
In conclusione di questa domanda vorrei comunque ricordare che non c’è società umana che non sia in qualche misura una società dell’informazione, cioè una società in cui l’informazione permette di operare sulla realtà fisica. Carlo Ginzburg (Spie. Radici di un paradigma indiziario, 1979) ci ricorda che ‘perfino’ un gruppo di cacciatori paleolitici, quando uno di loro vede certe cose che interpreta come segni della traccia di un bisonte, deve condividere qualche tipo o forma di informazione per poter operare, cioè per costituire un gruppo che si metta alla caccia del bisonte dividendosi i compiti in funzione degli spazi. Nella società dell’informazione in cui viviamo questo ruolo dell’informazione si è enormemente sviluppato.
Quale importanza riveste nella società attuale l’information literacy?
In parte vi ho già accennato nella risposta precedente, perché io credo che sia impossibile dire che cos’è l’information literacy se non si tiene conto in modo appropriato del fatto che noi viviamo nella società dell’informazione e che quindi tra le due (information literacy e vita nella società dell’informazione) c’è una corrispondenza stretta: come saper condurre una piroga se siamo Polinesiani. L’importanza è grandissima. Ci troviamo come cittadini e come società sempre più di fronte a scelte complesse che implicano il possesso di informazioni precise e di qualità. Nessuno conosce tutto e quindi le informazioni devono di volta in volta essere individuate, cercate, valutate, usate. Per riuscirci occorrono criteri, metodi e strumenti che si possono apprendere e che costituiscono un nucleo portante dell’information literacy. Ma anche come individui, ognuno nei suoi contesti, abbiamo bisogno di percorsi formativi che ci mettano in condizione ogni volta che lo vogliamo, o ne abbiamo bisogno, di verificare una notizia. Tutto ciò che è in rete può essere analizzato e verificato ricostruendo la rete delle connessioni di senso di cui fa parte – e a questo proposto dobbiamo ricordare che quello che vien spesso chiamato “sovraccarico informativo”, “diluvio informativo”, è in realtà l’enorme abbondanza informativa che con l’information literacy diventiamo capaci di utilizzare in modo mirato. Verificare una notizia, dicevamo; o acquisire informazioni sugli ambiti più disparati, perché c’è un’enorme asimmetria informativa tra mondo fisico e mondo digitale, con il mondo digitale che trabocca di informazione riguardante il mondo fisico. E questo dà luogo ad un nuovo digital divide, legato non più tanto al possesso dei dispositivi (che rimane, ma riguarda soprattutto gli anziani di condizione socio-culturale-economica disagiata) quanto all’essere usati dai dispositivi che si possiedono, che fungono da collettori/aspiratori di informazioni personali e da distributori di propaganda (Facebook docet; ma ‘Google’ opera con la medesima logica), e al non saperli usare come porte di accesso all’informazione che serve, all’informazione affidabile.
In che modo i vari percorsi di formazione sono chiamati a costruire tali competenze?
Nel libro scrivo che l’alfabetizzazione di base, quella che si acquisisce nella scuola elementare (e che poi continua almeno fino al termine del percorso di scuola/università), centrata sulla scrittura e sulla stampa, è la base indispensabile dell’information literacy; e che come l’alfabetizzazione di base permette di essere attivi nel mondo fisico, occorre un’alfabetizzazione 2.0 centrata sull’information literacy che renda capaci di operare muovendosi tra mondo fisico e mondo digitale (in)seguendo e trovando l’informazione là dove essa si trova.
Un’alfabetizzazione 2.0 che riguarda anch’essa la scuola. La scuola è il luogo dove tutti imparano per teoria e per esperienza che il libro è il deposito dell’informazione: sui librI si studia per apprendere ciò che non si sa. Oggi però l’informazione circola tra fonti a stampa e fonti digitali, la scuola percepisce la necessità di ampliare l’orizzonte delle fonti di informazione proprio per formare persone che si trovino a loro agio operando sia con l’informazione che si trova nel mondo fisico sia con quella del mondo digitale. Ma mentre la formazione all’informazione che si trova nel mondo fisico, nella stampa, si attua attraverso percorsi che si sono lentamente costruiti nei secoli e consolidati, la formazione all’informazione digitale e all’integrazione delle due si trova invece ad inseguire, spesso senza un piano di medio/lungo termine, gli sviluppi del mondo digitale. Credo dunque che occorra introdurre l’information literacy nei normali percorsi formativi della scuola. Non sarebbe un aggravio ma un concepire in modo (come si diceva), organico, sistemico con prospettive di medio lungo periodo ciò che spesso si fa in modo frammentato e mosso da urgenze specifiche. Poi certo si possono formare all’information literacy gli studenti dell’università, e le aziende lo potrebbero fare per i loro dipendenti. Ma si deve agire sia localmente, dove un bisogno specifico di information literacy emerge, sia globalmente nel percorso scolastico complessivo. A partire dalla scuola media.
