
Infatti perché il lavoro sia scambiato secondo le classiche regole del mercato occorrerebbe che: a) il prezzo, cioè il salario, svolga una funzione di riequilibrio tra domanda e offerta; b) tra chi vende e chi compra vi siano soltanto relazioni di scambio su un piano di parità; c) il lavoro sia una qualsiasi merce anonima; d) tutti i soggetti seguano i criteri della razionalità economica. Ora nessuna di tali condizioni si verifica pienamente.
- L’esistenza della disoccupazione, cioè di un eccesso di offerta di lavoro, si spiega con il fatto che il salario non svolge la funzione di riequilibrio tra domanda e offerta, perché la struttura delle retribuzioni è determinata da fattori sociali e consuetudini e dall’azione dei sindacati e del potere pubblico. Peraltro ci si attende che i salari assicurino i costi di riproduzione dell’offerta di lavoro e quindi il sostentamento dei lavoratori e delle loro famiglie: la Dichiarazione di Filadelfia del 1944, che diede vita all’Organizzazione Internazionale del Lavoro, recita che il lavoro non è una merce e che a ogni lavoratore deve essere assicurata una retribuzione equa, cioè sufficiente a consentire un decoroso tenore di vita. A loro volta domanda e offerta di lavoro non dipendono che in parte dal livello delle retribuzioni. Quanto alla domanda, ha maggiore importanza il livello di produzione che le imprese intendono raggiungere, sul quale influiscono le aspettative di profitto. Può così accadere che la domanda di lavoro ristagni anche in presenza di una riduzione dei salari. D’altro canto, la «produzione» della forza lavoro è regolata da fattori demografici, sociali e culturali: la quantità di lavoratori in cerca di occupazione non è l’esito di calcoli sulla «vendibilità» della loro forza lavoro.
- Tra lavoratori e imprese non vi è una normale relazione di scambio, che presuppone un piano di parità, ma un rapporto di forza strutturalmente asimmetrico. Mentre i lavoratori sono liberi solo formalmente di vendere la propria forza lavoro, perché chi possiede solo la capacità di lavorare non ha altra scelta, gli imprenditori non sono costretti ad acquistare la forza lavoro offerta, perché possono vivere consumando il proprio capitale. Solo l’intervento di un’autorità esterna al mercato, quale lo Stato, ha riequilibrato i rapporti tra le due parti, non solo garantendo il diritto alla coalizione sindacale e regolamentando l’impiego della forza lavoro (divieto ai minori, limiti di orario, minimi retributivi), ma soprattutto assicurando con i sussidi di disoccupazione uno zoccolo di sicurezza economica che consenta di resistere più a lungo senza salario.
- L’epoca della forza lavoro «anonima», qualificata solo da capacità acquisite di ordine professionale, che ha contraddistinto la stagione della grande industria, sembra declinante di fronte al ritorno di quello che si può definire «mercato della vita», in cui si scambia non soltanto la capacità lavorativa, bensì l’intera personalità del lavoratore. Ciò si deve non solo alla ripresa dell’economia sommersa e dei sistemi di piccola impresa, ove tutti i rapporti di lavoro sono regolati da reti di relazioni personali, familiari e comunitarie, ma anche al diffondersi di sistemi produttivi fondati su un’alta affidabilità dei lavoratori, che deriva dal loro inserimento in reti di relazioni sociali.
- Se la forza lavoro è una «merce che vive e pensa», le sue scelte non possono essere tutte comprese secondo il paradigma della razionalità strumentale. Quella del lavoro è una scelta cruciale, «per la vita», che coinvolge l’intera personalità del lavoratore. Se si aggiunge che queste decisioni cruciali sono prese di regola in condizioni di informazione scarsa e quindi di grande incertezza, oltre che di forte tensione emotiva, elemento centrale è il senso che l’attore attribuisce al proprio vissuto, secondo la logica dell’identità sociale, che si costruisce nelle cerchie di riconoscimento (parenti, amici, ecc.) con cui l’attore si confronta.
Quali problemi presenta la partecipazione al lavoro delle donne?
