“Introduzione alla linguistica storica” di Franco Fanciullo

Prof. Franco Fanciullo, Lei è autore del libro Introduzione alla linguistica storica edito dal Mulino: innanzitutto, cosa studia la linguistica storica?
Introduzione alla linguistica storica, Franco FanciulloLa linguistica storica studia l’evoluzione nel corso del tempo (evoluzione storica o diacronica) di una singola o di più lingue o di un gruppo di lingue; studia cioè cosa cambia e come cambia da un momento storico x a un momento storico y successivo: ad es. l’evolversi del latino (momento x) in una o più delle lingue romanze (o neolatine: italiano, francese, spagnolo, portoghese, rumeno…: momento y); o anche l’evolversi dell’italiano dai tempi di Dante a noi; o l’evolversi del greco antico in greco bizantino (medievale) e poi greco moderno, e così via. Il percorso “normale” sarebbe di partire dal momento meno recente (ad es., il bizantino) e arrivare al momento più recente (ad es., il neogreco); ma questo è possibile solo quando, e succede di rado, conosciamo più o meno bene il punto di partenza (oltre che, ovvio, il punto di arrivo). In effetti, di gran lunga più frequente è il caso in cui conosciamo bene, o molto bene, la situazione di arrivo (ad es., le lingue germaniche: svedese, danese, tedesco, olandese, inglese…, “cugine”, per così dire, delle lingue romanze) ma non conosciamo affatto la situazione di partenza (nel caso delle lingue germaniche: non abbiamo nessuna conoscenza, per totale mancanza di documentazione, della lingua-madre germanica dalla quale le lingue appunto germaniche sono derivate); e in tal caso, la ricostruzione precede a ritroso, confrontando le fasi linguistiche a noi note e dal confronto di queste cercando di ricostruire, nei limiti del possibile, il punto di partenza (nel caso delle lingue germaniche, si ricostruisce la lingua-madre germanica, il cosiddetto germanico comune, che sta alle lingue germaniche moderne come il latino sta alle lingue neolatine).

Quando si parla di linguistica storica senza ulteriori specificazioni (v. anche al punto successivo) si intende di default la linguistica indoeuropea, cioè la branca della linguistica che, partendo dal confronto sistematico di un certo numero di lingue europee e asiatiche (latino, greco, gotico, sanscrito, persiano…) e allargandolo via via a parecchie altre lingue, antiche e moderne, è arrivata a stabilire scientificamente la parentela della massima parte delle lingue europee (lingue neolatine, germaniche, celtiche, slave, baltiche, zingariche, e poi l’albanese e il greco) e di un numero non trascurabile di lingue asiatiche (lingue iraniche e indiane), nel senso che tutte queste lingue discendono dimostrabilmente, per scissioni successive e attraverso passaggi vari, da una medesima lingua-madre, della quale, però, non si ha nessuna documentazione e alla quale si è dato il nome convenzionale di indoeuropeo (in base al fatto che le sedi storiche delle lingue progressivamente identificate come indoeuropee vanno dal subcontinente indiano all’Iran e a quasi tutta l’Europa). Ciò detto, però, va anche precisato che i metodi sviluppati nella ricostruzione indoeuropea possono essere (e lo sono effettivamente) fruttuosamente applicati allo studio di qualunque altra famiglia linguistica, come la famiglia semitica, quella uralo-altaica e così via.

Come nasce e si sviluppa la linguistica storica?
Data convenzionale per la nascita della linguistica storica è il 1786, anno in cui sir W. Jones, alto funzionario dell’inglese Compagnia delle Indie, tiene a Calcutta una conferenza nella quale, sulla base di corrispondenze specifiche fra, soprattutto, latino, greco e sanscrito, per primo avanza l’idea che queste tre lingue, assieme ad alcune altre, possano discendere da un più antico e comune antenato (v. anche punto precedente). La nascita della linguistica storica si colloca all’intersezione di più fattori, fra i quali si possono ricordare: i) l’espansione coloniale degli europei, che porta questi ultimi a contatto con le lingue più disparate e più lontane; ii) l’atteggiamento scientifico (se vogliamo, la descrizione scientificamente moderna del mondo) che, nel corso del Settecento, si era sviluppato con l’illuminismo; iii) il successivo, tra fine Settecento e Ottocento, movimento romantico, che, fra le altre cose, risveglia il gusto per l’esotico e il remoto e promuove lo studio delle civiltà orientali e, di conseguenza, delle lingue (sanscrito e persiano fra le altre) che sono espressione di tali civiltà; iv) la scoperta davvero sorprendente che, in qualche caso, lingue parlate a migliaia di chilometri dall’Europa (come, in particolare, il sanscrito in India), vale a dire lingue che tutto avrebbe indotto a credere ben diverse da quelle europee, viste più da vicino rivelano invece somiglianze singolari con le lingue europee, a cominciare dal greco e dal latino.

