
di Davide Canfora
il Mulino
«Alcuni libri ci vengono suggeriti da amici o familiari, altri vengono scoperti dalla nostra curiosità. Ci sono letture che restano impresse a vita nel nostro cuore per merito di una persona cara o di un professore di lettere che ci ha fatto amare quella poesia o quel romanzo per sempre. Ci sono libri che non leggeremmo mai, altri che attendono a casa il momento giusto per essere letti. Leggere, in ogni caso, richiede un silenzio e una quiete interiore – prima ancora che esteriore – che non è sempre possibile e che anzi è in aperto conflitto con le abitudini del nostro mondo. Leggere significa fermarsi col corpo e viaggiare con la mente: nella vita di tutti i giorni ci muoviamo invece ossessivamente e adoperiamo sempre meno la riflessione. Questa china è sotto gli occhi di tutti e la tecnologia – ogni giorno più raffinata – è semplicemente lo strumento, non la causa, della frenesia da cui siamo trascinati. Se un osservatore non umano, dotato di ragione, ci osservasse, direbbe che siamo la caricatura delle creature alate di cui parla Leopardi nell’Elogio degli uccelli: gli uccelli, diceva Leopardi, sono forse gli unici esseri felici al mondo, perché hanno una capacità di movimento permanente e infaticabile; così oggi gli uomini, pur non avendo le ali, cercano di dimenarsi attraverso la vita per renderla probabilmente più sopportabile, meno infelice, per mascherarne la vanità.
La lettura è un viaggio nel tempo, forse l’unico possibile. È il surrogato delle ali per l’uomo. La lettura è un viaggio non semplicemente nel tempo dei fatti narrati. Senza dubbio, quando leggiamo le pagine di Omero o di Tasso o di Flaubert, gli occhi della nostra mente si staccano per qualche tempo dalla realtà viva intorno e si immergono in una realtà diversa, lontana. Solo se ci si immedesima in ciò che si legge, lo si comprende: non sono le stesse le abitudini, le parole, i gesti. Diversamente, se non si viaggia nel tempo, la lettura rischia di non lasciare nulla e si limita ad essere ciò che gli inquisitori tridentini chiamavano lectio materialis: cioè una lettura senza effettiva comprensione, che poteva – persino nel caso dei libri proibiti – non essere punita, tanto era superficiale e priva di partecipazione. Invece la lettura profonda di un testo è quella che conduce alla condivisione piena di ciò che si legge. In questo senso, dal punto di vista degli inquisitori, essa poteva rivelarsi ‘nociva’. Paolo e Francesca si innamorano perché è il libro che, spiega la donna a Dante, «per più fiate gli occhi ci sospinse e scolorocci il viso»; don Chisciotte impazzisce perché prende sul serio le storie dei cavalieri erranti che riempiono la sua biblioteca; Erasmo – che tutto era tranne che un ottuso censore – mette in guardia dal far leggere al futuro principe le gesta dei grandi conquistatori del passato prima che egli sia praemunitus dalla lettura di altri testi, più rassicuranti ed educativi, a partire da quelli sacri.
Perché leggere? Perché è un piacere, certo, se c’è chi ritiene un piacere la lettura. Si potrebbe aggiungere: per conoscere. Le notizie fermate sui libri sono fragili come tutto ciò che è riconducibile alla condizione umana, e un incendio o una guerra possono distruggere una biblioteca intera: ma la conoscenza data dai libri sarà sempre meno effimera, impalpabile e imprecisa di quella che ci offre l’elettronica. La differenza tra un libro e internet è la stessa che c’è tra la fata dai capelli turchini e il paese dei balocchi. Leggere rende attiva quella parte del nostro corpo che è ancora senso comune considerare uno degli elementi distintivi dell’essere umano. Leggere induce a scegliere e a pensare. Non c’è dubbio che il libro non rappresenta di per sé la pietra filosofale del bene. Se leggo e prendo sul serio il Mein Kampf di Hitler, vado incontro a conseguenze ben peggiori rispetto a quelle che toccarono al simpatico hidalgo immaginato dalla penna di Cervantes. I libri sono scritti da uomini e contengono errori (il Mein Kampf ovviamente è un caso a parte). «Chi non sbaglia mai?», si domandava Erasmo da Rotterdam. Ma certo chi non legge mai difficilmente avrà l’abitudine di riflettere.
La lettura, si diceva, è un viaggio nel tempo: la lettura rappresenta l’unica macchina del tempo inventata dall’uomo. La piccolezza del mondo in cui ci muoviamo, la vastità che invece il cuore umano per sua natura ricerca: da qui nascono i racconti, le storie, i libri. Chi scrive evade e offre anche a chi legge la chiave per aprire la porta ed evadere. Raccontare una guerra, una spedizione alpinistica, un amore lontano, una fiaba: la differenza è sottile. Ciò che conta è che la pagina scritta, come l’azione rappresentata sulla scena, ti porta altrove. Il libro non è più che un aiuto.
C’è una scena cruciale in un film di non molti anni fa: Morte di un matematico napoletano. Vi si narra l’epilogo della vita sofferta di un docente di matematica tra i più illustri dell’Università italiana, Renato Caccioppoli. Uomo di genialità assoluta, incapace di adattarsi alle regole, di inquadrarsi in un sistema troppo angusto per gli abissi in cui il suo pensiero era capace di sprofondare. A un certo punto Caccioppoli cerca di spiegare al suo collaboratore più vicino, un sacerdote, che è preoccupato per il destino del maestro, le ragioni della sua ‘sconfitta’. La vita non riesci ad afferrarla e a capirla: è un po’ come pretendere che la mano possa afferrare se stessa, chiudendosi completamente. Le quattro dita restano sempre al di qua del polso, c’è sempre una porzione che sfugge, che resta scoperta. Il destino di morte che Caccioppoli sceglie è preannunciato da quel gesto, con cui il matematico tenta di dare conto dell’incompletezza cronica in cui egli si sente condannato a vivere. L’impossibilità di capire tutto, di vedere tutto, di arrivare fino in fondo conduce Caccioppoli a rinunciare a tutto. Con meno amarezza, ma in termini simili, ragiona il signor Palomar immaginato dalla fantasia di Italo Calvino. La conoscenza e la comprensione arrivano sempre a un limite, oltre il quale si vede con chiarezza che il percorso continua, ma non si riesce a intraprenderlo. Nessun libro, sacro o profano, può dare le risposte che si attendevano da anni o la consolazione che si desiderava da sempre. Il libro è semplicemente un beneficio vivo e autentico, come una lunga passeggiata nel bosco: comincia e poi finisce. Auspicabilmente lascia un segno positivo, un refrigerio, nello spirito di chi ha percorso il sentiero.
In queste pagine sono descritte alcune letture. Non sono proposte di letture, non sono un canone. Si potrebbe persino dire che sono letture casuali, cui altre potrebbero essere aggiunte, in un percorso infinito. Così nel bosco, a rigore, il sentiero, se si vuole, può procedere senza interruzione: siamo noi a decidere che c’è un punto di partenza e un punto di arrivo. Sono letture a voce alta. Sono il tentativo di provare che leggere, anche se non ci salva da niente, non è ancora un gesto del tutto senza significato nel mondo digitale e gelido che sta, giorno dopo giorno, privando l’uomo dei suoi tratti più umani.»