La presenza delle donne nel mercato del lavoro è molto cresciuta in tutti i paesi europei soprattutto perché è cresciuto il tasso di attività (che comprende occupate e disoccupate) delle donne adulte, quelle che hanno spesso figli piccoli e sulle quali gravano i compiti familiari, in un contesto in cui la divisione del lavoro di cura nelle famiglie resta ancora diseguale (soprattutto in Italia). Gran parte dell’aumento dell’occupazione femminile si deve, da un lato, al crescente livello di istruzione e, dall’altro, alla diffusione del part time. Un elevato livello di istruzione favorisce la partecipazione al lavoro delle giovani donne sia perché costituisce un investimento, che la famiglia vuol far rendere, sia perché la scuola ha un effetto di emancipazione, ma soprattutto favorisce l’occupazione delle donne adulte perché permette l’accesso a lavori più retribuiti, che consentono di pagare dei servizi (domestici, asili, ecc.), e anche più gratificanti, che è più difficile abbandonare. D’altro canto, la diffusione del lavoro a tempo parziale ha consentito di meglio conciliare il lavoro con gli impegni familiari, anche a costo di segregare le donne in occupazioni organizzate con orari di lavoro ridotti. Inoltre, non si deve dimenticare il ruolo svolto dalla forte espansione dei servizi, poiché l’aumento dell’occupazione delle donne si concentra nel terziario, che ovunque è ormai diventato un settore a prevalenza femminile. È facile capire perché la domanda terziaria si sia rivolta alle donne. Gran parte dei servizi non sono altro che la professionalizzazione di attività che venivano svolte un tempo all’interno della famiglia. Infine, le donne sono ricercate per attività che implicano relazioni personali, dalle commesse alle hostess, dalle indagini di mercato alle cameriere, oppure per lavori che richiedono pazienza, adattabilità, capacità di reggere alla noia, dalle segretarie alle contabili, al lavoro impiegatizio esecutivo.
La recente crisi, che ha colpito di più i settori maschili (dall’edilizia all’industria), ha fatto sì che in tutti i paesi europei la percentuale di donne tra gli occupati sia aumentata significativamente e che nella maggior parte il tasso di disoccupazione delle donne sia ormai inferiore a quello degli uomini. Ciò non toglie che, a parità di livello di istruzione, le donne occupino ancora posizioni lavorative meno qualificate e meno retribuite di quelle degli uomini, e che le difficoltà di conciliare lavoro e vita familiare restino ben più ardue per le donne che per i maschi.
L’Italia ha seguito un percorso simile a quello degli altri paesi europei, sia pure con notevole ritardo e con risultati molto inferiori. Il tasso di occupazione delle donne è ancora il più basso di tutti i paesi europei, nonostante il diffuso ricorso al lavoro domestico delle donne immigrate abbia favorito quello extra-domestico delle italiane. Inoltre, la differenza sia tra il tasso di occupazione delle donne con figli piccoli e quello delle donne senza figli, sia la differenza tra il tasso di occupazione delle donne poco istruite e quello delle donne più istruite sono le più alte tra i tutti i paesi europei. Le donne poco istruite e con figli piccoli sono ancora escluse dal mercato del lavoro, soprattutto nel Mezzogiorno. Peraltro, va crescendo il fenomeno delle famiglie in cui solo la moglie è occupata.
Quali modelli di disoccupazione esistono in Europa?
Possiamo dire che nei paesi europei esistono due modelli di disoccupazione: quella «familista» e quella «assistita», poiché famiglia e stato sociale si compensano nel far fronte alla mancanza di reddito delle persone senza lavoro. Nell’Europa meridionale, caratterizzati dalla scarsa generosità degli schemi di protezione del reddito per i disoccupati, la disoccupazione si concentra sui giovani, che vivono a lungo presso i genitori che li mantengono. Per contro, nei paesi europei ove i sussidi per i senza lavoro sono molto più generosi e non necessariamente richiedono di aver già lavorato, la disoccupazione colpisce quasi in egual misura adulti e giovani, che escono presto dalla famiglia, non necessariamente per sposarsi e spesso anche senza avere già un lavoro.
