
Anzitutto Gabriele Biondo (c. 1440-1511) era ‘figlio d’arte’. Il padre, Biondo Flavio, fu un importante umanista e uno storico innovatore: il primo, per intenderci, a coniare il concetto di medioevo (anche se non il termine). Biondo Flavio lavorava in Curia, come segretario al servizio del papato. Ma a differenza dei suoi fratelli, Gabriele si allontanò a un certo punto dalle orme del padre sia dal punto di vista intellettuale sia da quello professionale, e intorno al 1470 ottenne l’incarico di pievano di Modigliana. Modigliana è un piccolo borgo dell’Appennino tosco-romagnolo, non lontano da Faenza, ma allora soggetto politicamente a Firenze. Sulla vita e l’attività dei sacerdoti secolari del tempo in genere le fonti non abbondano, tanto più se in un contesto così defilato. Nel caso di Biondo, però, siamo fortunati. Nel corso degli anni egli raccolse intorno a sé – a Modigliana ma anche a Firenze, Bologna e Venezia – una comunità di discepoli che, dopo la sua morte, ne conservarono gli scritti: lettere spirituali, per lo più, ma anche trattati mistici e poesie.
Sul finire del Quattrocento comincia il periodo più turbolento della sua vita. Mentre Firenze assisteva al culmine e alla fine della parabola del frate domenicano Girolamo Savonarola, Biondo si schierò contro il profeta di San Marco, scomunicato dal papa Alessandro VI e condannato a morte nel maggio 1498. Di lì a qualche anno, a Venezia, un suo discepolo di nome Giovanni Maria Capucci fu imprigionato e accusato di eresia per aver divulgato un’opera spirituale di Biondo, il Ricordo. L’intervento di un importante teologo dell’Università di Padova, lo scotista Antonio Trombetta, scagionò il Ricordo, nel 1502, da ogni accusa di eresia, e dopo un periodo di reclusione anche Capucci fu liberato.
Biondo visse gli ultimi anni della sua vita tra Firenze e Modigliana, ma dopo la sua morte (nel 1511) il camaldolese Paolo Giustiniani – un patrizio veneziano trasformatosi in eremita riformatore, coautore di un famoso memoriale sul rinnovamento della Chiesa, il Libellus ad Leonem X, del 1513) – attaccò duramente le sue dottrine, definendolo «ministro del diavolo» e imponendo alla comunità femminile che a Firenze si riconosceva nell’insegnamento di Biondo di prendere le distanze dalla sua concezione di una fede tutta interiore, individuale e priva di mediazioni istituzionali.
Quali vicende segnarono la sua giovinezza?
Rispondere a questa domanda non è facile, perché sulla giovinezza di Biondo abbiamo poche notizie, per di più indirette. Biondo nacque intorno al 1440, ed era il più giovane dei numerosi figli di Biondo Flavio. Sotto il pontificato di Niccolò V (1447-1455), il padre perse temporaneamente l’ufficio di segretario papale e abbandonò la Curia per ritirarsi nei suoi possedimenti romagnoli – tra San Biagio di Argenta (Ferrara), Montescudo (Rimini) e Ravenna. Tra Roma e la Romagna Gabriele ricevette un’educazione umanistica, al pari dei fratelli e forse anche delle sorelle. Di una di loro, Castora (si noti il nome classico), ci è rimasta una lettera autografa datata 1478. Nella lettera la figlia di Biondo Flavio intimava al cognato Francesco degli Albizzi di lasciarla in pace, con un tono particolarmente deciso: «datevi ad intendere che io non ho paura de voi né de homo che viva, sentendomi bene armata con rasone».
Tra i maschi solo un figlio di Biondo, Francesco, si sposò ed ebbe figli. Gabriele, come gli altri (Gaspare e Girolamo), fu indirizzato alla vita ecclesiastica e si diplomò in utroque iure. Sul finire degli anni ’60 la sua eloquenza e abilità poetica fu celebrata dagli epigrammi di un poeta romano, Paolo Porcari. Di lì a breve un fratello di Paolo, Agapito Porcari, scrisse a Biondo due lettere nelle quali questi emerge come un’autorità morale cui confidare il proprio sdegno per la corruzione della Roma papale, ormai distante dall’originario messaggio cristiano. Lo scarto tra le poesie d’amore e lo sdegno per la decadenza morale e religiosa del proprio tempo suggerisce la possibilità che Biondo abbia vissuto una svolta, intorno al 1470. Sembra supportare questa ipotesi anche il cenno dello stesso Gabriele, in una lettera della fine degli anni ’90 al nipote Paolo Biondo (figlio del fratello Francesco), a una sorta di conversione vissuta circa trenta anni prima.