Nel corso dell’Ottocento, e soprattutto (anche se non solo) nelle università tedesche, la linguistica storica affina strumenti e metodologie ispirandosi patentemente alle scienze naturali: anzi, le lingue stesse sono considerate fenomeni non socio-storici ma, appunto, naturali, ossia fenomeni su cui l’uomo non può intervenire ma che può solo subire (l’uomo, si dice, non avrebbe più possibilità di modificare la propria lingua di quante ne abbia l’usignolo di modificare il suo canto); e che operano secondo leggi specifiche e, nella sostanza, senza eccezioni, analogamente alle leggi che descrivono i fenomeni naturali. Il tutto è chiaramente un’esagerazione; ma il fatto è che la nuova disciplina ha bisogno in primo luogo di prendere nettamente le distanze dalle astruserie linguistiche arrivate dall’antichità e fiorite durante il medioevo (e fino in età moderna), come quella che faceva venire il latino canis ‘cane’ a non canendo, dal fatto, in altre parole, che il cane non canta, o quella che spiegava lat. flos ‘fiore’ come acrostico dell’espressione fundens late odorem suum ‘che sparge tutt’intorno il suo profumo’. Il severo apprendistato scientifico produce i suoi frutti; e se le posizioni “naturalistiche” (la lingua opera al di fuori dell’uomo) vengono un po’ alla volta abbandonate; in cambio, la geografia linguistica (cioè lo studio delle lingue e delle caratteristiche linguistiche in relazione al territorio – semplificando, possiamo dire che la geografia linguistica nasce con l’Atlas Linguistique de la France di J. Gilliéron, pubblicato fra il 1902 e il 1910), introduce nella nuova disciplina la dimensione spaziale, con le implicazioni anche sociolinguistiche sottese: lingua del centro versus lingua delle periferie (campagna, montagna, isole…), lingua come viene parlata nella sede originaria versus lingua come viene parlata nei luoghi di immigrazione, dialettica fra innovazione ed arcaismo all’interno dello stesso gruppo (è noto che, negli atlanti linguistici, quando, nello stesso punto e per la stessa domanda, troviamo due risposte, la seconda è di norma la forma più vecchia, quella che sta uscendo o è già uscita dall’uso: a domanda, infatti, di solito l’informatore risponde con la forma più usuale, salvo poi “recuperare”, quando c’è, la forma usata dalla generazione precedente e simili).

Nel corso del Novecento, poi, la linguistica storica raggiunge forse la sua auge e si apre a ventaglio in tutta una serie di specifiche discipline.

Come si definisce la parentela linguistica?
Per motivi che risulteranno chiari dopo, cominciamo col dire che gli elementi che meno di tutti in assoluto si prestano a essere trasferiti da una lingua all’altra (cioè a essere dati o presi in prestito) sono le marche morfologiche, vale a dire gli elementi che veicolano le informazioni grammaticali; e il motivo è presto detto: le marche morfologiche “non funzionano” al di fuori della lingua della quale fanno parte.

