“Interrogare il passato. Lo studio dell’antico tra Otto e Novecento” di Diego Lanza

Prof. Diego Lanza, Lei è autore del libro Interrogare il passato. Lo studio dell’antico tra Otto e Novecento pubblicato da Carocci: quale ruolo ha avuto nella cultura europea lo studio dell’antichità?
Interrogare il passato. Lo studio dell’antico tra Otto e Novecento Diego LanzaNon è facile definire con esattezza il ruolo avuto dallo studio dell’antico nella tradizione culturale europea. Lo studio, ma soprattutto l’intensa frequentazione, che è il presupposto dello studio, appare importante fino alla metà dell’età moderna: Aristotele e Galeno sono presenze incombenti sullo sviluppo delle scienze sì da rendere necessarie energiche prese di posizione polemiche (Keplero, Galilei, Newton). Un analogo rifiuto dell’antico si produce anche nelle lettere e nelle arti, dove i modelli classici continuano a offrire il materiale della poesia (si veda la tragedia del grand siècle) e della pittura (ricorrere delle figure di dei e di eroi, non di rado come travestimento di personaggi storici). Persino l’aspra critica dell’ancien régime dei rivoluzionari francesi non rinuncia a ricorrere agli esempi della storia e della mitologia classica.
Lo studio dell’antichità, delle sue lingue e delle sue letterature, tende a spostare il proprio centro dall’Italia rinascimentale alla Francia, per proseguire poi in Inghilterra, dove si affermano grandi maestri della filologia come Richard Bentley e dove diventano anche bersaglio di ironia in non pochi grandi scrittori, come Fielding, Sterne, Swift. In Germania poi, tra la fine del diciottesimo e gli inizi del diciannovesimo secolo, la conoscenza dell’antico è considerato il fondamento stesso di ogni sapere. Le opere dei filologi infatti non sono dirette ai soli specialisti, ma a un pubblico più ampio, perché coinvolgono una riflessione sulla stessa condizione dell’intellettuale. Si veda come esempio il caso dei Prolegomena ad Homerum di Friedrich August Wolf, che suscitano un vasto dibattito in cui intervengono , direttamente o indirettamente, Goethe, Humboldt, Fichte, Schelling. In Germania si stabilisce anche la separazione dello studio dell’antichità greco-romana da quella vicino oriente antico, contro l’ecclesiastico trinomio biblico di ebraico-greco-latino. La nuova cultura classicistica si dimostra diffidente di ogni suggestione di influsso orientale.

Perchè Friedrich August Wolf può esser considerato il fondatore della scienza dell’antichità?
Friedrich August Wolf vive e opera negli anni in cui la cultura europea muta di fisionomia anche per effetto della Rivoluzione; in Germania è interprete importante di questo mutamento, in rapporto con le più importanti figure dell’intellettualità tedesca del tempo, riconosciuto come la maggiore personalità tra gli studiosi del mondo antico. Di ciò egli non appare soltanto consapevole, ma anche impegnato a consolidare il proprio prestigio. Nel rievocare i momenti significativi della sua vita, narrata direttamente o con la mediazione del suo biografo riconosciuto, il genero Körte, egli indulge nella costruzione di un mito da eroe fondatore, in una serie di aneddoti, veri o bene inventati: la prima comparsa in pubblico ancora quattrenne, il dialogo con il prorettore di Gottinga all’atto della sua iscrizione come studiosus philologiae, l’incontro con il suo maestro Heyne e con il grande Ruhnken a Leida, allora si può dire la capitale dell’antichistica. Nella realtà egli fu l’autore di un grande progetto pedagogico, perfettamente inserito nel disegno di riforma dell’assolutismo illuminato di Federico II di Prussia: costruire una scuola che non avesse più a che fare con il monopolio esercitato dalla chiesa luterana sull’istruzione. L’importanza che per lui ebbe sempre l’insegnamento si compendia nella sua affermazione “Accedit quod docendo aliquanto plus quam scribendo delecter”. Di qui il suo grande interesse per l’organizzazione degli studi, la creazione di seminari riconosciuti come veri e propri corsi specialistici, la diffusione di una stampa scientificamente corretta e nello stesso tempo economicamente accessibile dei testi antichi. Dopo la pubblicazione dei Prolegomena, Wolf rifiuta una prestigiosa chiamata a Leida, ma quando, dopo l’occupazione napoleonica si ricostituisce l’università tedesca, che vede in Humboldt il suo massimo artefice a Berlino, Wolf ne resta escluso, escluso di fatto dall’insegnamento ed escluso poi anche dal riconoscimento dell’Accademia delle scienze. Egli cade ancora vivo nell’oblio: il suo progetto si afferma, ma ne è ormai mutato il senso, non è più l’affermazione della ragione illuministica, ma la consacrazione del nuovo nazionalismo tedesco.

