“Invano. Il potere in Italia da De Gasperi a questi qua” di Filippo Ceccarelli

Dott. Filippo Ceccarelli, Lei è autore del libro Invano. Il potere in Italia da De Gasperi a questi qua edito da Feltrinelli. Nel titolo sembra riecheggiare la nota massima «Governare gli italiani non è difficile, è inutile».
Invano. Il potere in Italia da De Gasperi a questi qua, Filippo CeccarelliGovernare gli italiani sarà anche inutile, o forse no, dipende io credo dai momenti storici, per esempio nell’immediato dopoguerra, dopo tante sofferenze, governarli non fu affatto inutile, anzi resta un esempio di valore, fatica, intelligenza creativa, virtù d’adattamento e così via.
Ma il titolo del libro, “Invano”, mi è venuto su due livelli, per così dire, di scelta. Il primo è di natura – e chiedo indulgenza – intima, o se si vuole spirituale, nel senso che sono convinto che il potere è per sua natura invano perché siamo tutti destinati a morire; e tutte le cose umane, a cominciare dai palazzi imperiali (abito a due passi dal Palatino, sede del più grande impero dell’antichità), prima o poi finiscono in rovina.

Questa consapevolezza, che è insieme pesante e leggera, mi pone in condizione di osservare chi si agita per il potere – conquistarlo, mantenerlo, mentire, a volte uccidere – con un senso di pietà, però anche di umorismo. In buona sostanza, si tratta di persone che girano a vuoto, si convincono di operare per un misterioso bene pubblico, dicono, proclamano, fanno, conducono una vita difficile e ingrata, pieni di nemici e di potenziali traditori; ma quasi sempre, specie dopo la caduta delle grandi idealità, questo loro accanirsi attorno al comando non è che un modo per ingannare la morte. Non pensarci, esorcizzare quella paura. Per cui questo benedetto e maledetto potere è come una medicina, un ansiolitico, un tranquillante, o per altri versi una droga che dà ebbrezza, e fa fare, aggiungo, un sacco di scemenze. Oltretutto non basta mai, così bisogna aumentare le dosi. La riprova regina è che i grandi capi finiscono male: a testa in giù come Mussolini, in esilio come Craxi, accusati dei peggiori misfatti come Andreotti, a dar da mangiare ai vecchietti della Sacra Famiglia di Cesano Boscone, esperienza che peraltro ha fatto benissimo a Berlusconi, che pure non l’aveva certo messa nel conto.

Questo su di un piano. Su altro piano, più collettivo e aderente alla storia italiana, il titolo del mio “Invano” è perché da Gasperi e dalla classe politica uscita dalla catastrofe bellica, dalle galere, dal fuoriuscitismo, dalla Resistenza, dagli occhiuti oratori, dalle grandi speranze di libertà, il racconto, insieme desolante e comico, è quello di una rotolata giù per la china. Con questi bei risultati di arrivo! Da cui nessuno, me compreso, può dirsi né immune né irresponsabile. E il bello è che proprio le ultime vittime, i predecessori, hanno concimato e preparato il campo ai cattivi conquistatori. Più invano di così!

Il Suo libro rappresenta la prima storia tribale del potere in Italia: quante tribù e sottotribù politiche ha censito nel Suo libro?
Guardi, onestamente non saprei il numero delle tribù o sotto-tribù. Comunque sono più di quante se ne ricordino. In realtà il termine “tribu” è più che altro un omaggio al presente, o meglio alla recente tribalizzazione della vita politica, basti pensare alla nozione, certo giornalistica, però anche significativamente reale e insistente, di “cerchio magico”. In questo senso, per restare all’ultimo decennio, c’è stato il cerchio magico costruitosi attorno a Bossi malato, poi quello sempre femminile di Berlusconi (che pure lo negò dicendo che di “magico” c’era solo lui…), poi quello, pure detto “giglio magico” delineatosi secondo criteri per così dire territoriali, in nome di Renzi. Segnalo che nelle mie folli indagini ho trovato traccia di un gruppo, il “tortello magico”, con il quale s’indicava la prima cerchia di Bersani; e che a Roma si è parlato, attorno alla sindaca, di un “raggio magico”. Idem attorno a Di Maio. Insomma non c’è leader, oggi, che non abbia in dotazione un nucleo di fedeli più fedeli di altri fedeli.

