“Io, Annibale. Memorie di un condottiero” di Giovanni Brizzi

Prof. Giovanni Brizzi, Lei è autore del libro Io, Annibale. Memorie di un condottiero edito da Laterza. Annibale è stato il maggiore tra i nemici di Roma e “il più grande generale dell’antichità”, secondo Theodor Mommsen: quali doti straordinarie fecero di Annibale un condottiero senza pari?
Io, Annibale Memorie di un condottiero, Giovanni BrizziMommsen non aveva torto; anche se parlerei del più grande “tattico” dell’antichità. Come stratega non si discosta invece dalle linee del blitzkrieg impostato dal suo modello, Alessandro contro l’impero persiano, fino a che almeno i Romani non lo costringono alla guerra di logoramento: in una o due battaglie al massimo conta di spingere il nemico alla resa. Le componenti del comandante? Quelle, diciamo così, di scuola consistono in primo luogo in un grande, costante addestramento fisico svolto per anni, che gli viene dall’essere stato valletto di truppa, alumnus prima che comandante dei suoi soldati; e una mole probabilmente impressionante di letture (oltre ad Omero e Tucidice) per testi de re militari, tra l’altro le Effemeridi reali di Eumene di Cardia e la storia di Tolemeo Sotere re d’Egitto, le Praxeis di Callistene, che narravano le gesta di Alessandro Magno, e le Memorie di Pirro, i rapporti del suo storiografo Prosseno e i diari di guerra delle Spartano Santippo, che aveva sconfitto in Africa le legioni di Regolo. E chissà quante altre opere ancora, proposte dai suoi maestri greci, il primo e più celebre dei quali è Sosilo di Sparta.

Dall’intelligenza gli viene l’abilità di adeguare i piani alla situazione, non viceversa; ciò che comporta il non lasciare nulla al caso e il raccogliere il maggior numero possibile di informazioni, informazioni elaborate poi in modo che pare istintivo e rapidissimo. Dall’esperienza trae una magistrale capacità di controllo del terreno, attraverso un’esplorazione preventiva condotta sovente per mezzo della sua eccellente cavalleria. Da una sensibilità evidentemente innata nasce l’intuito sottile che lo mette in grado di penetrare la psicologia del nemico e talvolta persino di influenzarne scelte e comportamenti (addirittura a Zama, io credo…). La condivisione della vita al campo e di ogni frangente difficile (perde un occhio nella traversata dell’Appennino!) gli attira l’amore indefettibile delle truppe; che accresce riconoscendo sistematicamente il merito dei singoli e compensando i migliori Mostra più volte una piena sollecitudine per il benessere dei soldati; condotta che gli permette poi, in caso di bisogno, di esigere il massimo da loro. La sua apparentemente inesauribile capacità di vincere, infine, ne alimenta l’immenso carisma.

Come generale Annibale è senz’altro di scuola greca; anche nel ricorso costante a quella metis, a quell’arte sopraffina nel campo delle ruses de guerre che, patrimonio dell’omerico Odisseo, era tornata di moda nella Grecia trasformata dalla guerra del Peloponneso. Un carattere inviso ai Romani, una perfidia che contrasta con il valore per essi fondante di fides.

Greca è la manovra avvolgente che perfeziona sul campo, di matrice macedone; manovra che però, rispetto a Filippo II e Alessandro, Annibale modifica, dando il via ad un’autentica riforma militare dell’Occidente. Composte di combattenti individuali, avvezzi alla spada e non alla picca, le sue fanterie pesanti sono poco adatte a combattere in formazione, chiusi in falange; sicché egli non può contare su quell’infrangibile blocco d’arresto, capace di trattenere il centro nemico permettendone la dissoluzione ad opera delle cavallerie all’attacco sui lati e alle spalle. Conta quindi a sua volta su eccellenti corpi montati, che però completano l’opera di un centro il quale arretra e invischia senza cedere le opposte fanterie, soffocate e infine distrutte con perdite assai più alte di quanto non avvenga nel mondo greco: la carta al posto del sasso macedone.

Il resto è genio. Brillantissimo già in ogni sua applicazione sul campo, il Cartaginese si mostra poi, paradossalmente, addirittura sommo proprio nella sconfitta; quando, a Zama, di fronte ad un generale più giovane di lui, che ha finalmente compreso la manovra di Canne e l’ha perfezionata, la ritorce contro uno Scipione irretito tatticamente e salvato soltanto dall’eroismo delle ‘legioni Cannensi’.