La grande differenza tra i paesi europei per quanto riguarda la posizione familiare dei disoccupati fa sì che la percentuale di famiglie prive di alcun reddito da lavoro dipenda solo in parte dal livello totale della disoccupazione. Infatti, la scarsa vulnerabilità alla disoccupazione dei capifamiglia e la tendenza dei figli a restare a lungo famiglia fanno sì che in Italia e negli altri paesi mediterranei ad alta disoccupazione (il modello «familista») la percentuale di persone che vivono in famiglie in cui nessun adulto lavora sia solo di poco superiore a quella dei paesi dell’Europa centro-settentrionale, ove il tasso di disoccupazione è molto minore (il «modello assistito»).
Nei paesi con un tasso di disoccupazione elevato (Italia, Spagna e Grecia) la percentuale di persone che vivono in famiglie in cui nessuno lavora oscilla dal 29 al 32%, non lontana da quella intorno al 20-25% dei paesi (Germania, Gran Bretagna, Svezia) ove il tasso di disoccupazione è molto basso. La caratteristica dei paesi sud-europei a elevata disoccupazione, infatti, è l’altissima percentuale di persone che vivono in famiglie ove è occupato un solo membro (di regola il capofamiglia maschio): intorno al 40% contro il 15-20% dei paesi a bassa disoccupazione.
Poiché i paesi dell’Europa meridionale ad alta disoccupazione sono anche quelli in cui la protezione del reddito per i senza lavoro da parte dei sistemi di welfare è più debole, quando l’occupazione è una risorsa scarsa e la sua mancanza non è compensata da un welfare generoso, occorre che sia equi-distribuita tra le famiglie perché vi sia un buon grado di pace sociale. Ciò accade quando la scarsa occupazione è concentrata sui capifamiglia: così quasi tutte le famiglie potranno contare su un reddito da lavoro.
Tuttavia, la recente crisi ha messo in discussione questo assetto. In particolare, in Italia sono molto aumentate le persone che vivono in famiglie in cui nessuno è occupato: da poco più del 7% nel 2007 sino a quasi il 12% nel 2015. Per contro il Jobs Act approvato a fine 2015, che, riducendo la protezione per gli occupati nelle grandi imprese, amplia la platea e la generosità delle indennità di disoccupazione, sembra avviare anche l’Italia sulla strada della flexicurity da tempo adottata dalla maggior parte dei paesi europei.
Come si cerca e si trova lavoro oggi?
Attualmente in Italia per cercare lavoro quasi 9 disoccupati su 10 si rivolgono a parenti, amici o conoscenti, oltre 7 inviano una richiesta di lavoro o un curriculum a delle imprese (per lo più medio-grandi, perché più note), 6 usano internet e oltre 4 esaminano annunci di lavoro sui giornali, mentre poco meno di 3 hanno contatti con un centro pubblico per l’impiego e quasi 2 con un’agenzia privata. Rispetto anche a pochi anni fa i mutamenti sono rilevanti.
Il principale si deve a un’innovazione tecnologica: l’uso di internet, che 10 anni fa non raggiungeva il 30%, è cresciuto sino al 60%, diventando il più diffuso dopo le relazioni personali e l’invio di curriculum alle imprese. Per contro, diminuisce la percentuale di chi esamina proposte di lavoro sui giornali. Il secondo mutamento si spiega con una novità istituzionale, poiché le agenzie private di lavoro interinale sono state riconosciute nel 1997. Perciò, i disoccupati che ricorrono a strutture private sono rapidamente cresciuti sino a un massimo del 20%, per poi scendere di qualche punto percentuale. La partecipazione a concorsi pubblici è in continua riduzione a causa della caduta delle assunzioni nel pubblico impiego. Per contro, continua ad aumentare la percentuale di disoccupati che invia domande di assunzione a possibili datori di lavoro privati sino a sfiorare il 75%. Infine, a conferma del crescente attivismo dei disoccupati, ma anche delle crescenti difficoltà incontrate, aumenta ancor più la percentuale di chi cerca di utilizzare le proprie reti di relazioni personali: da meno del 40% nel 2003 a quasi il 90%.
