
di Renzo Lambertini
CLUEB
«’Esegesi delle fonti del diritto romano’ è la denominazione di un corso universitario che, secondo una tradizione non ancora abbandonata, si pone come complementare rispetto ai corsi di Storia del diritto romano, Istituzioni di diritto romano e Diritto romano. Tuttavia, esegesi delle fonti del diritto romano indica pure, anzi indica in primis, una precisa attività tecnica, sottesa a ogni forma di indagine e ricostruzione di quella che, mutuando una felice espressione dell’Orestano, possiamo chiamare ‘esperienza giuridica romana’.
Può forse essere utile intraprendere un esame della denominazione del corso in parola nei tre nuclei che la compongono, onde poi tirare la fila dell’analisi complessiva. Esegesi. È parola del greco antico, che ha la stessa radice del verbo ἐξηγέομαι. La voce verbale reca vari significati; tra questi vi è anche ‘interpreto’. Esegesi vale dunque ‘interpretazione’. La pronuncia più frequente è quella piana (esegési), alla latina; ma anche quella sdrucciola (eségesi), di ascendenza greca, è corretta. L’aggettivo che deriva da esegesi è ‘esegetico’; il sostantivo che indica chi la pratica è ‘esegeta’. Si è detto ‘interpretazione’. Ma interpretazione di che cosa? Delle fonti. Il termine ‘fonti’, nel campo giuridico, è qui adoperato in una sola delle due accezioni che questo è idoneo ad assumere. Si distinguono infatti fonti di produzione (del diritto o delle norme giuridiche) e fonti di cognizione (del diritto o delle norme giuridiche). Per fonti di produzione si intendono i fatti, i meccanismi, i procedimenti, che pongono in essere, e quindi ‘producono’, la norma giuridica. Dalla fonte di produzione la norma trae insomma la sua origine fisica. Per fonti di cognizione si intendono invece i mezzi, i documenti, che forniscono la conoscenza della norma giuridica. Dalla fonte di cognizione si attinge dunque la scienza in ordine alla norma. […]
Da quanto finora esposto si comprende che le uniche fonti passibili di esegesi, cioè di interpretazione, sono le fonti c.d. di cognizione, e che, per quanto concerne il corso, nella sua denominazione il vocabolo ‘fonti’ va letto sottintendendo il menzionato complemento di specificazione. Delle altre possibili classificazioni delle fonti in genere, e di quelle di cognizione in particolare, si tratterà poco oltre. Del diritto romano. Diritto romano è il complesso delle norme, di varia origine, natura e durata nel tempo, che ressero lo Stato romano lungo l’arco di storia che va, secondo la corrente delimitazione convenzionale, dal 754 o 753 a.C., anno della fondazione di Roma, fino al 565 d.C., anno della morte di Giustiniano I d’Oriente, per noi d’ora innanzi semplicemente Giustiniano, il quale con le sue grandi compilazioni (Corpus Iuris) fornì la definitiva sistemazione, anche a futura memoria, della romana sanctio. Oltre tredici secoli di storia che hanno visto il succedersi di quattro diverse forme costituzionali: la monarchia, la repubblica, il principato, il dominato; la nascita, l’apogeo, e al tempo stesso l’obsolescenza e il passaggio di consegne, di numerose fonti di produzione normativa. Lo studio specifico dei due fenomeni sopra indicati è proprio del già menzionato corso di Storia del diritto romano […].
È lecito ora trarre alcune conclusioni relative alla disciplina qui presa a parametro. Essa ha lo scopo di introdurre il discente nel mondo delle fonti di cognizione del diritto romano: di metterlo in grado di reperirle, distinguerle, valutarle, interpretarle. In una parola, se mi si consente il termine certo più efficace che aulico, il corso dovrebbe consentirgli di ‘maneggiare’ le fonti in nostro possesso. […]
Tornando alla critica delle fonti, e ai fini di una migliore comprensione del menzionato obbligo esegetico, si può osservare, a titolo di esempio, come nel campo degli scritti della giurisprudenza classica, cioè degli interpreti del diritto dei secoli I-III d.C., pochissime siano le opere pervenuteci in via diretta, e come nella maggioranza dei casi si tratti di semplici brandelli dei lavori originari. Quasi sempre invece ciò che possediamo di quegli scritti è filtrato attraverso opere di epitomatori (autori di compendi) o di compilatori, autorità o privati, di epoche successive. I primi riassumono il dettato dei giuristi, i secondi ne ‘ritagliano’ frammenti coi cui poi, a fini legislativi, didattici, scientifici, sovente insieme ad altro materiale, formano una specie di mosaico antologico, ove ciascuna tessera conserva il nome dell’autore classico dell’opera da cui fu escerpita. Con riferimento a quest’ultimo tipo di fonti, è compito dell’esegeta che si accinge alla ricostruzione storiografica valutare quanto in quei frammenti ‘riciclati’ corrisponde all’originaria prosa, e quindi al pensiero, del giurista di cui reca ancora formalmente il sigillo, e quanto invece appartiene all’autore della compilazione; se non addirittura – perché anche questo è possibile – ad epoche intermedie, in cui la fonte classica è stata annotata da studiosi le cui glosse (note marginali o interlineari) sono poi scivolate nel testo lungo i vari passaggi della tradizione manoscritta. Nel caso di un testo epitomato, la genuinità formale evidentemente è esclusa fin dall’inizio; resta però sempre da accertare la genuinità di sostanza: premesso che il dettato con cui si ha a che fare non è quello del giurista classico, bensì quello del suo riassuntore, occorre stabilire se e fino a che punto il contenuto dell’epitome corrisponde a quello dell’opera abbreviata. È tutt’altro che escluso infatti che l’autore del compendio ci abbia introdotto del suo, per tacere, è ovvio, delle solite mani intermedie, i cui interventi sull’originale possono aver consegnato all’epitomatore un testo già in partenza alterato.»