I partiti erano decisamente un’altra cosa, configurandosi questa tribalizzazione in tempi abbastanza recenti. Il mio libro parte da più lontano, muovendo proprio dalle “culture politiche” del secolo scorso, e che magari potevano avere anche tratti tribali (per esempio certe correnti democristiane e socialiste), ma al dunque, finché i partiti sono rimasti tali, tali culture politiche, ognuna dotata di immaginario, erano limitate a una mezza dozzina. I cattolici, i comunisti, i socialisti, i laici, i fascisti. Erano mondi diversi, ognuno con concezioni che i vari appartenenti condividevano. Più che con i codici della politica io ho cercato di ricostruirli con strumenti, mi si consenta, antropologici: a seconda dei personaggi, dei rituali, dello stile di vita, dei luoghi, dei colori, degli odori, dei monumenti, delle case private, del guardaroba, della gastronomia, dei tic, delle canzoni, dei film, della vita sessuale, della satira.

Tutto questo oggi è in massima parte finito. I processi di personalizzazione, verticalizzazione e professionalizzazione del comando, assecondati dai media e culminati nel dominio della tv, hanno fatto sì che la strada della vita pubblica si orientasse in direzione di aggregati più semplici, ma meno estesi e impegnativi dal punto di vista dei valori e delle credenze. Chiamiamoli tribù. C’è qualcosa di degradante e regressivo in questo? Beh, senza che suoni come un giudizio sprezzante, direi di sì. Il tramonto delle ideologie per così dire universalistiche ha accelerato l’andazzo. Non si crede più neanche al pan cotto, come diciamo a Roma. Forse c’entra anche la tecnologia. Molto spesso, ho notato, quest’ultima favorisce paradossalmente la riemersione e la riattivazione di modalità “primitive”, quale appunto la tribù. Spero di non essere stato troppo confuso.

Che ne è dei democristiani?
Eh, la Dc è morta, ma i democristiani ci sono ancora… Stanno acquattati, sospirano alzando gli occhi al cielo, vivono di ricordi, ma giudicano. Hanno da questi tempi la soddisfazione di veder riconosciuto uno stile, un modus, un paradigma oserei dire culturale e perfino antropologico, appunto, che ha resistito assai più dello scudo crociato.

“Invano” cerca di ricostruirlo con entusiastica dovizie di esempi e particolari e uno sforzo di profondità d’osservazione da parte di chi non è mai stato democristiano, ma sempre ha rispettato quel costume, che peraltro era assai variegato. A mio avviso la Dc ha perso l’anima con il rapimento e l’uccisione di Moro, che era senz’altro il migliore dei democristiani. Ma si può pensare che come entità non solo metafisica, come partito di governo, ha vissuto per almeno altri dieci anni; per poi sopravvivere come nozione, come modello, come tratto, come aggettivo, come mentalità, fino ai giorni nostri. Quanti politici della Seconda e anche della Terza Repubblica sono stati definiti, in genere impropriamente, “democristiani”! L’ultimo, figurarsi, è Conte, il penultimo Di Maio, il terzultimo Berlusconi, quando faceva il buono e mostrava pazienza.

Nel mio racconto io cerco di raccontare, possibilmente con brio, l’essenza, la spremuta, l’archetipo dei veri democristiani, della democristianità, della democristaneria, a partire dai corpi dei democristiani, formatisi in alternativa al virislismo mussoliniano. È il capitolo che ho “sentito” di più, e non solo perché era anche il primo. Nel terzo capitolo racconto come negli anni ’80, anche per contrastare Craxi, cambiarono, in peggio: da democristiani a democristoidi. Non gliene fregava più di andare all’Inferno, che era eterno, non avevano che un pallido ricordo dell’ispirazione cristiana, il potere per loro non era più in prestito da Dio. Facevano patti con la mafia e intanto censuravano “La Piovra”. In realtà erano divenuti più deboli e quindi cotti a puntino per essere cancellati, nel modo inglorioso che fu. Ma non definitivamente, qualcosa rimane, sia pure a livello mitologico e perfino in termini di insospettabile nostalgia.

Per la stesura del libro Lei ha attinto al Suo formidabile archivio sui politici italiani, donato nel 2015 alla Biblioteca della Camera dei Deputati: il risultato è un’opera monumentale, densa di infiniti dettagli su chi nel nostro Paese il potere lo ha avuto e lo ha perso. Viene in mente Craxi: che ne è della un tempo nutrita tribù socialista?
Già, Craxi. Ma veramente, almeno alla fine, io mi sono fatto l’idea che Craxi non era più un socialista. Come i democristiani divennero democristoidi, così i socialisti si fecero tutti craxiani. Anche se il Psi, il glorioso partito di Nenni, ormai estinto, esisteva da molto tempo prima che se lo prendesse Bettino: in parte resuscitandolo, in parte affondandolo con sé.

