
Nella scienza politica italiana del secondo dopoguerra ha prevalso a lungo la posizione di un grande maestro quale Giovanni Sartori, secondo il quale il metodo storico dev’essere considerato soprattutto quale “controllo storico” delle ipotesi di ricerca e comunque come una forma di verifica empirica meno efficace delle altre (in particolare, della comparazione sincronica). Eppure – anche in questo caso il “lungo periodo” ci può aiutare – gli studi politologici in Italia si radicano in un patrimonio plurisecolare di pensiero e di ricerca che risale alla lezione di Niccolò Machiavelli e si ritrova negli autori della “Scuola machiavellica italiana” tra fine Ottocento e primi del Novecento, ossia Gaetano Mosca, Vilfredo Pareto e Roberto Michels. Da questo punto di vista, più che ricorrere al “controllo storico” delle ipotesi di ricerca, ci interessa comprendere la storia per trarre la linfa necessaria a costruire delle teorie empiriche della politica. È con questa ottica, volutamente aperta al confronto interdisciplinare, che, con Carlo Baccetti, ho fondato lo standing group “Politica e Storia” della Società italiana di Scienza politica, nel 2015.
Nel libro “Introduzione alla politologia storica” proponiamo contributi che contengono messe a punto concettuali e metodologiche, riferimenti alle analisi, ancora attuali, di grandi autori classici e studi che vedono coinvolto il nostro Paese in prospettiva comparata, con particolare riguardo ai temi che, a nostro avviso, si prestano particolarmente bene al confronto fra scienze sociali e storiografia, quali l’analisi delle culture politiche e delle trasformazioni dei partiti.
In particolare, il tema delle culture politiche, a mio avviso, ben si adatta alle ricerche di politologia storica e merita di essere riportato al centro della scienza politica. Infatti, tale tema rimanda alle origini del pensiero politico occidentale, ossia all’Umanesimo e alle dispute relative ai fondamenti del diritto e ai rapporti fra leggi e costumi. Riguardo a quest’ultima questione, che attraversa l’intero pensiero politico classico e medievale, la teoria politica moderna ha identificato due diversi filoni: il primo raccoglie l’eredità scolastica e annovera fra i suoi fautori Hobbes (e in modo diverso Hume) e sostiene che un governo efficace presuppone, in primo luogo istituzioni forti. Il secondo è sviluppato da Machiavelli, Montesquieu e, in seguito, da Tocqueville e attribuisce una maggiore importanza ai valori e allo spirito pubblico dei cittadini. La scienza politica moderna ha privilegiato a lungo il paradigma istituzionalista (che, non dimentichiamoci, è il primo a definirsi compiutamente, a livello cronologico, nel corso dell’Ottocento, quando la scienza politica comincia ad emanciparsi dal Diritto pubblico). Tuttavia, di fronte alla crisi e al crollo delle democrazie europee negli anni Venti e Trenta del Novecento diviene evidente che la stabilità e la salute dei regimi democratici non dipendono soltanto da fattori istituzionali formali. Di conseguenza, sin dagli anni Cinquanta la scienza politica sopravvissuta ai totalitarismi (pertanto, soprattutto di matrice anglosassone) ha cominciato a studiare anche gli aspetti meno istituzionalizzati della politica, ossia le culture politiche.
La prima grande ricerca comparata che pone al centro dell’analisi la dimensione delle culture politiche è “The Civic Culture”, condotta da Gabriel Almond e Sidney Verba e pubblicata nel 1963. Il punto è che la ricerca risente moltissimo del clima dell’epoca, intriso di comportamentismo, e, basandosi sul sondaggio cross-national, rinuncia ad approfondire gli elementi di contesto e l’analisi storica.
Proprio con la finalità di ricostruire le dimensioni di contesto dell’agire politico, pochi anni dopo la ricerca di Almond e Verba, a metà degli anni Sessanta, in Italia sono state avviate le analisi dell’Istituto Cattaneo di Bologna sulla partecipazione politica, che utilizzano diversi metodi di ricerca: studio di dati elettorali aggregati a livello comunale o provinciale, dell’organizzazione di partiti, sindacati, associazioni, e interviste in profondità ai militanti. Nel più vasto ambito europeo Stein Rokkan ha sospinto la propria impostazione struttural-funzionalista in direzioni molto innovative, proponendo di interpretare le differenze fra i paesi europei attraverso l’analisi dei conflitti che li hanno caratterizzati nel tempo e nello spazio. In contemporanea, negli Stati Uniti si è affermato l’approccio di Daniel J. Elazar che utilizza l’analisi storica comparata per studiare le differenti culture politiche americane. La concomitanza di tali esperienze di ricerca non è casuale. È lo stesso clima di effervescenza sociale dei secondi anni Sessanta che induce a oltrepassare i limiti epistemologici del comportamentismo, restituendo alla politica tutta la sua complessità. Gianfranco Pasquino ha parlato di «una rivoluzione che potremmo definire weberiana, se teniamo conto degli apporti che Max Weber ha dato all’analisi dei sistemi politici nella loro globalità, alla prospettiva comparata, all’impostazione storica e all’importanza dei fattori culturali».