Se non una rottura, questa conversione implicò una presa di distanza rispetto alle carriere ecclesiastiche o curiali dei fratelli, e al contempo un rifiuto degli interessi umanistici coltivati in famiglia. A tale mutamento contribuì certamente la lettura delle opere degli ‘spirituali’ francescani: Angelo Clareno, Pietro di Giovanni Olivi, Ubertino da Casale – citati ampiamente nelle opere di Biondo, insieme a Iacopone da Todi. A parte Iacopone, le cui laude erano ampiamente diffuse, è verosimile che Biondo abbia reperito le opere degli spirituali grazie alla familiarità del padre con alcuni frati dell’Osservanza minoritica, che come Giovanni da Capestrano inquisirono fraticelli e dissidenti, conservandone talvolta gli scritti ad uso polemico.
Quali dottrine mistiche, escatologiche e soteriologiche sviluppò Gabriele Biondo?
Ponendosi nel solco tracciato da Pietro di Giovanni Olivi e, più radicalmente, da Angelo Clareno, Biondo fu indotto a sminuire (anche se non a rifiutare) la dimensione esteriore della professione religiosa e il valore delle appartenenze istituzionali. Non è difficile peraltro scorgere un nesso tra lo svuotamento, da parte di Biondo, della mediazione ecclesiastica nei rapporti con Dio, e la sua valorizzazione del ruolo delle donne nella vita religiosa.
La proposta cristiana di Biondo, in estrema sintesi, ruota intorno a due perni: la necessità interiore e individuale dell’annullamento di sé, per lasciare spazio all’amore di Dio e alla sua volontà; e la certezza dell’irrimediabile corruzione dell’istituzione ecclesiastica e della vita religiosa nel suo complesso. A mantenere questi due cardini sullo stesso asse è il pensiero dominante di Biondo, la sua principale e quasi ossessiva chiave di lettura della realtà: l’amore di sé che trionfa ormai nel mondo subdolamente mascherato da puro amore di Dio, e dalla cui tirannia l’uomo deve fare di tutto per liberarsi.
Dal primo punto di vista, che definirei mistico (perché rimanda a un’esperienza diretta e ineffabile del divino), è la passività l’unica strada che si apre all’uomo per liberarsi di se stesso e incontrare Dio. Nell’opera di Biondo tornano insistentemente espressioni come «anihilato», «evacuato», «senza me», «vacuo», «voto de se medesimo». Sono termini chiave di una lunga tradizione (non solo cristiana) che ha cercato il divino nel distacco dalla propria volontà, nell’annientamento del proprio io e delle sue ‘potenze’.
Il secondo cardine su cui si regge l’opera di Biondo è invece di tipo escatologico: la certezza di vivere nei tempi ultimi e più iniqui della storia della salvezza, una certezza che Biondo matura constatando l’incontrastato dominio dell’amor proprio non solo nell’animo umano ma anche, e di conseguenza, nel mondo. Un dominio universale e pervasivo «più che dire né intender se pò – scrive Biondo nel suo stile involuto – se non da chi receve da Dio dono particulare de posser vedere et sentire et per experientia provare che, senza la divina a pochi privilegiatissimi data momentanea gratia», la natura umana, «totalmente corropta, non pò resistere al figliolo de quella sua corruptione: amor proprio».
Quale importanza riveste la figura di Gabriele Biondo per la comprensione di quel caleidoscopio di esperienze religiose che animarono la penisola italiana tra XV e XVI secolo?
