islamica – nello specifico saudita “disossata” fino alle più tenaci forme identitarie – e il dispiegarsi delle logiche espansive del regime capitalistico, con la sua ricaduta di comportamenti consumistici che fondamentalmente ne costituiscono per così dire l’elemento dinamico. È un processo estremamente violento, le cui ripercussioni, nei termini della politica tradizionale, sono sotto gli occhi di tutti, ed i cui esiti non paiono affatto quelli immaginati da molti in un recente passato, senza per questo essere “solo” il contrario. Gli esiti di questa trasformazione veramente epocale per il regno saudita, credo avverranno nel segno di una profonda crisi della stessa religiosità, ricondotta in pieno nell’alveo delle espressioni identitarie in così larga diffusione al livello planetario. Spesso queste espressioni identitarie le si legge come fenomeni di reazione, dunque reazionari. Molto più probabilmente, invece, costituiscono una forma attraverso cui il sistema capitalistico si adegua a specifici contesti.
L’Arabia Saudita, da un punto di vista sociale e politico, è uno degli esempi più riusciti di questa ibridazione, ed il catalizzatore principale di questa ibridazione è proprio il wahhabismo.
Emiliano Laurenzi, laureato in Lettere e Filosofia all’Università La Sapienza di Roma, nella quale ha condotto diversi seminari per la Cattedra di Sociologia della Letteratura, ha conseguito il Dottorato di ricerca in Comunicazione e Spettacolo presso l’Università Carlo Bo di Urbino, dove è stato anche professore a contratto per la Cattedra di Sociologia della Comunicazione. È autore e coautore di saggi, articoli e relazioni su pubblicazioni accademiche, riviste e periodici.