Quali sono gli autori di riferimento per un’indagine che coniughi le prospettive della scienza politica e della sociologia politica con l’analisi storica comparata?
Un nome essenziale è stato fatto in chiusura della domanda precedente: Max Weber. La complessità dell’opera weberiana è tale da rappresentare un patrimonio irrinunciabile per chiunque desideri affacciarsi allo studio delle scienze sociali e non solo (recenti riflessioni hanno sottolineato l’importanza del contributo weberiano per la filosofia e la storia del pensiero politico).
In sociologia il metodo storico comparativo è ampiamente utilizzato in quei filoni di ricerca che tesaurizzano la lezione weberiana, focalizzata sulla strutturazione nel tempo della società. Il riferimento a tale metodo richiama la differenza di fondo fra Max Weber e Emile Durkheim rispetto alla storia, ossia l’essenza storicizzata della società in Weber, contrapposta a quella astorica di Durkheim. Per Weber, il metodo storico comparato si basa sul confronto delle relazioni osservate tra le cause supposte e gli esiti osservati presso più ambiti spazio-temporali diversi. In questa ottica, assumono un ruolo decisivo la ricostruzione del contesto storico entro cui accadono gli eventi e il significato soggettivo attribuito alle azioni. Nel testo “Introduzione alla politologia storica” a Weber viene dedicato un intero capitolo, scritto da uno storico che ha sempre perseguito il confronto con le scienze sociali in generale e con la lezione weberiana in particolare, quale Paolo Pombeni. Sempre all’interno del nostro libro, il lettore ha modo di incontrare altri autori la cui eredità può contribuire al nostro cammino di ricerca. Alfredo Ferrara rivisita la lezione di Antonio Gramsci e la applica alla comprensione delle dinamiche politiche contemporanee. Marco Valbruzzi si sofferma su Stein Rokkan.
Qual è l’importanza di Stein Rokkan per questa riflessione?
A parer mio, si tratta di un autore straordinariamente importante. La cui opera, come già per Weber, stupisce per ampiezza e poliedricità e sfida qualsiasi rigida partizione rigidamente specialistica. In un’epoca quale la nostra, caratterizzata per profondi cambiamenti e per la ridefinizione drastica delle identità collettive, torna utilissima la lezione di Rokkan, il quale propone di considerare le dinamiche di lungo periodo analizzando le fasi di continuità, assieme all’insorgenza di linee di frattura. Il suo contributo schiude per noi prospettive importanti, poiché, attraverso l’identificazione delle linee di frattura, Rokkan ci invita ad effettuare sistematiche analisi storiche comparate che pongano al centro processi di lunga durata. La grandezza della prospettiva rokkaniana consiste nell’accettare il conflitto quale oggetto di ricerca, recuperando l’antica lezione machiavelliana, secondo la quale, a determinate condizioni, le linee di conflitto uniscono la società (mentre la dividono). La lezione rokkaniana ci insegna che soltanto riconoscendo i conflitti che attraversano la società è pensabile di riuscire a ricomporli garantendo un’accettabile stabilità ai nostri sistemi politici, che le culture politiche si formano (o si trasformano) in relazione a queste linee di frattura e che i partiti hanno successo se riescono a rappresentare una delle parti coinvolte in un conflitto ritenuto saliente dalla società.
Quali sono i temi cruciali della politica contemporanea?
Ritengo che alcune delle linee di frattura individuate da Rokkan negli anni Sessanta abbiano ancora validità. Abito e lavoro in Veneto, pertanto faccio fatica ad ignorare l’esistenza di una linea di frattura che contrappone il “centro” (dello Stato nazionale) alla “periferia”. Come ricordiamo Paolo Graziano ed io al termine del nostro contributo nel libro, nonostante la torsione nazionalista imposta da Matteo Salvini alla Lega, al referendum consultivo indetto dal Consiglio regionale del Veneto per l’attribuzione alla Regione di ulteriori forme di autonomia, il 22 ottobre 2017 l’affluenza è stata del 57,2% con una percentuale di “sì” pari al 98,1%. Basta vedere la distribuzione territoriale dell’affluenza (altissima nelle “periferie” della Regione, più bassa nei capoluoghi) per comprendere che anche un’altra linea di frattura rokkaniana, quella città/campagna è tuttora attiva. Per altro, mi pare diffusa in tutto l’Occidente, con la contrapposizione fra centri urbani più favorevoli alla globalizzazione e le realtà più esterne che ne percepiscono soprattutto gli effetti negativi. Più in generale, l’impatto della globalizzazione e delle sue crisi (fra cui la crisi economica apertasi nel 2007, vero spartiacque rispetto al “mondo di ieri”) fa affiorare nuove linee di frattura: relative all’immigrazione e all’Europa. Infine, una linea di frattura attraversa da anni tutte le società occidentali, quella che tende a contrapporre l’establishment (costituito dalle classi dirigenti cosmopolite, globalizzate, tendenzialmente liberiste) al “popolo” (costituito soprattutto dalle persone impoverite e rese insicure dai processi economici e sociali degli ultimi anni).