Molto minori, invece, sono i mutamenti per quanto riguarda il modo con cui si trova il lavoro. Come era facile attendersi, anche oggi in Italia il lavoro si trova per lo più grazie alle relazioni con parenti, amici e conoscenti, che raggiungono il 40%, seguono l’invio di domande alle imprese, che sfiora il 20%, gli stage e tirocini, che superano il 15%, i contatti diretti con i datori di lavoro, prossimi al 7%, il ricorso a centri per l’impiego, poco oltre il 3%, e ad agenzie private, quasi il 6%, e infine i concorsi pubblici, che raggiungono il 4%, e l’uso di giornali e internet, poco oltre il 4%. Può sorprendere che, se il 60% cerca lavoro su internet, soltanto poco più del 4% lo trova grazie all’uso di internet o dei giornali. In realtà, internet può servire soprattutto a esplorare le opportunità di lavoro, con le quali poi chi cerca lavoro entra in contatto attraverso altri canali, o può essere solo il nuovo strumento con cui si utilizzano i più consueti canali, soprattutto i contatti diretti con le imprese o i rapporti con gli intermediari, pubblici o privati.
Per valutare l’efficacia dei modi con cui si cerca lavoro si può considerare il livello di qualificazione professionale dell’occupazione trovata. Ne risulta un contrappasso per le relazioni personali, poiché all’ottimo successo quantitativo si accompagna un pessimo esito qualitativo. Infatti, oltre il 70% dei laureati che hanno trovato lavoro con un concorso pubblico svolge una professione intellettuale e la percentuale di professioni intellettuali è elevata (oltre il 40%) anche per chi ha trovato lavoro grazie all’università, agli stage o al contatto diretto da parte del datore di lavoro. Per contro, dei laureati che hanno trovato lavoro grazie a relazioni personali solo un quinto svolge professioni intellettuali, mentre oltre un quinto è addetto a vendite e servizi personali (commessi e camerieri) e quasi il 15% svolge addirittura mansioni manuali. Soltanto per i laureati che hanno trovato lavoro tramite le agenzie private l’esito è stato peggiore. Risultati simili riguardano anche i diplomati. Per contro, il lavoro trovato grazie a relazioni personali è più spesso a tempo indeterminato (intorno al 43%). Solo per i lavoratori che sono stati contattati dalle imprese la percentuale è superiore (oltre il 50%), mentre gli altri canali consentono più raramente di trovare un’occupazione stabile. Quindi, ricorrere alle relazioni personali in Italia consente di trovare più facilmente un lavoro dipendente a tempo indeterminato, ma a costo di una dequalificazione professionale anche rilevante.
Quali dinamiche subisce la domanda di lavoro nella società dei servizi?
Con la terziarizzazione dell’economia cresce il processo di innalzamento professionale (upgrading) dell’occupazione, perché la «società della conoscenza» invade il mondo del lavoro. I lavoratori che trattano informazioni (non solo dirigenti, professioni intellettuali e tecniche, ma anche addetti a compiti meno complessi), che negli anni Settanta erano da un quarto a un terzo dell’occupazione nei paesi europei, nel 2000 sfiorano la metà, un livello simile a quello degli Stati Uniti. Per contro, gli stessi studi che hanno mostrato un upgrading dell’occupazione nei paesi dell’Unione Europea rivelavano che in Gran Bretagna crescevano, sia pur in minor misura, anche i lavoratori occupati in mansioni poco qualificate, mentre diminuivano quelli occupati in attività mediamente qualificate. Tale tendenza a una polarizzazione asimmetrica era stata rilevata da tempo negli Stati Uniti. Tuttavia, l’ipotesi di una contrapposizione tra paesi anglosassoni, con una debole regolazione del mercato del lavoro, e paesi dell’Europa continentale, con una regolazione più forte, è stata messa in crisi da successive ricerche, che mostrano come la tendenza alla polarizzazione asimmetrica interessi anche parecchi altri paesi europei e più recentemente l’intera Unione Europea a 15.