Qualche esempio, qui parecchio semplificato (e, sempre per semplicità, desunto da lingue la cui parentela non è in discussione). In italiano, –o in tanto è morfema di maschile singolare in quanto si oppone a –i, che è il morfema di maschile plurale (oltre ad opporsi ad –a, morfema di femminile singolare, e ad –e, morfema di femminile plurale); sennonché, –o e –i funzionano come indicatori (grammaticali) di genere (m.) e numero (pl.) appunto in italiano, ma non, ad esempio, in francese (dove, indipendentemente dal genere, l’opposizione fra sg. e pl. è veicolata da una marca morfologica, o morfema, di plurale –s, che, fra l’altro, le più volte non si pronuncia neppure: ami sg. ‘amico’ ~ amis pl. ‘amici’) o in spagnolo (dove l’opposizione fra m.sg. e m.pl. è veicolata da un morfema di plurale –(e)s: amigo ‘amico’ ~ amigos ‘amici’, césped ‘prato’ sg. ~ cespedes ‘prati’ pl.). Conseguenza: quando l’it. panini, che nella lingua di partenza è un m.pl., entra in francese, non viene “riconosciuto” come plurale (la –i di plurale italiano, in francese “non dice nulla”) ma, considerato un singolare (come ad es. ami ‘amico’ o mari ‘marito’), viene pluralizzato, “alla francese”, con –s: les paninis ‘i panini’ (~ le panini ‘il panino’). Per converso, quando lo spagnolismo murales entra in italiano, il parlante italiano non “si rende conto” che murales è in realtà il pl. sp. di murál ‘dipinto realizzato su un’ampia superficie in muratura’ (murál sg. ~ murales pl.) e lo assume come singolare (il o un murales), che resta invariato al pl. (murales). Non troppo diversamente, prendendo in prestito l’it. pizza, il tedesco lo intende, sì, come singolare (ted. Pizza), ma quando lo deve volgere al plurale, non lo pluralizza, “all’italiana”, come *Pizze (il tedesco “ignora” infatti che il morfema di f.pl. più usato in italiano è –e) ma come Pizzas, cioè con una –s che è il morfema di plurale riservato dal tedesco ai prestiti da altre lingue. Conseguenza: se due lingue condividono una fetta più o meno ampia di morfologia, è assai difficile che questa fetta se la siano fornita a vicenda (di solito, non si prende in prestito da un’altra lingua un elemento di cui si ignora la funzione): assai più probabile è che, indipendentemente l’una dall’altra, le due lingue abbiano ereditato la morfologia che hanno in comune da una terza lingua più a monte, configurabile come loro lingua-madre (o, in ogni caso, come lingua antenata), dalla quale discendendo le prime due non possono che essere lingue fra loro imparentate. Esempio: il confronto fra aiuto (italiano) ~ ajut (rumeno), aiuti ~ ajuţi, aiuta ~ ajută, e aiutiamo ~ ajutăm, aiutate ~ ajutaţi, aiutano ~ ajută (presente indicativo di aiutare ~ a ajuta) fa cogliere, pur sotto qualche differenza, la sostanziale identità dei morfemi italiani e rumeni di presente indicativo; e siccome non c’è nessuna dimostrabile possibilità che i morfemi siano passati dall’italiano al rumeno o viceversa, dobbiamo concludere che i morfemi italiani e quelli rumeni derivano da una fonte comune più a monte (nel nostro caso: il latino, nel quale abbiamo adiuto, adiutas, adiutat, adiutamus, adiutatis, adiutant) – alla resa dei conti, ciò significa che italiano e rumeno, condividendo la stessa origine, sono lingue imparentate.

La “prova del nove” della parentela linguistica, dunque, è data dal fatto che due o più lingue condividano un certo numero di marche morfologiche (= elementi che veicolano informazioni grammaticali). Occorre però far bene attenzione: abbastanza spesso, l’identità dei morfemi in due o più lingue diverse (ma imparentate) non si coglie a prima vista perché lo stesso punto di partenza fornito dalla lingua madre, nelle lingue figlie può aver seguito trafile evolutive diverse. Il confronto fra ad es. it. –ato, morfema di participio passato (it. parlato), e francese –é, morfema con uguale valore (fr. emboîté ‘incastrato’) a prima vista potrebbe far pensare che i due morfemi, i quali all’apparenza non hanno nulla in comune, siano del tutto diversi; e invece, è proprio l’opposto. Per appurarlo, però, dobbiamo partire da alcune premesse. Quando si decide di confrontare la morfologia di due lingue diverse allo scopo di appurare se queste sono imparentate, non si prendono due lingue a caso (come, poniamo, l’italiano e l’eschimese, che, a parte iglù, voce di origine eschimese appunto, non hanno nulla in comune) ma si prendono due lingue che abbiano già una certa quale “aria di famiglia”, ovvero che condividano una più o meno alta percentuale di lessico. In un confronto a due fra italiano e francese, l’aria di famiglia è data certo da corrispondenze quali it. fortuna ~ fr. fortune, it. contento ~ fr. content, it. porta ~ fr. porte…; ma anche, ad es., da corrispondenze quali it. ruota ~ fr. roue, it. catena ~ fr. chaîne, it. vita ~ fr. vie…, che fanno vedere come a una –t– intervocalica dell’italiano il francese risponda sistematicamente con zero, con la caduta cioè di –t-; o anche, da corrispondenze quali ad es. it. mare ~ fr. mer, it. naso ~ fr. nez, it. portare ~ fr. porter…, che fanno vedere come a una –– accentata e in sillaba aperta (= sillaba che finisce per vocale, ossia non chiusa da una “coda” consonantica come invece la sillaba accentata di it. par.te) dell’italiano, il francese risponda sistematicamente con –e– accentata. Già questi casi di corrispondenza “nascosta” (“nascosta”, nel senso che se in contento ~ content o porta ~ porte si ha ad es. –nt– o –rt– tanto in italiano quanto in francese, nel caso invece di ruota ~ roue, a –t– dell’italiano risponde zero in francese; e nel caso di naso ~ nez, a –a– dell’italiano risponde –e– in francese – le corrispondenze sono meno evidenti o, se vogliamo, “vanno cercate”) sono indicativi di una parentela delle due lingue. In effetti, nel caso di fortuna ~ fortune non sarebbe di per sé impossibile vedere in fortune un prestito da fortuna o in fortuna un prestito da fortune; ma nel caso di ruota ~ roue non può trattarsi di prestito reciproco: se ruota venisse da roue, non si vede da dove l’italiano avrebbe preso la –t-; se roue venisse da ruota, non si vede perché il francese avrebbe perso la –t– (lo stesso, più o meno, con mare ~ mer ecc.: non si vede come, in caso di prestito, la –e– accentata del francese sarebbe dovuta diventare –a– in italiano, o viceversa). La cosa più ragionevole è allora che it. ruota e fr. roue (e it. catena ~ fr. chaîne, it. vita ~ fr. vie ecc.) siano sviluppi reciprocamente indipendenti di uno stesso punto di partenza: sviluppi nel corso dei quali mentre l’italiano conserva in genere la –t-, il francese in genere la perde; e che it. mare e fr. mer siano sviluppi reciprocamente indipendenti di uno stesso punto di partenza: sviluppi nel corso dei quali mentre l’italiano conserva sistematicamente la –a– (in sillaba aperta), il francese altrettanto sistematicamente la modifica in –e– (la conoscenza che per fortuna abbiamo del latino ci assicura che le cose stanno davvero in questo modo: it. ruota / fr. roue < lat. ROTA, it. catena / fr. chaîne < lat. CATĒNA. it. vita / fr. vie < lat. VĪTA ecc.; più o meno lo stesso con it. mare / fr. mer < lat. MA.RE, it. naso ~ fr. nez < lat. NA.SU it. portare ~ fr. porter < lat. PORTĀ.RE ecc. – il punto in basso indica il confine sillabico). Se a questo punto torniamo a it. parlato e fr. emboîté, avendo a mente le corrispondenze viste sopra possiamo legittimamente sospettare che il fr. –é di emboîté corrisponde esattamente a it. –ato di parlato (ciò che il latino conferma: it. –ato e fr. –é sono ambedue da lat. -ĀTU); e questa congruenza morfologica (assieme ad altre congruenze morfologiche qui non prese in considerazione) è la conferma definitiva della parentela di italiano e francese.