I vecchi socialisti erano simpatici, ma innocui. I craxiani invece erano odiosi, ma misero nei guai i loro nemici e riuscirono a sfasciare la tenaglia di Dc e Pci, le due chiese. Lui, Bettino, era molto bravo e molto a suo modo anche simpatico. Intelligente, sospettoso, coraggioso, moderno, prepotente. Un omone dalla memoria lunga. Il primo a mostrarsi seminudo, e possente, dopo anni di sbiaditi democristiani, in linea con una politica che sta diventando televisiva. Un leader nato, comunque. Ma come capita, privo com’era di oppositori interni, e naturalmente prigioniero di adulatori e marionette, si è anche un po’ fregato con le sue stesse mani.

La centralizzazione imposta dai tempi uccise il vecchio Psi. Non era previsto ricambio, c’era Craxi e basta. Inoltre i craxiani erano intimamente fragili. Da laici, non avevano convinzioni forti. Rispetto alle culture politiche dei loro avversari, così “religiose” e proiettate nell’aldilà – per cui i cattolici, i comunisti, i fascisti, avevano rispettivamente il Paradiso, il Socialismo e la Patria – per i socialisti, dopo la morte, che cosa c’era? Boh. Forse non c’era niente. E allora questo nulla, che pure poteva essere un fatto positivo, di maggiore laicità contro ogni fanatismo, li ha resi, a partire dal loro tirannico capo, vitalisti assatanati, vogliosi di godersela qui e ora, perché se si vive una volta sola, beh, allora tanto vale giocarsela alla grande. E quindi alberghi, viaggi, soldi, ristoranti, balli, amori e amorazzi, stilisti, manager di enti come feudatari, la televisione, il potere per il potere senza stargli a cambiare nome, senza ipocrisie.

La storia gli aveva dato il compito di combattere le due chiese? Tutto gli era consentito. Tutto. Loro la chiamavano “modernità”, ma in gran parte si risolveva in arroganza. Che si aspettavano? Alla fine è arrivata l’inchiesta di Mani Pulite, anche con le sue forzature. Ma è anche vero che Craxi e i suoi cari non li poteva più vedere nessuno. Non puoi fare la guerra a tutti senza pensare che te la faranno pagare con gli interessi. Oltretutto il grande leader si era pure ammalato e quindi non ci stava più tanto con la testa. Non governò poi così male, ma divenne la preda ideale, il cinghialone. Ovvio che è stato anche un perfetto capro espiatorio. Ha giocato alla grande la sua partita, e a un certo punto l’ha persa. Guai ai vinti. Così è la vita, dalle parti del potere. Nessuno ti dice mai grazie. Anzi appena possibile ti tradiscono. A partire dall’eterno delfino, Martelli, che peraltro lui trattava malissimo.

Prese due o tre cantonate, senza nemmeno rendersene conto. Alla fine gli erano rimasti appiccicati solo dei poveracci romantici e disinteressati, era difficile capire anche solo perché perdevano le loro giornate bighellonando tra i divani del Raphael assediato. Aveva paura che lì dentro lo spiassero. Un classico dramma di potere. La scelta di andarsene dall’Italia, la fuga, l’esilio, la latitanza, tutte queste cose sono ugualmente vere. Adesso non vale troppo chiedersi che fine hanno fatto i craxiani. Chi è andato da una parte, chi dall’altra, ogni tanto un triste pellegrinaggio ad Hammamet, o la proposta di intitolargli qualche strada. Uscirà anche qualche film d’autore, ma non sul periodo di gloria, piuttosto sugli ultimi anni ad Hammamet, titano furibondo e disperato in mezzo a famigliari atterriti e nanetti acquiescenti.

Berlusconi è ancora un uomo potente?
Sì, Berlusconi è ancora un uomo potente, perché è ancora un uomo molto ricco. Ma che può fare, ormai? È anziano, provato, senza eredi, pieno di impicci e fallimenti in famiglia, si è visto scippare la leadership da un “ragazzotto”, come lo chiamava, Salvini, con cui si era alleato pensando di poterlo manovrare a suo piacimento.

È una decadenza che dura da troppi anni, dopo uno sfolgorio ventennale che rischia di oscurare una figura di immensa presa e popolarità. Una benedizione, per almeno due generazioni di giornalisti. Eppure, è esistita una vera e propria “età berlusconiana”, dopo quella giolittiana e democristiana. Tre volte nella polvere, tre volte sugli altari, e quanto sgomento, quante risate!

Un divismo quasi circense, il potere delle merci, la cultura pubblicitaria e la tensione salvifica del tifo gettati in politica; poi i riflessi monarchici, regali, cortigiani, e l’esibizione delle ricchezze, l’estetica egolatrica e un po’ bauscia, Veronica, Mamma Rosa, gli adoratori alla Bondi, le ville, la “fidanzatina” Pascale, Dudù, l’anticipazione del populismo, le gag in giro per il mondo, gli scandali sessuali che attirarono telecamere dal Brasile alla Corea… Chi ci ridarà mai un personaggio del genere?