Qual era la personalità del generale cartaginese?
Che cosa si intende con personalità? Doveva essere un uomo segnato fin da piccolo da un destino troppo grande persino per lui, seguire l’impegno di un giuramento che lo avrebbe portato ad intraprendere una guerra impossibile da vincere. Quando avvertì? Io credo non oltre due o tre anni dopo Canne. Cresciuto nel segno di una duplice educazione, dovette trarre dal versante punico il pronunciato senso del dovere e uno spirito di sacrificio che si alimentavano di una religiosità intima, non formale, dalla forte impronta semitica capace di portarlo ad una sorta di mai rassegnato fatalismo. L’etica, dunque. Ma anche una serie di caratteri e di competenze -poliglotta, agronomo, esperto nelle manipolazioni monetarie, grande e specchiato amministratore- che, tutte, vengono a lui dalle specificità che fanno grande Cartagine. Oltre ai fondamenti dell’arte bellica, i maestri greci gli comunicarono l’amore del bello, che lo portò ad essere collezionista d’arte e quasi certamente, durante il soggiorno in Magna Grecia, ad avvicinarsi alla filosofia. Annibale si colloca -è stato detto (J. Carcopino)- “tra i condottieri dalla curiosità infinita e dall’universale cultura. Seppure non ebbe per maestro un Aristotile, come toccò ad Alessandro, egli somiglia a quei capi vittoriosi che furono anche scrittori o letterati, come Giulio Cesare, Federico il Grande o Bonaparte, e che, per l’ampiezza degli orizzonti, l’eleganza del gusto affinato dalle letture, per i loro contatti, le loro riflessioni e la sicurezza del giudizio hanno saputo trasformarsi dall’oggi al domani, se necessario, in diplomatici e uomini di Stato”.

Come nacque il suo odio per Roma?
Nacque dalla visione della sconfitta, quando vide bimbetto le truppe comandate da suo padre tornare disfatte dalla Sicilia? O quando conobbe le atrocità e gli orrori dell’inexpiabile bellum, la guerra dei mercenari che devastò per tre interminabili anni la chora di Cartagine? O ancora quando, compiendo quello che a lui dovette parere un intollerabile sopruso, i Romani sottrassero alla sua patria la Sardegna? Certo il suo sentimento dovette alimentarsi del revanscismo del padre, che allevò i figli in perniciem imperii, per la rovina di Roma. Eppure, malgrado il giuramento reso al padre davanti all’altare del sacrificio, egli si impegnò forse più che all’odio a numquam amicum fore populi Romani; tanto che, anche nel momento del massimo trionfo -quando, dopo Canne, strinse un’alleanza con Filippo V di Macedonia che pareva destinata a stroncare le forze di Roma- non si propose affatto di distruggerla, ma solo di ridimensionarne la potenza.

Quale strategia adottò Annibale nella lunga guerra in Italia?
Il progetto di una guerra-lampo che costringesse Roma ad arrendersi fu in un primo tempo secondato da Roma stessa, che cercò ostinatamente dapprima la battaglia campale, rimediando in meno di due anni tre (o quattro?) disfatte sul campo; l’ultima delle quali, Canne, spaventosa al punto che avrebbe stroncato qualunque realtà mediterranea. Ad un passo dal trionfo il disegno annibalico, tuttavia, fallì quando la res publica cambiò strategia, imponendo una guerra di logoramento in cui le sue inesauribili risorse non potevano che avere la meglio.

Annibale non riuscì nell’intento di sobillare contro Roma le popolazioni italiche: quali errori fece, a Suo avviso, il generale cartaginese?
Dopo Canne una parte, anche consistente, delle genti del meridione passò sotto le insegne di Annibale: quasi tutta l’Apulia settentrionale, la Daunia, la Lucania e il Bruzzio tranne Cosenza e Petelia; parte dei Campani, con la stessa Capua, tutti i Sanniti praeter Pentros, poi via via tutte o quasi le città greche d’Italia e di Sicilia. Genti certamente bellicose, queste ultime, tranne i Greci; e certamente in gran parte ostili davvero allo Stato che le aveva sottomesse senza ancora integrarle, ma troppo orgogliose per accettare fino in fondo da colui che le aveva ‘liberate’ vincoli che superassero quelli, effimeri, della riconoscenza; sicché Annibale non avrebbe potuto coinvolgerle del tutto senza dar loro l’impressione di aver cambiato padrone. Anche se costrinsero poi una parte delle armate di Roma ad occuparsi di loro, distogliendo dal Cartaginese —e questo fu, per lui, un indubbio vantaggio— parte delle legioni, da esse non vennero che saltuari rinforzi, senza un impegno globale che non fosse quello di difendere, anche da soli, la ritrovata autonomia.