Nel mondo digitale tutti possiamo diventare autori di contenuti, oltreché consumatori: quale responsabilità ne deriva, per i singoli e per la società nel suo insieme?
Essere autore è una responsabilità. Già la legge sul diritto d’autore, promulgata nel lontano 1941, lo riconosce. Oggi ancor di più è una responsabilità. Si torna sempre a ciò che scrisse Zurkowski: “sempre più eventi e prodotti dell’esistenza umana sono gestiti per mezzo dei loro equivalenti informativi”. Quando noi creiamo un profilo social, quel profilo in quel social siamo noi nel mondo digitale: quel profilo è l’equivalente informativo di una realtà del mondo fisico. Chi ferisce o maltratta ‘il profilo’ ferisce o maltratta la persona che vi è rappresentata digitalmente. Non occorre qui ricordare le vicende anche tragiche che testimoniano di questa connessione. Produrre contenuti informativi e poi pubblicarli (a quel punto si palesa che si è autori) è una grande responsabilità. Si è autori, ma in una forma subdolamente depotenziata quando si ripubblica (quando si condivide) qualcosa che altri hanno prodotto. Subdolamente depotenziata perché rilanciare un contenuto prodotto da altri pare qualcosa di quasi irrilevante, che non comporta responsabilità, che si fa senza nemmeno pensarci troppo; ma in realtà per tutti quelli con cui lo si condivide si è autori/iniziatori di quel contenuto che si è condiviso. Occorre invece pensare ad essere compiutamente autori producendo e pubblicando contenuti affidabili, ben formati, capaci di rivelare la loro correttezza a chi li interroghi in proposito: contenuti che linkano le fonti primarie delle loro informazioni, che citano/descrivono per esteso le loro fonti, e che per quanto possibile usano fonti digitali e fonti a stampa. Gran lavoro? certo! perché essere autori di contenuti che diventano pubblici non si può ridurre ad un giochino narcisistico. E quando non si riesce a portare a termine questo lavoro impegnativo? non si pubblica. non si posta. non si condivide.
Quale funzione possono esercitare le biblioteche al riguardo?
Molto complesso rispondere alla domanda. Le biblioteche come luoghi di raccolta ordinata dell’informazione, e di accesso da parte dei lettori, sono sotto attacco. Da parte dei dispositivi portatili prima di tutto, e poi dei dispositivi digitali in genere: chi oggi, quando ha un bisogno informativo, pensa: devo andare in biblioteca? e chi invece tira fuori lo smartphone e fa una ricerca con Google Search? Le biblioteche hanno, prima di tutto, un ruolo insostituibile come punto di accesso quasi-universale alle fonti d’informazione del mondo editoriale (riviste e libri): accesso ai libri con il prestito interbibliotecario, e agli articoli scientifici con il document delivery. Se per approfondire le nostre conoscenze individuiamo la necessità di un libro che non c’è nella biblioteca locale, il prestito interbibliotecario ce lo procura; idem se serve un articolo scientifico. Nel mondo digitale questo è solo raramente possibile: in genere le fonti o sono pagamento o sono gratuite; e chi ha accesso ad una fonte a pagamento non ne può ‘passare l’accesso’ ad un’altra persona. Le biblioteche, grazie ai professionisti che vi operano, sempre più spesso sono centri di formazione all’information literacy, con iniziative talora più puntuali e talora più di ampio respiro; ma occorre senza dubbio una crescita di consapevolezza che riconosca nell’information literacy – nel formare all’information literacy – una sfida della massima importanza a cui tutti coloro che operano nella formazione, sia dei giovani sia degli adulti, devono rispondere.
Maurizio Lana è ricercatore presso l’Università del Piemonte Orientale, dove insegna Scienza della biblioteca e dell’informazione. Ha progettato, e dirige con R. Tabacco, la biblioteca digitale del latino tardo digilibLT (www.digiliblt.uniupo.it)