La parabola politica di Salvini è stata fulminante e precoce: cosa racconta su di lui nel libro?
Salvini. In realtà “Invano” dedica lo stretto indispensabile ai Novissimi arrivati, fra cui metto anche Matteo Renzi, “questi qua”, concentrandomi semmai sulle condizioni che hanno reso possibile la presa del potere da parte di una evoluta razza di animali politici, rapidi, calorosi, ignoranti, istrionici, bulimici, sfacciati, superficiali, performativi, empatici, impazienti, iper connessi, abilissimi a individuare colpevoli e a maneggiare il marketing emozionale, come si intuisce dai mascheramenti di scena.

Salvini rientra in questa sfera, con un sovrappiù di vocazione autoritaria mutuata dai regimi dell’est. Di lui mi limito a ritrarre qualche tratto social e a raccontare l’aneddoto esemplare del peperoncino: quando giovane dirigente leghista a Milano organizzò una distribuzione di spray al peperoncino contro le aggressioni alle donne; ma evidentemente la quantità acquisita era eccessiva e un certo numero di flaconi avanzati furono depositati in qualche armadio di via Bellerio e lì dimenticati. Fino a quando, un’estate molto calda, ci furono lacrimazioni e malori fra gli impiegati e le segretarie e allora aiuto, aiuto, sabotaggio, attentato… ma erano i flaconi di Salvini.

Non molti anni addietro, da Radio Padania, la sua culla politica, Salvini si divertiva a fare il tifo contro la nazionale italiana durante le partite; adesso dice “prima gli italiani” e getta corone nel Piave, sacro fiume della Patria, vabbè. È un uomo politico che risponde perfettamente all’idea – a mio giudizio del tutto fallace – che per risolvere i problemi serva un uomo solo che sia forte. Magari fosse così facile! Questa novissima classe politica procede per semplificazioni e scorciatoie e forse anche per questo cede a una certa retorica, a curiosi esibizionismi, a goffe esposizioni visive. Sovraesposto com’è, in realtà mi chiedo spesso se Salvini si rende conto di consumare attenzione. Quanto tempo può andare avanti così? Non scommetterei sulla sua durata.

Nel libro non manca mai l’arguzia: quali aneddoti ritiene i più gustosi?
La ringrazio, tanto più se si considera che la materia è quella che è e si tratta di un libro di quasi mille pagine. D’altra parte, “Invano” è l’opera della vita mia, ci sono diverse pagine autobiografiche o in cui faccio parlare i miei parenti, i miei amici; è un libro interamente costruito come come volevo io, e credo che mi assomigli molto.

Non so se si tratta di arguzia, forse è più che altro il frutto di una torsione che si è sviluppata, in sede di organizzazione e scrittura, ma anche di indole, fra il distacco ironico di chi vuol tenersi da parte e una certa – invece – tendenza meticolosa e ossessiva.

Il mondo del potere è fatto di persone che cercano fino in fondo di prendersi e di farsi prendere sul serio. Ho cercato di essere il più possibile comprensivo rispetto alle umane debolezze, ma come tutti noi i potenti sono dei poveracci e fanno anche ridere, spero senza cattiveria e crudeltà, anche se a volte un atteggiamento di umanità fa l’effetto opposto. Per cui, mi hanno detto, si ride, ma si diventa anche tristi.

In una vasta ricostruzione che tiene conto, in ogni sua pagina, che l’Italia è il paese della commedia e del melodramma, non saprei indicare aneddoti particolari, ce ne sono davvero per tutti i gusti. Ma la mia convinzione è che il dramma e le buffonerie qui da noi, nel nostro mondo del potere, non sono affatto inconciliabili, e possono tranquillamente convivere, sebbene esista un particolare nesso, purtroppo già ampiamente sperimentato, fra le pagliacciate e la catastrofe.

Mi scuso per il tono oracolare e mi rendo conto che questa idea tradisce probabilmente un fondo di rassegnazione. Ma in tutta franchezza, fra i miei limiti, c’è anche quello di non riuscire tanto a indignarmi. D’altra parte, se il potere è un lavoraccio di solito ingrato e a volte anche schifosetto, penso che qualcuno lo deve pur fare. In genere lo fanno meglio quelli che non lo agognano. Ma per gli altri è un bene venir criticati, accusati, sbertucciati, compatiti e tutte queste cose insieme.

Chi comanda oggi in Italia?
Boh. Comandano tutti e non comanda nessuno, direi come sempre. Resta comunque il fatto che un conto è comandare, un altro conto, assai più difficile e raro, è governare.

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