Innanzi tutto, l’attuale mutamento tecnologico non solo richiede maggiori competenze e capacità di trattare informazioni, ma incide sui lavori ripetitivi, diffusi anche in occupazioni intellettuali, mentre non incide né sui compiti astratti, diffusi nei lavori intellettuali non ripetitivi, né su quelli di servizio, diffusi nei lavori manuali non ripetitivi. Poiché i compiti astratti sono concentrati nelle occupazioni più qualificate, quelli ripetitivi nelle occupazioni di livello medio e quelli di servizio nelle attività meno qualificate, il mutamento tecnologico contribuisce a far crescere le occupazioni di più alto livello, ma anche a ridurre quelle di livello medio, mentre incide poco su quelle di livello più basso, che aumentano anch’esse sia pure in minor misura. In futuro, però, è possibile che, grazie alla disponibilità dei big data, l’informatizzazione incida anche su molti compiti intellettuali non ripetitivi e che i robot personali sostituiscano molti compiti manuali non ripetitivi nei servizi alle famiglie. All’attuale tendenza ha contribuito anche la disponibilità di forza lavoro, che nei paesi sviluppati si polarizza. Grazie anche alla maggior partecipazione al lavoro delle donne, cresce la forza lavoro molto istruita, mentre si riduce quella con un livello di istruzione medio-basso, che in passato trovava naturale sbocco nel mercato del lavoro a media qualificazione. Per contro, cresce la forza lavoro immigrata, disposta a svolgere le mansioni più dequalificate. Non è un caso che le tendenze alla polarizzazione si diffondano in Europa con l’aumento dell’immigrazione.
Quali caratteristiche possiede il modello italiano di occupazione?
Rispetto agli altri paesi dell’Europa occidentale, l’Italia si caratterizza per una domanda di lavoro poco orientata verso le occupazioni più qualificate. Infatti, la percentuale di occupati in attività manageriali o intellettuali (dagli ingegneri ai consulenti aziendali, dai ricercatori ai funzionari di alto livello) è in Gran Bretagna, Olanda e Svezia quasi il doppio di quella che si registra in Italia. Persino in Spagna la presenza di lavoratori addetti a queste mansioni è superiore a quella italiana. L’Italia recupera un poco le distanze grazie ad una presenza più consistente della fascia più bassa delle professioni non manuali qualificate: quella dei tecnici, dai paramedici agli agronomi, dagli esperti di controllo di qualità ai consulenti assicurativi. Ma cresce ancora la distanza dalla Svezia e dalla Germania, ove un quinto dei lavoratori svolge queste attività. Per contro, l’Italia si caratterizza per una discreta percentuale di lavoratori occupati in professioni relative alle vendite e ai servizi personali (dai commercianti ai camerieri, dalle guide turistiche agli istruttori sportivi), e per un’altissima percentuale di operai specializzati, superiore persino a quella della Germania. Anche le percentuali di lavoratori manuali poco o nulla qualificati sono superiori alla media europea.
Tuttavia, lo scenario attuale è migliore di quello che risultava sino a 25 anni fa, poiché da metà anni Novanta in Italia le occupazioni intellettuali e tecniche sono aumentate in misura notevole, con un buon recupero rispetto ai paesi europei più avanzati. La tendenza, però, si è interrotta con la crisi, poiché l’Italia è l’unico paese europeo in cui dal 2008 diminuiscono in maggior misura le occupazioni intellettuali e tecniche, mentre quelle manuali non qualificate addirittura aumentano, grazie a una crescente presenza degli immigrati.
La scarsa capacità dell’Italia di creare occupazione altamente qualificata risulta più evidente se gli occupati nei diversi livelli di qualificazione sono messi in relazione con le persone in età attiva. Infatti, in Italia la percentuale di persone da 15 a 64 anni che svolgono lavori raggiunge il 20%, un livello simile a quello di molti paesi europei e anche la percentuale di addetti alle vendite e ai servizi personali (intorno al 10%) e di impiegati (7%) non sono molto diverse. Invece, decisamente inferiori a quelle dei paesi dell’Europa centro-settentrionale sono le percentuali di persone occupate come tecnici (10%) e soprattutto in professioni intellettuali e dirigenziali (poco più del 10% contro livelli più che doppi). L’inferiorità del tasso di occupazione totale dell’Italia (poco oltre il 56%, il più basso dell’Europa occidentale, contro paesi che superano il 75%) si deve tutto alla mancanza di occupati in professioni ad alta specializzazione.
Si afferma che l’Italia non sia “un paese per giovani”: è realmente così?
Purtroppo sì, anche se in un futuro non lontano la situazione potrebbe cambiare perché, a causa del declino demografico, i giovani sono destinati a diventare una risorsa scarsa. Attualmente in Europa l’Italia ha il primato della penalizzazione per età: all’altissimo tasso di disoccupazione dei giovani corrisponde un tasso degli adulti maschi poco superiore a quello di paesi alle soglie del pieno impiego. Quella italiana è una disoccupazione «da inserimento», poiché colpisce per lo più il momento dell’ingresso nel mercato del lavoro, mentre per chi è riuscito finalmente a trovare un lavoro il rischio di perderlo e di non trovarne un altro è relativamente modesto. Le persone in cerca di prima occupazione, che in alcuni paesi non raggiungono il 20%, in Italia superano il 33%.