Come mutano le lingue nel tempo?
Intanto, cominciamo col dire che i mutamenti (che possono darsi a ogni livello linguistico: da quello fonetico/fonologico, a quello morfologico, a quello sintattico e a quello lessicale) possono essere descritti una volta che si siano verificati ma non possono essere previsti.

Il livello più esposto al mutamento è quello lessicale: le parole riflettono le condizioni latamente socio-culturali e variano (cadono in disuso o se ne formano di nuove) con estrema facilità al variare di queste. È probabile ad es. che, in questi anni ’20 del I secolo del III millennio, si sia alquanto sbiadita, o si stia sbiadendo, la fortissima valenza politica che, nella seconda metà del Novecento, ha accompagnato le due voci camerata m. ‘appartenente al partito fascista o ad organizzazioni estremiste di destra’ e compagno ‘appartenente al partito comunista o ad organizzazioni estremiste di sinistra’; e di sicuro (passando a un altro settore) non si dice più mongoloide per dire ‘affetto dalla sindrome di Down’ ma si dice o down (con ellissi di “sindrome di” e passaggio dal nome proprio [Down, il cognome del medico inglese che nell’Ottocento descrisse questa anomalia cromosomica] al nome comune) o, se proprio, diversamente abile. Difficile poi che il parlante “italiano qualunque” non si renda conto della marea di anglicismi, o meglio di anglo-americanismi, che, a partire dalla seconda metà del Novecento in poi, sono arrivati e continuano ad arrivare in italiano (si pensi a lockdown per ‘confinamento in casa; coprifuoco’ degli anni del Covid; per non parlare della terminologia informatica e telematica) in conseguenza della superiorità tecnologica e non solo degli Stati Uniti. In modo in fondo non troppo diverso, il passaggio dalla religione pagana a quella cristiana ha a suo tempo introdotto nel latino tutta una serie di grecismi (il greco essendo stato la prima lingua di evangelizzazione), a cominciare da baptizāre ‘battezzare’ (gr. baptízō) e chrīsma ‘cresima’ (gr. khrĩsma).

