
Vorrei a lui proporre un antidoto in modo che possa calarsi con fiducia tra tali oggetti di conoscenza, coltivando il suo spirito critico in modo indipendente e ribelle, edificandolo su un metodo rigoroso tramite strumenti critici che gli consentano di vagliare le pieghe incasellabili dell’esistenza e del mondo che ci circonda, non tralasciando i particolari e il contesto in cui i testi si presentano a noi. Il mestiere ha bisogno di tempo, ma il corpo a corpo con le fonti consente di collocare entrambi nel giusto posto e ciò è motivo di grande appagamento intellettuale.
La scelta delle fonti presentata in questo volume va probabilmente in controtendenza rispetto a quanto viene proposto normalmente dal mercato editoriale dal momento che non tende a facilitare in nessun modo il compito al lettore, non offrendogli ad esempio un’antologia di testi in traduzione. La poca condiscendenza che dimostro verso il mio ideale pubblico va ben oltre ciò e si sostanzia in un ordito denso, serrato, complesso come credo, del resto, si manifesti la realtà. Tutto ciò è però nelle mie intenzioni pensato a vantaggio del mio lettore, affinché possa impadronirsi degli arnesi maneggiati nella mia officina con la prospettiva di migliorare o rivedere il mio lavoro.
Potrei pertanto rispondere alla domanda che mi è stata posta dicendo che il mio libro potrebbe essere inteso come un vademecum che ha lo scopo di mostrare concretamente quale sia il bagaglio di cui ci si debba munire qualora si desideri esercitarsi direttamente su ciò che rimane del nostro passato, riconoscendo in tale movimento un atto di libertà assoluta e di responsabilità, che sono due degli aspetti che contraddistinguono il più bel lavoro del mondo, quello che si consuma ogni giorno sul campo della ricerca.
Che rilievo ha la casualità nella ricerca?
La contiguità con la documentazione, la familiarità con i processi di produzione, trasmissione e conservazione permanente degli archivi permettono non di rado di verificare piuttosto rapidamente ipotesi di lavoro e tesi anche astruse su fatti, persone o temi, ma non consentono in alcun modo di prevedere quando capiterà una sorpresa, un fatto inatteso, una scoperta non prevista, come un palinsesto gotico del periodo tardoantico sotto un frammento del De Civitate Dei di Sant’Agostino vergato in una scrittura semionciale del VI secolo, esso stesso relitto di un codice ormai perduto nella sua integrità, perché selezionato per lo scarto a quasi mille anni di distanza dalla sua antichissima commissione, ma in parte non cancellato per il fatto di essere stato rimpiegato in una legatura di un libretto contabile d’epoca moderna, destinato esso stesso a degradare rapidamente nell’oblio se non fosse stato parte integrante di un archivio familiare non andato perduto, invertendo così il vettore di un destino toccato in sorte alla maggior parte degli archivi familiari medievali e dei codici scartati. Si tratta di eventi unici che ripagano integralmente del tempo trascorso tra i fondi documentari da cui inaspettatamente emergono relitti culturali di testi religiosi e laici del nostro medioevo ancorati in maniera imprevedibile a documenti che ne determinano magicamente la riemersione e la riscoperta.
All’emozione segue lo studio serio e faticoso per rendere fruibile anche agli altri, colleghi e lettori, quei lacerti di opere letterarie attraverso la descrizione intrinseca ed estrinseca degli elementi testuali e materiali che li caratterizzano, denotando ancora una volta le risorse euristiche del processo di conoscenza del mondo insito nel procedimento di osservazione e di esegesi delle nostre discipline.
Come avveniva la trasmissione del testo letterario negli uffici comunali?
