
Marone, che prima di dedicarsi a tempo pieno alla scrittura ha esercitato per diversi anni la professione forense, in questo libro parla di sé, e in particolare della sua ipocondria.
Sì, perché, come spiega lui stesso nella premessa del libro, le sue intenzioni sono quelle di “denudarsi davanti a noi”, lettori, e condividere le proprie ansie, fobie e paure: perché, se è vero che di fronte alle nostre angosce siamo soli, è anche vero che confessarle, aprirsi agli altri, può aiutare a tenerle sotto controllo.
Marone si descrive come un ipocondriaco serio, benché curioso: non è uno che ogni tanto si percepisce malato, al contrario, è convinto di esserlo sempre, anche se sulla base di sintomi di volta in volta diversi e talora bizzarri. Ha paura di contrarre le malattie e ha paura di rendersene conto. È convinto di essere irrimediabilmente malato, ma rifugge medici e ospedali perché, anche se nella sua mente la diagnosi infausta è ormai certa e inevitabile, la prova tangibile di avere ragione sarebbe troppo difficile da sopportare.
Ma non aspettatevi nulla di lamentoso, o triste, o greve in Inventario di un cuore in allarme: l’ironia di Marone rende il tutto lieve e divertente.
Che poi, a ben guardare, un po’ di ipocondria c’è in ciascuno di noi. “Se solo non sapessi”, titola il secondo capitolo del libro. Appunto. È come quando ti chiedono se hai paura di volare, e istintivamente rispondi con un certo che no, anzi, com’è bello vedere le città dall’alto. E lo è, a meno di non soffermarsi a pensare che si è sospesi in aria a diecimila metri dal suolo in una scatoletta di plastica, e dunque sarebbe bene correggere la propria risposta in un “certo che no, se non ci penso”.
Ecco, l’ipocondria è esattamente questo: pensarci. Marone ci racconta che, anche se non sa esattamente a quando far risalire i propri timori, ricorda invece bene il momento in cui ha preso consapevolezza della morte: “Ero in auto con mia madre e il compagno, percorrevamo di sera via Aniello Falcone nella nostra 127 rosso pomodoro, il mare che baluginava sulla destra, e all’improvviso dal sedile posteriore sentii chiara l’esigenza (una spinta interiore a liberarmi del peso) di domandare della mia morte. Avevo dieci anni”. Ha inizio così, la presa di coscienza della propria finitezza, “quando, ancora libero e inconsapevole (insisto su queste due parole), ti accorgi che esiste la morte. E tutto cambia”.
A questa consapevolezza se ne aggiungono altre: apprendere che gran parte del destino di ciascuno di noi è già scritta nei filamenti del proprio DNA, essere consapevoli di non essere speciali, ma solo un puntino nell’universo, realizzare che in questo universo, di cui conosciamo poco o nulla, tutto sembra avvenire per caso. Senza contare che ogni essere umano ingurgita attraverso l’acqua e le altre bevande circa cinque grammi di microparticelle di plastica a settimana e che viviamo in un mondo che pullula di batteri, compresi quelli del microbiota intestinale. Insomma, “sottoterra ci sono 100 miliardi di morti, sopra siamo solo sette miliardi di vivi. E poi spiegatemi come cacchio faccio a non farmi prendere dall’ansia”.
In un libro sull’ipocondria non possono certo mancare le malattie. Ci sono tutte, dal cancro – l’ansia provocata sia dalla malattia in sé che dalla prevenzione – alla polmonite, fino al mal di schiena e alla palpebra che batte. Né sono assenti i farmaci, psicofarmaci compresi, oltre che gli omeopatici e i fiori di Bach, che in pratica funzionano “come il ciuccio per i bambini nei momenti di stress, delusione, paura o rabbia: loro pensano alla suzione, noi abbiamo i fiori di Bach.”
E poi naturalmente ci sono i dottori. Il dermatologo con la sala d’attesa con affissi minacciosi manifesti che riportano foto di melanomi e spiegazioni dettagliate su come riconoscerli. Il gastroenterologo, zio dello scrittore, grazie al quale si è potuto concedere due gastroscopie e una colonscopia. L’oncologo “simpatico ed empatico” che enumera allo scrittore e a sua moglie tutti i dati catastrofici sulla malattia del secolo. E infine lo psicanalista, le cui parole alla prima visita definirei definitive: “Quindi, ricapitolando, la sua e una situazione senza via d’uscita. Teme ogni giorno di avere qualcosa, ma allo stesso tempo e terrorizzato dall’accorgersene. Non le rimane che vivere nell’angoscia”. È lo psicanalista che suggerisce allo scrittore un esercizio che dovrebbe in breve tempo liberarlo dalle sue ansie: si tratta di cercare di non parlare della propria ipocondria per una settimana, con nessuno. Compito apparentemente semplice, ma al contrario parecchio sfidante per un vero ipocondriaco, che porta a un’esilarante scena di capitolazione finale davanti a un risotto al radicchio e a un pollo agli agrumi.
Marone confessa un rapporto intenso con il proprio corpo, che è amato e salvaguardato, ma che nello stesso tempo può essere il nemico nel quale si può annidare il pericolo; è l’organismo imperfetto che può rompersi in mille modi diversi, in cui l’imperfezione è così connaturata da essere il motore stesso dell’evoluzione. Come probabilmente tutti noi, ha organi ai quali si dedica di più – intendendo, con questo, che teme maggiormente possano ammalarsi – e altri di cui si occupa di meno. Meno propenso a temere malattie al cuore o al cervello, Marone si concentra sulla pelle (“Ho fatto un controllo dei nei” è una delle frasi che più teme di sentir pronunciare dai propri amici e conoscenti) e sull’apparato gastroenterico, fegato per primo. E dunque dai sintomi si passa al consulto medico, e da lì agli esami, e quindi ai referti. Chi non ha conosciuto l’ansia di ritirare un referto, anche quando si è convinti che sia una cosa da nulla? A chi non è capitato di presentarsi ben prima dell’appuntamento, perché “tanto a casa, a girare attorno a un tavolino, che ci stiamo a fare?”. E chissà a quanti sarà successo di star lì in sala d’attesa a pensare al peggio, a iniziare a immaginare la propria vita nel caso dell’esito infausto, a “utilizzare quel tempo di attesa per organizzare una reazione, bisognava comunicarlo innanzitutto al resto della famiglia, poi dovevo pensare a trovare un buon oncologo, riflettei anche sulle cure da affrontare e che, tra l’altro, a nulla sarebbero servite”.
Dovremmo fare come le sogliole, suggerisce Marone, che per sopravvivere nella loro scomoda posizione, adagiate sul lato sinistro per tutta l’esistenza, hanno trovato il rimedio e pensato bene di spostare l’occhio buio dall’altra parte. Dovremmo anche noi cercare di adattarci, plasmarci alla realtà per semplificarci la vita, invece di stare sempre in allerta, in attesa di qualcosa.
Perché, “Un giorno moriremo, dice Charlie Brown all’amico Snoopy in una famosa striscia dei Peanuts. Sì, ma tutti gli altri giorni no, risponde quest’ultimo”.
Silvia Maina