Il livello meno facilmente rinnovabile è invece quello morfologico (v. anche al punto 3): l’italiano attuale, ad esempio, ha (più o meno) le stesse marche morfologiche (o morfemi) che usava Dante; e anche se Dante usa, mettiamo, castella f.pl. (delle castella, Inf. 33, 86) invece di castelli m.pl., il moderno castello m. avrà perso, sì, la possibilità di avere il pl. castella f. (diversamente da, mettiamo, cervello, che può avere ancora il pl. cervella), ma non è cambiata la marca morfologica di f.pl. in –a, proprio di una ristretta categoria di maschili in –o dell’italiano: labbro ~ labbra ecc. In modo non troppo diverso, restando invariato al f. (la presidente), il m. presidente sta perdendo la combinabilità col suffisso tipicamente “femminilizzante” –essa (dottore m. ~ dottoressa f.) ma sfrutta pur sempre una risorsa morfologica tradizionale dell’italiano, che è quella, almeno in certi casi, di non differenziare superficialmente il m. dal f. (ad es., il giornalista ~ la giornalista). E anche i forestierismi non integrati (non adattati, cioè, alle strutture morfologiche dell’italiano), che restano invariati al plurale (il film ~ i film come il wireless ~ i wireless ecc.), non fanno che incrementare una possibilità già presente nell’italiano, nel quale i sostantivi ossitoni (accentati cioè sull’ultima vocale) restano invariati: il / i re, la / le virtù ecc.

Come che sia, fattore di primaria importanza (secondo alcuni, anzi, unico fattore) del mutamento linguistico è il contatto di una lingua con altre lingue. Da questo punto di vista, il caso dell’italiano è esemplare. Per secoli, quanto meno fino all’unità d’Italia (1861), l’italiano, a base fiorentina trecentesca, è rimasto una lingua sostanzialmente “immobile” e uguale a se stessa perché, se veniva regolarmente usato nello scritto, non era però usato come lingua parlata (a livello di parlato si usavano di norma i vari dialetti). A partire dall’unità, invece, poco alla volta l’italiano, oltre a restare (ovvio) la lingua scritta, diventa anche la lingua effettivamente parlata della nuova nazione; ma in questo modo viene fatto proprio da un numero sempre più ampio di nuovi parlanti i quali si portano dietro, nel nuovo uso orale della lingua, tutta una serie di caratteristiche (fonetiche ma, ad esempio, anche sintattiche) dei dialetti d’origine. Il risultato è un italiano piuttosto differenziato su base geografica (e del quale ci rendiamo tutti conto): vedi le é e le accentate e chiuse (come in séra o girno) di quello che dovrebbe essere lo standard, articolate invece aperte o apertissime (sèra, giòrno) ad es. a Palermo e in genere in Sicilia; o i dittonghi e , con le è e le ò aperte in quello che dovrebbe essere lo standard (pde, bno), articolate invece chiuse (pde, buóno) a Napoli e, in genere, nella Campania; o vedi i suoni š (quello di lasciare) o ń (quello di bagnare), realizzati forti o doppi nello standard (ossia, laššare e bańńare), e realizzati invece deboli, ossia scempi (lašare e bańare), ad es. a Torino e in gran parte del nord d’Italia; o vedi ancora, mettiamo in Abruzzo, costruzioni del tipo lo sto a dire, lo sto a fare invece dello standard lo dico, lo faccio; o, nel Salento, l’uso o meno del clitico personale (il latte, non me lo bevo ~ il latte, non lo bevo) per differenziare l’azione puntuale (il latte, non me lo bevo = in questo momento, non mi va di bere il bicchiere di latte che ho davanti) dall’azione abituale (senza clitico personale: il latte, non lo bevo = di norma non bevo il latte [perché non mi piace, o perché sono intollerante o simili]).

Quali corrispondenze fonologiche esistono tra lingue indoeuropee?
L’elenco delle corrispondenze potrebbe riempire interi volumi: in effetti, lo stesso suono di partenza (quello cioè che postuliamo per l’indoeuropeo; mettiamo, x0) può dare x1 nella L(ingua)1, x2 nella L2, x3 nella L3 e così via, senza trascurare che, a seconda delle lingue, lo stesso suono di partenza può dare anche due, se non di più, esiti diversi nella stessa lingua. Qualche esempio. In latino, da una *d originaria (cioè indoeuropea), abbiamo solitamente d ma in certi casi possiamo avere esito l: così od-or sostantivo ‘odore’ (cfr. greco od-mā́ / od-mḗ ‘id.’) ma ol-ēre verbo ‘avere odore’; e da una *s originaria abbiamo s in posizione non-intervocalica (v. flōs ‘fiore’, dove la s è in posizione finale) ma –r– in posizione intervocalica (v. flōrēs ‘fiori’, dove la –s di flōs, seguita dalla –e- di –ēs, è passata a –r-; ma la s finale di –ēs rimane –s). In greco, una *s originaria (indoeuropea) resta s se in posizione anteconsonantica (cioè davanti a consonante) o in posizione finale, ad es. gr. statós ‘stazionario; rinchiuso’ (corrispettivo del lat. status), ma diventa fricativa laringale, h (come quella che si trova nella parola inglese home ‘casa’) se in posizione iniziale di parola davanti a vocale (cfr. gr. heks ‘sei’ = lat. sex, numerale) o anche davanti a r– (gr. hréō ‘scorrere’, dalla stessa radice che, in inglese, ha dato stream ‘corrente’) e si azzera del tutto (*s > *h > zero), cioè cade, all’interno di parola fra due vocali (cfr. gr. geustós ‘che può essere gustato’ [g velare, come in it. ghermire], con s intatto perché in posizione anteconsonantica, ma géuomai ‘gustare’ da un più antico *géusomai, con caduta di s intervocalico; cfr. anche lat. gustus ‘gusto’ e gustāre ‘gustare’, con s intatto, cioè non mutato in r, perché anteconsonantico).