Di fatto, le vie tracciate finora dalla storiografia per ricostruire la vita religiosa italiana tra la fine del Quattrocento e gli inizi del Cinquecento sono state diverse e non sempre in dialogo tra loro. È stata sottolineata l’importanza delle attese di rinnovamento coltivate da chierici e laici a vari livelli sociali e culturali, così come l’ampia diffusione di profezie politiche e religiose, popolari e dotte (come l’Apocalypsis nova, in cui sono raccolte le rivelazioni che il beato Amadeo, un francescano portoghese, avrebbe dettato a Francesco Biondo, fratello di Gabriele). Sul problema – segnalato nel 1938 da Federico Chabod – del persistere di idee e pratiche eterodosse più antiche, e del loro incontro con il “luteranesimo”, resta invece ancora molto da fare. Le idee riformate (e la loro repressione) ebbero un impatto decisivo sulle varie espressioni di nonconformismo religioso fino ad allora non sempre condannate come eretiche, ma, di lì a poco, non più tollerate dalle autorità ecclesiastiche. Uno degli effetti della Riforma fu quello di semplificare drasticamente il panorama religioso: la bipolarizzazione indotta dallo scontro confessionale minò le basi dello sperimentalismo e del policentrismo che fino ad allora erano stati peculiari della vita religiosa italiana. In tal senso, una terza via fu tracciata da Delio Cantimori. Nelle sue ultime ricerche – ridimensionato il nesso tra coscienza religiosa e lotta politica al centro del grande libro sugli Eretici italiani del Cinquecento (1939) – Cantimori si concentrò sulla vita religiosa piuttosto che sulla storia ecclesiastica, illuminando un caleidoscopio, appunto, di idee ed esperienze religiose che ebbero un’esistenza propria, non sempre riconducibile allo scontro tra ortodossia ed eterodossia.
A questa linea, tracciata da Cantimori nel suo ultimo saggio, pubblicato postumo, e sviluppata poi da Giovanni Miccoli, si ricollega la mia ricerca su Gabriele Biondo. Le vicende e gli scritti di Biondo presentano diverse somiglianze di famiglia con i caratteri originali più rilevanti della vita religiosa della penisola alla vigilia della Riforma. Tra tali caratteri, spicca quella che è stata definita da Adriano Prosperi la «versione italiana del ritorno a san Paolo», costruita su una lettura dell’epistolario paolino attenta più alla prima lettera ai Corinzi che a quella ai Romani, e perciò focalizzata – più che sulla fede – sulla carità, intesa allo stesso tempo come atto di misericordia verso il prossimo e come rapporto diretto con il divino. I trattati di Biondo offrono alcuni punti di contatto con questa tradizione e con le sue implicazioni ecclesiologiche, che rispondevano all’esigenza dei laici di lasciarsi alle spalle la divisione medievale degli ‘stati di vita’, ma che non giunsero (come farà Lutero) al rifiuto del corpo ecclesiastico nel suo complesso.
Al pari delle confraternite del Divino Amore e delle comunità trasformatesi poi nei Barnabiti, nei Somaschi e nelle Orsoline, Biondo non intese fondare un nuovo Ordine, ma volle riunire in una compagnia spirituale laici e religiosi. Come loro, attirò per questo i sospetti delle gerarchie ecclesiastiche, preoccupate per l’implicita portata anti-istituzionale di tale scelta. Giustiniani, che ammonì nel secondo decennio del Cinquecento le seguaci fiorentine di Biondo ad abbandonare la memoria del maestro, avrebbe di lì a qualche anno invitato Gaetano Thiene (1480-1547) ad allontanarsi dalle dottrine del domenicano Battista da Crema (c. 1460-1534), maestro spirituale dei primi Barnabiti. Le critiche di Giustiniani si incentravano sulla concezione interiore, individuale e libera della fede che caratterizzava, pur partendo da presupposti diversi, tanto la proposta religiosa di Biondo quanto quella di Battista da Crema. E non è un caso che in entrambi – e prima di loro nella mistica Caterina da Genova (1447-1510) – rivesta un ruolo centrale la contrapposizione tra le labirintiche strategie dell’amor proprio dell’uomo e il puro amore divino: un tema non adeguatamente messo a fuoco, nella letteratura italiana del Quattro e Cinquecento, se non indirettamente, attraverso lo studio dei moralisti francesi del Seicento, dietro alle cui formule più famose stanno spesso le sottili analisi dei mistici. Queste esperienze, tuttavia, non giunsero mai alla rottura con la Chiesa romana in quanto istituzione. Non di rado, anzi, i loro promotori presero le difese di Roma contro chi, come i riformati o (nel caso di Biondo) Girolamo Savonarola, ne mettevano in discussione l’autorità.
Michele Lodone (1988), è attualmente Marie Curie Fellow presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia e la University of Chicago, dove lavora a un progetto sul rapporto tra testi profetici e comunicazione pubblica nell’Italia del Rinascimento. Formatosi alla Scuola Normale di Pisa e all’EHESS di Parigi, si occupa prevalentemente di storia culturale del tardo medioevo e della prima età moderna.