Nel corso del medioevo comunale esiste un modo tutto originale in cui i testi navigano e giungono a noi. Si tratta di un modo particolare che spesso è stato definito eterodosso, rispetto a quello ortodosso, rappresentato dal codice, appositamente commissionato e confezionato per un pubblico preciso, come sono i tre più antichi canzonieri che ci hanno consegnato la lirica italiana delle Origini. Ma queste modalità non prevedibili di trasmissione sono contestuali a un aspetto istituzionale del comune medievale, che è collegato alla circolazione di magistrati forestieri, podestà e capitani del popolo, che insieme alle loro curie costituite di giudici, notai e milites venivano assoldati dai comuni dell’Italia centro-settentrionale per amministrare in modo giusto le tumultuose e conflittuali città comunali, alternandosi per periodi piuttosto limitati, un anno e più generalmente, al tempo di Dante, sei mesi. A questi uomini di curia, come pure agli ufficiali eletti direttamente dai consigli cittadini ad incarichi comunali è affidata la creazione della documentazione pubblica, che non di rado, nelle parti vestibolari dei registri o nel verso di un documento, lascia trasparire tessere della cultura di tali ufficiali comunali, che vanno inserendo in maniera impropria frammenti di prosa latina, disegni e poesie in volgare. Un movimento che si manifesta in maniera non rapsodica a partire dagli anni Ottanta del Duecento. Ecco questa pratica non codificata di fissare il testo su supporti destinati a contenere testi burocratici di tutto altro genere, di solito in una lingua molto diversa, come il latino amministrativo e giudiziario, si affaccia sulle coperte membranacee e sulle carte iniziali e finali di registri cartacei o pergamenacei. I testi che non sono destinati a creare una tradizione, cioè non sono pensati per la loro copia, si configurano quali testimonianze concrete di una parte decisiva della cultura di questo ceto amministrativo e politico. Proprio a queste tracce siamo debitori se possiamo ricostruire la fortuna del padre dello Stilnovo, tramite la circolazione di testi alla moda come il sonetto Omo ch’è saggio di Guido Guinizzelli che tracima al di fuori dai canali standardizzati del codice in tutta Italia, tra Duecento e primo Trecento. Un destino condiviso poi dalla Commedia dantesca vero e proprio bestseller del XIV secolo. Molto altro questi testi ci permettono di conoscere, cosa che invece i codici non sono in grado di restituire. L’anno, talvolta il mese e il giorno, in cui una poesia sia stata trascritta, chi ne fu il copista, quando non l’autore, il luogo e gli ambienti di circolazione, il contesto documentario, la storia archivistica, i co-testi latini, provenzali, antico-francesi che accompagnano il volgare dei versi, la qualità grafica e letteraria di chi ha deciso di fermare su un registro pubblico un testo letterario, non di rado ideologicamente e politicamente connotato. Si tratta di una serie di informazioni che solo lo studio di questa tradizione estemporanea, sfuggente e avventizia permette di raccogliere e di mettere a sistema grazie al confronto, all’osservazione, all’analisi, all’esegesi. Una critica del testo che consente di disvelare non poco di quelle società così vicine ma così lontane dalla nostra e di quegli uomini così simili a noi, ma così diversi, che ci sfuggono ogni qual volta ci pare di coglierne l’essenziale.
Quali metodi consentono la corretta datazione dei documenti?
Una lettura contestuale del documento nella sua posizione archivistica originale permette di datare non solo il testo, ma l’intera storia archivistica del documento: dalla sua produzione al suo passaggio nella Camera actorum del comune, l’archivio nella sua fase di deposito, sino alla conservazione permanente in un qualche armadio della Camera Comunis o della Camera Populi, sino agli sconvolgimenti non solo materiali, ma soprattutto culturali rappresentati dalla Rivoluzione francese, genesi della consapevolezza diffusa della conoscenza storica degli archivi, che permise psicologicamente la nascita degli archivi di Stato, dove tali documenti ancora oggi si trovano a disposizione della comunità e del sapere collettivo, ma dove hanno continuato a vivere e ad essere modificati. Anche questa è una vicenda che deve essere sempre indagata per potere datare con precisione una cedola cartacea, una denuncia giudiziaria, che mal datata a seguito di uno spostamento erroneo, deve essere ri-datata correttamente leggendo casomai il nome dei notai e dei giudici implicati nel procedimento giudiziario. Allora può capitare che un testo in versi del 1288 debba essere postdatato al 1305, ma quella perdita di antichità diviene foriera di nuove indicazioni. Conosciamo così il nome del copista, in quale ambiente preciso è stato prodotto e ci possiamo così accorgere che quella ballata di matrice francese doveva essere di grande moda a Bologna nel 1305 perché un altro ufficiale impiegato sui registri del Comune l’ha trascritta, anche lui, negli stessi mesi. Succede quindi che ci accorgiamo che esistono due testimonianze di uno stesso testo con qualche variante che ci permette di esercitare le nostre capacità filologiche e che, in un tempo in cui l’Italiano era ben lungi dall’essere grammaticalizzato, le due trascrizioni a confronto rivelano le molte o poche distanze grafiche e fonetiche di uomini di cultura provenienti da due città diverse. Allora quella che appariva una perdita si trasforma in un evento fortunato che ci illumina sulle modalità di trasmissione e di introiezione di un repertorio popolare altamente colto circolante nelle città ai tempi in cui Dante cominciava a comporre il suo trattato linguistico, il De vulgari eloquentia, ponendo le basi per una discussione sull’italiano illustre.