Come che sia e a un livello più generale: la partizione più nota delle lingue indoeuropee si basa sul diverso esito delle occlusive velari indoeuropee (cioè *k, *g, *gh). Per semplicità considerando qui i soli esiti di *k (e semplificando sensibilmente i dati, senza però falsarli), le lingue indoeuropee si dividono in due grandi gruppi, le lingue cosiddette centum (da centum, numerale latino per ‘100’, che i latini articolavano però kentum, come ancor oggi nel sardo logudorese, kéntu), nelle quali le velari indoeuropee restano velari, e le lingue cosiddette satem (satem è il corrispettivo in avestico, una antica lingua iranica, del lat. centum), nelle quali invece le articolazioni velari si anteriorizzano indipendentemente dal contesto e, ad es., l’articolazione velare, *k, passa per lo più o a s o a š: cfr., da indoeuropeo *déḱm̥(t), lat. decem ‘10’ (articolato dékem, come ancora oggi nel logudorese dèke), antico irlandese deich, gotico taíhun (aí = e; h = fricativa, non occlusiva, ma velare, come lo è k; il gotico è la lingua germanica più anticamente attestata, IV s.d.C., e dunque quella che conserva meglio le condizioni germaniche originarie – l’inglese ten, ad es., si presenta più evoluto e, per dir così, meno “riconoscibile” rispetto al punto di partenza indoeuropeo), greco déka ecc. (tutte lingue centum) da una parte, e lituano déšimt, russo djésjat’, armeno tasn, sanscrito dáša ecc. (tutte lingue satem) dall’altra. Il confine fra lingue centum (a ovest) e lingue satem (a est) passa sostanzialmente in Europa: lingue centum sono le lingue celtiche (con l’irlandese in prima fila), il latino con le lingue romanze, le lingue germaniche (a cominciare da inglese e tedesco), il greco; lingue satem sono le lingue baltiche (con ad es. il lituano), le lingue slave (fra cui, russo e ucraino e, ai confini italiani, sloveno e croato), l’albanese, l’armeno, le lingue iraniche e le lingue indiane. Lingue centum, però, erano anche l’ittita, parlato nel II millennio a.C. nell’attuale Turchia, e, all’estremo est del dominio indoeuropeo, le due lingue tocarie, parlate fra metà e fine del I millennio d.C. nell’area dell’attuale Sinkiang cinese.

Quali sono i principali modelli per l’interpretazione del mutamento linguistico?
Domanda complicata, di non facile e, se volessimo andare in profondità, neppur breve risposta, perché il mutamento (v. anche il punto 4) è di per sé sostanzialmente imprevedibile: si può interpretare quello che è già successo ma non si possono fare previsioni. Limitiamoci a dire qui che, in linea di massima, il mutamento è in costante equilibrio sul sottile discrimine fra memoria dichiarativa (= tutto quello che, non potendolo produrre in automatico, il parlante deve necessariamente immagazzinare e memorizzare) e memoria procedurale (= l’insieme delle regole che permettono invece la produzione automatica delle forme da usare).