La prevalente rappresentazione del disoccupato italiano è quella di un giovane senza esperienza lavorativa. Tuttavia, la forte e continua riduzione della popolazione giovanile è destinata a mutare tale rappresentazione, che già ora è meno rilevante di quanto sembri se si guarda al rapporto dei giovani disoccupati con la popolazione giovanile e alla percentuale dei disoccupati da 15 a 24 anni sul totale delle persone in cerca di lavoro.
È vero, infatti, che nel corso della grande crisi il tasso di disoccupazione dei giovani è esploso sino a livelli eccezionali, ma non è vero che oltre il 40% dei giovani da 15 a 24 anni sia in cerca di lavoro, perché il tasso di disoccupazione è calcolato sulle forze lavoro, che oltre agli occupati includono i disoccupati, ma non i sempre più numerosi studenti a tempo pieno. In realtà, se si considerano tutti i 15-24enni, dal 2009 quelli in cerca di lavoro non hanno mai superato il 12% dei giovani. Se si adotta questo punto di vista, l’attuale condizione dei giovani italiani appare meno drammatica di quella di metà anni Ottanta, quando il tasso di disoccupazione aveva superato di poco il 30%, ma la percentuale dei disoccupati sull’intera popolazione giovanile era andata oltre il 15%.
La divergenza tra questi due indicatori si spiega con la crescente scolarizzazione superiore dei giovani. Attualmente, quasi il 70% dei giovani da 15 a 24 anni sono ancora studenti e quindi il tasso di disoccupazione si calcola solo sul 30% che ha finito gli studi, mentre in passato i 15-24enni che avevano terminato gli studi erano molto più numerosi e il tasso di disoccupazione si calcolava su una platea molto più ampia. Per le famiglie che i giovani siano ancora studenti o disoccupati non fa grande differenza, poiché devono mantenerli in entrambi i casi. Tuttavia, la divergenza tra i due indicatori rivela che, sebbene ora la disoccupazione giovanile si presenti grave come mai nella recente storia italiana, la sua consistenza è decisamente meno elevata che in passato.
Per la stessa ragione i giovani sono sempre più una piccola minoranza tra le persone in cerca di lavoro. Attualmente sono poco più del 20%, mentre negli anni Ottanta del secolo scorso erano oltre il 60%. E la tendenza è destinata a proseguire sia per la sempre minor consistenza della popolazione giovanile dovuta alla caduta delle nascite da quasi mezzo secolo, sia per l’aumento della frequenza di istituti superiori e università, ancora parecchio inferiore alla media europea. Attualmente alla metà dei disoccupati si arriva solo aggiungendo ai giovani in cerca di impiego i giovani adulti, da 25 a 34 anni, che costituiscono la fascia di età nella condizione più critica. Infatti, costoro, quasi metà dei quali non vivono più con i genitori e possono contare meno sul loro sostegno, se per il 60% sono occupati, per oltre il 13% sono in ricerca attiva di lavoro contro il 7% degli adulti e il 10% dei più giovani.
Particolarmente difficili sono ora le condizioni dei giovani più istruiti non tanto perché impieghino più tempo dei meno istruiti a trovare un’occupazione, poiché il loro tasso di disoccupazione negli anni successivi alla fine degli studi è nettamente inferiore a quello dei giovani meno istruiti, quanto piuttosto perché non trovano occasioni di lavoro coerenti con le loro aspirazioni professionali a causa della scarsità di occupazioni altamente qualificate, di cui ho detto. Si spiega così perché molti giovani laureati emigrino verso altri paesi, soprattutto Gran Bretagna e Germania. E si tratta di un vero e proprio brain drain, perché sono per lo più laureati in materie scientifiche, dalle università dell’Italia settentrionale e con i voti più alti.
Come si evolverà la cosiddetta “flessibilità del lavoro”?