Quale uso attestano, del volgare, le scritture ordinarie?
Non tutte le città erano uguali. Bologna era la Dotta, città dello Studium più importante d’Europa nei secoli XII e XIII, il luogo privilegiato per l’insegnamento del diritto e delle artes, insieme con Parigi. A quell’università giunsero migliaia di studenti e maestri da tutta Europa. Ecco in questa città più che altrove fu dato impulso all’apprendimento della scrittura, così che abbiamo testimonianza di donne che, unico caso del tempo, copiano codici di diritto. In questo clima il governo del Popolo di Bologna agevolò la diffusione dell’alfabetizzazione e della creazione di archivi che garantissero i diritti dei cives. Divenne fatto diffuso tra ampie componenti della società bolognese la capacità di organizzare le proprie carte. Non solo dottori dello Studium, non solo giudici, non solo notai, ma anche altri avevano acquisito una certa dimestichezza con la scrittura e uno stretto legame con la documentazione così che possiamo ricomporre un quadro piuttosto originale del ricorso al volgare da parte di figure che altrimenti difficilmente ci attenderemo alle prese con la scrittura. In questa prospettiva il volume cerca di mostrare percorsi ai limiti della società alfabetizzata, idiota nella grammatica, cioè il latino, ma capace di scrivere in volgare. Tra i casi evidenziati c’è quello di una donna capace di amministrare l’azienda lasciata in eredità dal marito defunto, che viene resa indigente dalla violenza e dalla prepotenza di uomini e istituzioni. Caduta in povertà in seguito alla congiunta azione di parenti malfidi e membri di una potente consorteria cittadina che la privano del testamento, risulta capace di esprimere il proprio dolore in un volgare in un testo presentato alle istituzioni comunali, scritto con lo stile tipico dei semicolti in cui vengono raddensate le vicende autobiografiche che l’avevano resa randagia nella città di Bologna, senza amici né protezioni. Un caso davvero straordinario perché si situa nel terzo decennio del XIV secolo, come pure quello di pochi anni precedente di un ingegnere che dentro a un registro pubblico scritto in volgare si è dimentica un foglietto con una poesia metà scritta in latino e metà in volgare e che rappresenta la prima scrittura italiana nota di un ingegnere. Ma ciò che più vale sono i molti modi in cui il mio giovane lettore potrebbe avvicinarsi a queste e ad altre scritture antiche in volgare preferendo lo sguardo filologico a quello storico o anteponendo l’interesse linguistico a quello economico. Ciò che conta è il metodo con cui potrebbe avvicinare questa vasta gamma di testi e di documenti che si trovano sedimentati negli archivi di Stato italiani e che rappresentano il tesoro nostro più prezioso, dal momento che sono le radici profonde della nostra variegata identità.
Armando Antonelli, nato a Bologna nel 1969, si diploma in Archivistica, diplomatica e paleografia presso la Scuola dell’Archivio di Stato di Bologna, si laurea in Storia Medievale presso l’Ateno petroniano e si addottora in filologia romanza presso l’Università di Siena. Ha insegnato Filologia romanza e Diplomatica del documento moderno e contemporaneo presso l’Ateneo estense e Fragmentologia e Storia degli archivi presso l’Archivio di Stato di Modena. Tra i contributi più recenti si segnalano il saggio Orizzonti d’attesa dell’homo popularis: Dante e il lettore implicito dell’Inferno e il libro Fabbricare e trasmettere la storia nel Medioevo. Cronachistica, memoria documentaria e identità cittadina nel Trecento italiano.