Con un esempio: nel napoletano e nei dialetti di tipo campano e genericamente alto-meridionale (lucani, pugliesi abruzzesi) il parlante deve immagazzinare alternanze (qui presentate in maniera semplificata) del tipo véio bevo / egli beve’ ~ vtu bevi’, méttəio metto / egli mette’ ~ mttətu metti’ e krrəio corro / egli corre’ ~ krrətu corri’, rmbəio rompo / egli rompe’ ~ rmbə ‘tu rompi’ – ma deve immagazzinare anche casi come rðə ‘io rido / egli ride’ = rðə ‘tu ridi’ e kyðə ‘io chiudo / egli chiude’ = kyðə ‘tu chiudi’ (e qui siamo nell’ambito della memoria dichiarativa). Si badi: dal punto di vista storico, queste alternanze (per cui in certi casi alla é accentata e alla accentata di 1a/3a persona sg. si oppongono la e la accentate della 2a persona sg.; e in certi altri abbiamo oppure in tutte e tre le persone singolari) non sono un “capriccio” dei dialetti ma hanno una loro precisa spiegazione (sulla quale, tuttavia, per semplicità non ci soffermeremo) a partire dallo status latino; ma il parlante “non sa più” perché nel caso di ‘bere’ c’è alternanza ~ (o, nel caso di ‘correre’, c’è alternanza ~ ) a seconda delle persone verbali, e invece, nel caso di ‘ridere’ (o ‘chiudere’), non c’è nessuna alternanza. È chiaro che qui la memoria dichiarativa (cioè quella che immagazzina i dati così come sono) deve fare uno sforzo per tenere distinti i casi con alternanza (‘bere’ / ‘mettere’ e ‘correre’ / ‘rompere’) dai casi senza alternanza (‘ridere’ e ‘chiudere’); e siccome ogni sforzo costa fatica, ecco che, a “sistemare” le cose, interviene la memoria procedurale (quella cioè che “crea” le regole per la produzione automatica delle forme). Nel caso di ‘bere’ / ‘mettere’ e ‘correre’ / ‘rompere’ abbiamo alternanza ~ e ~ ? Ebbene: “trasportiamo” quest’alternanza anche ai casi come ‘ridere’ e ‘chiudere’ (rðə ‘io rido / egli ride’ = rðə ‘tu ridi’ > réðə ‘io rido / egli ride’ ~ rðə ‘tu ridi’; kyðə ‘io chiudo / egli chiude’ = kyðə ‘tu chiudi’ > kyðə ‘io chiudo / egli chiude’ ~ kyðə ‘tu chiudi’: che è esattamente ciò che hanno fatto certi dialetti) e così evitiamo di avere forme alternanti e forme non alternanti, in altri termini: se la seconda persona ha oppure sotto accento, allora la prima e la terza devono avere automaticamente e . Il problema, semmai, è che mentre alcuni dialetti hanno semplificato le cose nel modo descritto sopra, altri non lo hanno fatto e continuano ad avere casi di alternanza ~ (e ~ ) a seconda delle persone, e casi in cui compare solo (o solo ) in tutte e tre le persone: di nuovo, i mutamenti sono impredicibili e, nello studiarli, non si può fare altro che tenere nel dovuto conto tale imprevedibilità.

In che modo i dati linguistici consentono di ricostruire il quadro ambientale, sociale, culturale degli indoeuropei?
All’indoeuropeo attribuiamo con ragionevole grado di certezza i nomi ad es. per ‘cavallo’ (*ékwos / *éḱwos), ‘bue’ (*gwṓus) e ‘pecora’ (*ówis) sulla base del fatto che nella maggioranza delle lingue indoeuropee, soprattutto in quelle di più antica attestazione, troviamo continuatori, appunto, dei ricostruiti *ékwos / *éḱwos (lat. equus, gr. híppos, sanscrito ašvaḥ, avestico aspo, irlandese ech, gotico aihwa– nei composti…), *gwṓus (lat. bōs, gr. boús, sanscrito gauḥ, ted. Kuh, ingl. cow, irl. antico …), * ówis (lat. ovis, gr. ó(w)is, sanscrito áviḥ, irl.ant. oi, anglosassone ēowu, russo ovtsá…). Se invece cerchiamo la parola indoeuropea per ‘mare’, non siamo altrettanto fortunati: le lingue indoeuropee, infatti, invece di convergere verso una denominazione unica, procedono in ordine sparso, presentando una serie di voci disparate: in un gruppo di lingue europee, troviamo il tipo rappresentato in latino da mare (cfr. irlandese muir, got. marei, ted. Meer, russo more), tipo che però, in origine, doveva indicare piuttosto una superficie d’acqua più o meno grande (lago, palude) ma chiusa; nelle lingue germaniche, per altro, troviamo anche tedesco See d’accordo con olandese zee e con inglese sea, tipo linguistico comunemente giudicato non indoeuropeo; il greco ha θálassa (anch’esso tipo non indoeuropeo) o anche pélagos (da una base indoeuropea che però voleva dire ‘distesa aperta’; passato in latino come pelagus); l’albanese ha deti e così via.