Il Cartaginese, dal canto suo, riuscì, certo, a raccogliere forze comunque cospicue, anche se enormemente inferiori a quelle messe in campo dalla res publica; ma —date le dimensioni tradizionali di un esercito del tempo, che non poteva superare di molto la consistenza di 40 o 50 mila uomini senza smarrire, con ciò stesso, la sua capacità di manovra— non potè mai comandarle tutte insieme. Lo stesso carattere che lo aveva in certo qual modo protetto all’inizio della campagna, impedendo ai Romani di schiacciarlo sotto la pura e semplice forza del numero, si volse ora contro di lui. Finalmente accettata, la strategia teorizzata da Fabio Massimo, il Cunctator, gli rifiutò da adesso in poi, pur mettendo in campo forze soverchianti, quelle grandi battaglie in acie di cui avrebbe avuto bisogno, colpendo invece truppe ed alleati del Cartaginese dovunque egli non fosse presente, e costringendolo a delegare almeno in parte il comando di fronte al moltiplicarsi infinito della minaccia. A questo punto Annibale, comandante inarrivabile, dovette constatare, forse sgomento, che i suoi nuovi alleati erano palesemente incapaci di misurarsi alla pari con le armate di Roma. Non solo. Gravemente inferiori tutti di fronte al suo genio tattico, i generali della Repubblica appaiono però in grado di misurarsi con successo contro gli altri comandanti punici, compresi i suoi fratelli; e poco dopo, in Illiria, si mostrano capaci, con pochi contingenti soltanto, di tener testa persino al potente sovrano macedone.

Restava in questa situazione, ultimo dilemma, il dubbio se frazionare le sue truppe, mettendole almeno in parte a repentaglio, in guarnigioni che gli consentissero però di mantener saldo il controllo su alcune almeno delle molte piazze conquistate. Un’alea che il Barcide accettò, dapprima; ma che espose i singoli presidî, oltre che al pericolo di essere singolarmente sopraffatti dalle forze di Roma, alla minaccia di defezioni da parte degli alleati locali, sempre più frequenti quando l’evidente mutar delle sorti belliche indusse i fedifraghi di ieri a cercare con nuovi e opposti tradimenti il perdono di Roma.

Persino non pochi alleati meridionali rimasero, comunque, al fianco di Roma. Le restò costantemente fedele quasi tutto il nomen Latinum, quasi tutti e fino quasi all’ultimo, i socii che popolavano le trenta colonie sparse nella penisola. E, naturalmente, i cives, i cittadini. Tra quelli sine suffragio tradì di fatto solamente Capua (seguita da alcuni centri campani minori…), convinta dopo Canne che Roma fosse già sconfitta; e animata dalla luciferina ambizione di sostituirsi all’Urbs come egemone all’interno del nuovo Stato che sarebbe nato dalle rovine della federazione precedente. Ma la realtà tirrenica, indissolubilmente saldata alla res publica dall’integrazione delle sue aristocrazie, molti dei cui membri sedevano in senato, di fatto resse all’urto; e ciò in nome soprattutto di alcuni arcaici ma evidentemente sentitissimi valori etici. Le forze di cui Roma continuò a disporre anche dopo Canne rimasero così soverchianti persino rispetto a quelle dell’intera Cartagine, una civitas, una comunità allargata, opposta ad una (akro)polis, un campanile in fondo chiuso su sé stesso. Quando, malgrado le spaventose perdite subite, Roma giunse a mettere in armi venticinque legioni che combattevano ovunque Annibale non fosse, erodendo gli spazi da lui conquistati il destino della guerra dovette apparire segnato anche a lui.

Come trascorse i suoi ultimi giorni Annibale?
Gli ultimi giorni furono vissuti, rispetto alla natia Cartagine, all’estremo opposto del mondo di allora. Da esule, sulle coste orientali del Bosforo, in una località il cui nome, Libyssa, suona come un’irrisione beffarda da parte degli dei nel racconto -certamente inventato- di un’arcana profezia ottenuta dallo Zeus Ammone nell’oasi di Siwa. Li visse ospite di Prusia, re di Bitinia, per il quale avrebbe tracciato i piani della capitale Prusa; e al cui servizio combattè per mare contro la flotta del re di Pergamo. Qui lo raggiunse un’ambascieria romana capeggiata da Tito Quinzio Flaminino, che veniva -tra l’altro- a chederne la consegna; e qui si uccise, forse di veleno, nel 183 a.C. all’età di sessantaquattro anni.

Giovanni Brizzi è professore emerito dell’Alma Mater Studiorum – Università di Bologna. Ha insegnato anche a Sassari, a Udine e alla Sorbona. È direttore della “Rivista Storica dell’Antichità” e della “Rivista di Studi Militari”. Tra le sue più recenti pubblicazioni: Scipione e Annibale. La guerra per salvare Roma (Laterza, 2007), 70 d.C. La conquista di Gerusalemme (Laterza, 2015), Ribelli contro Roma. Gli schiavi, Spartaco e l’altra Italia (Il Mulino, 2017), Silla (Il Mulino, 2018) e Andare per le vie militari romane (Il Mulino, 2020).

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