Di flessibilità del lavoro vi sono due accezioni. La flessibilità numerica o «esterna» riguarda il grado di libertà con cui un’impresa può variare il volume dell’occupazione. Interessa quindi tre aspetti: i vincoli normativi, contrattuali o convenzionali che regolano i licenziamenti, la possibilità di ricorrere a rapporti di lavoro dipendente diversi da quelli a tempo indeterminato e quella di affidare fasi o funzioni del ciclo produttivo in subappalto ad altre imprese o con contratti d’opera a liberi professionisti o a collaboratori. Ma vi è anche la flessibilità funzionale o organizzativa, che riguarda invece la possibilità di spostare i lavoratori da un posto all’altro all’interno dell’impresa o di variarne il contenuto della prestazione. Questa possibilità non richiede solo assenza di vincoli, ma anche altre condizioni: da un’alta polivalenza professionale dei lavoratori alla loro disponibilità ad accettare frequenti mutamenti delle condizioni di lavoro, presupposti che si realizzano soltanto se l’impresa ottiene dai lavoratori un coinvolgimento nei suoi fini produttivi e un attaccamento alla sua organizzazione, requisiti che si accompagnano di regola a una stabilità dell’occupazione. Queste due forme di flessibilità tendono a presentarsi tra loro in relazione inversa, per cui quanto più flessibile diventa un aspetto del rapporto di lavoro, tanto più un altro si irrigidisce. A tali conclusioni giunge uno studio dell’Ocse, in cui diversi paesi sono esempi delle configurazioni che un «sistema della flessibilità» può assumere. Germania e Francia ben esemplificano la combinazione di elevata flessibilità funzionale e bassa flessibilità esterna, mentre in Gran Bretagna prevale il modello opposto.
Netta è la relazione tra flessibilità funzionale e formazione dei lavoratori: soltanto in un contesto di stabilità le imprese e i lavoratori sono motivati a investire in formazione e a sua volta una specifica formazione acquisita sul lavoro riduce il turnover. Escludendo i rapporti a fini formativi, i lavoratori temporanei ricevono molto meno addestramento dall’impresa, risultando così meno occupabili a lungo termine. Ciò spiega perché alla flessibilità funzionale si associ la qualificazione di innovativa e alla flessibilità numerica quella di difensiva: la prima mira alla via «alta» della competitività, fondata su produzioni a elevata intensità tecnologica o intellettuale, la seconda alla via «bassa», fondata sulla compressione del costo del lavoro.
Si può pensare che vi debba essere un’interdipendenza tra aspetti di flessibilità e rigidità. Elevate flessibilità sono socialmente sopportabili negli stati democratici solo se accompagnate da qualche rigidità che dia sicurezza ai lavoratori. È la strategia della flexicurity, che a un’elevata flessibilità del lavoro unisce efficienti (e costosi) strumenti di protezione del reddito e di sostegno al reimpiego. Un trade-off simile vale per le imprese, che devono bilanciare consenso ed efficienza, soprattutto se il consenso costituisce condizione essenziale dei nuovi sistemi di produzione fondati sul principio dell’appropriatezza (economy of scope) secondo i quali, più che ridurre i costi unitari di produzione, è importante produrre i beni e i servizi «appropriati» nel tempo e nel luogo in cui sono richiesti. Scenari realistici, quindi, non dovrebbero mirare a un generale aumento della flessibilità del lavoro, ma delineare nuovi equilibri tra flessibilità emergenti e rigidità da conservare o introdurre. Si spiega così perché l’ideologia della flessibilità si è scontrata con la realtà dei fatti. L’Ocse, che con i Jobs studies a metà anni Novanta aveva fatto l’apologia della flessibilità per aumentare l’occupazione, ora sostiene che ne vanno corretti gli eccessi, anche riequilibrando la protezione dell’occupazione tra rapporti a tempo determinato e a tempo indeterminato.
Lo scenario più probabile, però, è quello di una polarizzazione tra aree del mercato del lavoro in cui prevalgono organizzazioni caratterizzate da alta professionalità e flessibilità funzionale e aree in cui invece prevalgono organizzazioni connotate da bassa professionalità e alta flessibilità numerica. È il rischio di una società dei due terzi, in cui però non sappiamo ancora che caratteristiche abbiano i due terzi e quali abbia l’altro terzo.