Soltanto un caso? Difficile. Se si ricostruiscono le basi indoeuropee per ‘cavallo’, ‘bue’, ‘pecora’ ma non si riesce a ricostruire la base indoeuropea per ‘mare’, ciò suggerisce (pur con le necessarie cautele!) che gli indoeuropei dovevano avere familiarità con i cavalli, i buoi, le pecore ma non col mare, che probabilmente, anzi, non conoscevano – tant’è che quando i vari gruppi indoeuropei sono arrivati al mare e hanno dovuto denominarlo o hanno utilizzato voci di origine indoeuropea che però, inizialmente, designavano altro (ad es., ‘distesa di acqua chiusa’ > ‘mare’) o hanno preso in prestito le denominazioni del mare (See / sea; θálassa) da altre lingue, non indoeuropee. Ma se le cose stanno in questi termini, qualcosa, degli indoeuropei, cominciamo a intravedere: ad es., che andavano a cavallo (ciò che, al tempo degli indoeuropei ancora uniti, cioè non dopo l’inizio del III millennio a.C., non era affatto scontato); che dovevano essere allevatori; che dovevano abitare, in origine, un’area lontana dal mare: dunque, verosimilmente, le steppe euro-asiatiche, ossia aree sostanzialmente fredde. La conferma che la patria d’origine degli indoeuropei dovesse essere a clima freddo viene dal fatto che ad es. in latino e in greco i nomi delle tipiche piante mediterranee, cioè delle piante proprie dei climi temperati o temperato-caldi, sono dimostrabilmente di origine non-indoeuropea: lat. līlium e gr. léjrion ‘giglio’, lat. rosa e gr. hródon / (v)ródon ‘rosa’, lat. cupressus e gr. kypárissos ‘cipresso’, lat. fīcus e gr. sỹkon / tỹkon ‘fico’, lat. pampinus ‘foglia di vite’ / gr. ámpelos ‘vite’ (ma il lat. vītis ‘vite’ è parola indoeuropea, da una radice che vuol dire ‘intrecciare’ e simili, cfr. lat. vieō ‘intrecciare’, e in origine indicava il ‘viticcio’, da cui, per metonimia, ‘pianta dei viticci’ > ‘vite’), gr. elája ‘(albero di) oliva’ / élaj(w)on ‘olio’ > lat. olīva / oleum ecc.

Quanto detto sopra è una esemplificazione del metodo lessicalistico, cioè dell’uso che si può fare delle parole per ricostruire l’ambiente originario e le attività degli indoeuropei – metodo, tuttavia, non esente da concrete possibilità di equivoci. È un dato di fatto che, come nel caso di ‘mare’, così anche nel caso della terminologia funeraria non siamo in grado di ricostruire un lessico attribuibile all’indoeuropeo (anche in questo caso le lingue indoeuropee vanno in ordine sparso); e da questa circostanza si è voluto ricavare che gli indoeuropei devono essersi separati prima del sorgere del culto dei morti. Ma, a parte che il culto dei morti ha non meno di 100.000 anni e dunque gli indoeuropei si sarebbero separati più di 100.000 anni fa (che è data spropositatamente alta), va considerato che la morte, e tutto quello che alla morte è collegato, è soggetto di solito a tabù linguistico (non si nomina, o si nomina con sostituti eufemistici, ciò di cui si ha paura) e, di conseguenza, è esposto a un tasso altissimo di rinnovamento lessicale (per dire: quanti italòfoni, oggi, adoperano senza batter ciglio la voce bara o la voce cassa da morto? e quanti invece preferiscono il meno impressionante sostituto còfano?). Insomma: in questo caso specifico, l’assenza di una terminologia funeraria che sia comune alla maggior parte delle lingue indoeuropee (e sia dunque di età indoeuropea) non vuol dire che gli indoeuropei si sono separati prima ancora che l’homo sapiens cominciasse a onorare i suoi morti ma vuol dire semplicemente che l’argomento funerario è di quelli da fare gli scongiuri – e a forza di scongiuri il lessico coinvolto si è rinnovato in continuazione.

Al metodo lessicalistico si affianca poi (ed è più sicuro) il metodo testuale: vale a dire, si cercano, nei testi delle varie letterature (greca, latina, sanscrita, celtica…), possibili concordanze sulla “visione del mondo” dei relativi parlanti. Mettendo insieme, ad esempio, rarissimi passi delle letterature irlandese, greca e sanscrita, si arriva a ricostruire un quadro in cui l’uomo / il marito è assimilato al toro, la donna / la moglie è assimilata alla vacca, i giovani sono assimilati ai giovenchi / alle giovenche. Ma un quadro in cui gli umani sono assimilati ai bovini si capisce bene in una società di allevatori e conferma quanto (v. sopra), degli indoeuropei, si deduce in base al modello lessicalistico.

Franco Fanciullo ha insegnato Glottologia, Linguistica generale e Dialettologia nelle Università di Potenza, Viterbo, Torino e Pisa. Dirige la rivista «L’Italia Dialettale». Tra i suoi libri più recenti, Prima lezione di dialettologia (Laterza, 2015).

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