Come si è evoluta la cultura civica in Italia negli ultimi trent’anni?
Sia Paolo Graziano ed io sia Paola Bordandini e Roberto Cartocci nei nostri rispettivi capitoli riprendiamo ampiamente la celeberrima ricerca di Robert Putnam sulla cultura civica nelle regioni italiane, pubblicata nel 1993 (con il titolo di La tradizione civica nelle regioni italiane, dalla casa editrice Mondadori, mentre per la coeva edizione americana Princeton University Press sceglieva Making Democracy Work: Civic Tradition in Modern Italy, un titolo che ho sempre trovato di rara bellezza).
Ebbene, utilizzando un’ampia raccolta di dati empirici, frutto di una ricerca pluridecennale, Putnam evidenzia un’elevata correlazione fra il rendimento istituzionale delle regioni italiane e la presenza di una specifica cultura politica locale: la civicness (cultura civica), consistente in un orientamento diffuso dei cittadini verso la politica sostenuto da una estesa fiducia interpersonale e dalla consuetudine alla cooperazione. Nella precisazione delle caratteristiche qualificanti del civismo compare una novità concettuale: la cultura civica, per Putnam, è tale in quanto ricca di capitale sociale. Per capitale sociale Putnam (1993, p. 196) intende «la fiducia, le norme che regolano la convivenza, le reti di associazionismo civico, elementi che migliorano l’efficienza dell’organizzazione sociale promovendo iniziative prese di comune accordo».
Lo stesso Putnam ricorre ad un’analisi diacronica per spiegare la diversa sedimentazione del capitale sociale nelle regioni italiane. Secondo Putnam, le differenze di rendimento a favore delle regioni del Centro-Nord dipenderebbero da differenti dotazioni di capitale sociale e l’origine di tale discrepanza andrebbe ricercata nelle vicende che hanno caratterizzato la nostra penisola quasi un millennio fa, quando nell’Italia centro-settentrionale riuscirono a prosperare i liberi comuni mentre nel Meridione il regno dei Normanni portò a compimento una centralizzazione gerarchica costruita sull’eredità istituzionale bizantina e musulmana. Nel divenire storico, questa contrapposizione avrebbe sedimentato istituzioni e culture divergenti: “verticali” al Sud, “orizzontali” al Nord, ancora in grado di influenzare, dopo secoli, il rendimento delle istituzioni politiche contemporanee. Putnam evidenzia la sovrapponibilità fra l’area caratterizzata dalla presenza di liberi comuni nel Medioevo e quella contraddistinta dal civismo regionale negli anni Settanta e Ottanta nel Novecento.
Ora, al di là della spiegazione storica che è stata ampiamente criticata (e lo è anche nel nostro libro, come potrà scoprire il lettore), un aspetto che emerge dalla ricognizione di Bordandini e Cartocci, che hanno replicato la ricerca di Putnam venticinque anni dopo è che la discrepanza fra Centro-nord e Meridione si riproduce: “le regioni con i valori più bassi sono sempre quelle dell’estremo Mezzogiorno continentale e la Sicilia. Negli ultimi trent’anni ben poco è cambiato nella geografia della cultura civica” (p. 104). A cambiare, soprattutto, è la c.d. “Italia di mezzo”, quella che fu la “zona rossa”, con il retrocedere, nell’indice generale di civismo, delle regioni un tempo “rosse”, quali Emilia Romagna, Toscana ed Umbria, a beneficio delle regioni dell’Italia nord orientale (in primis Trentino Alto Adige e Friuli Venezia Giulia).
Quali trasformazioni hanno subito i partiti della sinistra radicale e di estrema destra in Europa?
Nel libro vi sono due capitoli dedicati a queste formazioni: una ricognizione compiuta da Marco Damiani in merito ai partiti della sinistra radicale nell’Europa mediterranea dal 1989 a oggi e un’analisi comparata di Giorgia Bulli sull’estrema destra in Italia e in Germania e sulle relative strategie di ricerca. In sintesi, il pregio di questi capitoli, affidati a due fra i migliori studiosi del tema, consiste nel fornirci una visione d’insieme molto composita di queste formazioni, alcune delle quali sono riuscite ad acquisire un consenso notevole. Dalle crisi innescate dalla globalizzazione la destra radicale si avvantaggia dando una risposta forte, innervata dal nazionalismo, alla vulnerabilità di ampi strati sociali danneggiati dai processi in atto. Il capitolo di Marco Damiani mette in luce come nella sinistra radicale ci siano state delle novità negli ultimi anni, anche per effetto della crisi economica e delle politiche di austerità. In Grecia con Syryza e in Spagna con Podemos si sono affermate nuove formazioni di sinistra più radicali, ma non estremiste, che hanno contestato le forze politiche tradizionali, comprese quelle appartenenti all’Internazionale socialista, considerate incapaci di offrire proposte alternative alle politiche di austerità.
Anche nei prossimi anni sarà molto importante seguire l’evoluzione di tali formazioni, poiché i sistemi politici delle democrazie contemporanee e le relative culture politiche di riferimento non sembrano aver trovato ancora una configurazione stabile.