Per quale motivo l’itinerario religioso di Werner Jaeger è rilevante?
Più che un itinerario religioso quello di Werner Jaeger si potrebbe definire il variare della collocazione dello studioso di fronte alle differenti istituzioni ecclesiastiche. Jaeger non ha infatti mai mostrato alcun particolare interesse né per l’Antico né per il Nuovo Testamento, ma ha sempre rivolto la propria attenzione agli aspetti della letteratura cristiana più legati allo sviluppo e al consolidarsi della chiesa, da lui sempre vista come intrinsecamente connessa con la conservazione del patrimonio culturale della classicità. Siamo dunque lontani dalle conversioni al cattolicesimo che contraddistinsero alcuni momenti del romanticismo tedesco. È in questo quadro di accorto equilibrio che vanno valutati anche tutti i cenni autobiografici da lui lasciatici in età avanzata sulla sua adolescenza al Gymnasium Thomaeum di Kempen, non a caso città di confine tra terre cattoliche e terre riformate. Ciò su cui insiste Jaeger è il riconoscimento di una theologia naturalis, che, se da una parte può richiamare per alcuni aspetti la teologia liberale di Harnack, dall’altra non è difficile collegare con la concezione cattolica della religione.
Il mutamento biograficamente traumatico per Jaeger si ha, poco dopo il suo riconoscimento della sua indiscussa autorità filologica all’uscita del primo volume di Paideia, la sua opera più importante, destinata a diventare la guida alla lettura dei classici per una generazione di studiosi. L’avvento del nazismo, con il razzismo componente essenziale del suo credo, obbliga Jaeger, che ha una moglie ebrea, a lasciare la Germania. Nelle sue dimissioni dall’università, di cui abbiamo documentazione, non appaiono infatti espliciti motivi di incompatibilità culturale; il suo volontario esilio è perciò assai diverso da quello di molti intellettuali tedeschi apertamente ostili al nuovo regime. Il suo classicismo si afferma negli Stati Uniti, dove assume, nei primi anni del dopoguerra, i tratti di un vero e proprio occidentalismo. In questo tempo di aspra contesa ideologica Jaeger riconosce nella chiesa cattolica di Pio XII il più sicuro bastione anche in difesa del proprio tradizionale patrimonio culturale classicistico e chiama a raccolta i filologi perché si mobilitino in questa nuova crociata.

Di quali riflessioni si fece promotore Jean-Pierre Vernant?
La figura di Jean-Pierre Vernant, non filologo né antichista per formazione, s’impone presto per la sua capacità di riaffrontare vecchi problemi in nuove prospettive. Allievo di Ignace Meyerson e fedele all’indagine legata alla psicologia storica, Vernant, agli inizi della sua attività di antichista affronta l’abusato tema della definizione della categoria di lavoro. In contrasto con il diffuso conformismo della vulgata marxista, egli mostra l’impossibilità di rintracciare nel mondo antico una caratterizzazione del lavoro analoga a quella possibile in una società capitalistica. Più in generale tutto l’orizzonte categoriale che ci è familiare (i concetti di persona, volontà, spazio, tempo, memoria) viene riesaminato nel contesto storico dell’antichità e ne vengono definiti i limiti e le differenze. Nel suo primo volume di saggi, Mito e pensiero presso i Greci, si arriva così ad offrire la visione di una società assai diversa da quella suggerita dalla koiné classicistica. In particolare Vernant individua nel mito l’espressione che può essere assunta come lo specchio più fedele dell’immaginario antico. Esemplare è a questo proposito lo studio della coppia divina Hestia-Hermes. I due dei acquistano per Vernant una straordinaria valenza simbolica, pur senza mai risolversi nel loro valore di simboli: il femminile e il maschile, l’interno e l’esterno, la quiete e il moto; il gioco oppositivo dell’indagine strutturalista trova in queste indagini il suo più felice e fruttuoso impiego. Organizzazione categoriale e rappresentazione mitica si chiariscono reciprocamente, concorrendo entrambe a definire l’assetto societario della città greca; si riconosce così con maggior chiarezza che maschile e femminile si oppongono come ruoli sociali almeno tanto quanto come principi biologici.
L’attenzione per la materialità sociale è costante nella ricerca di Vernant; essa corrisponde alla vivacità di Vernant uomo d’azione: quando a trent’anni, con il nome di col. Berthier, guida le formazioni partigiane a liberare Tolosa dall’occupante nazista e quando alcuni anni dopo organizza all’École des Hautes Études, il centro di ricerca che s’intitolerà poi a Louis Gernet e che, grazie anche all’attiva presenza di Marcel Detienne e di Pierre Vidal-Naquet diverrà un importante punto di riferimento di molti antichisti europei e americani.

Qual è lo stato di salute degli studi classici in Italia?
È uno stato sicuramente malsicuro. La crisi degli studi classici s’inserisce nella generale crisi di una parte consistente delle cosiddette scienze umane. Sempre più spesso la scuola media superiore non è il luogo primario di acculturamento dell’adolescente, oggi sollecitato da molti altri stimoli intellettuali; è inoltre venuto meno definitivamente lo stretto legame tra scuola e università su cui gli studi dell’antichità si erano fondati negli ultimi due secoli. Per contro non poteva non affermarsi anche nell’antichistica il modello di una ricerca specialistica, o addirittura iperspecialistica, non necessitata dall’oggetto dell’indagine, ma richiesta dal bisogno di una produzione sempre più abbondante di titoli concorsuali. Pur senza disconoscere l’acribia di molti studiosi, occorre dire che la frammentazione della ricerca ha sostanzialmente nociuto al riconoscimento stesso della disciplina. Ormai scomparsa la pretesa di contribuire significativamente alla formazione di una “classe dirigente”, i miti del classicismo, primo tra tutti quello del “miracolo greco”, si sono andati svuotando; resta ai classicisti la difficoltà di collocare storicamente l’oggetto dei loro studi, di riconsiderare la Grecia nel più ampio contesto culturale del Mediterraneo antico. Efficaci indicazioni, lucidamente proposte in alcuni studi della fine del Novecento (Assmann, Burkert, Grottanelli, West) sono state trascurate e rimaste, non a caso, senza seguito; si è spesso preferito ripercorrere, forse con maggiore precisione documentaria, ma con minore consapevolezza storica, i sentieri già tracciati nell’epoca d’oro dell’antichistica.
Credo che non si sia sufficientemente riflettuto sul fatto che l’Italia, sia pur per inerzia più che per espressa volontà del legislatore, sia rimasta l’unico paese nel quale il latino e il greco non siano divenute materie scolastiche accessorie e opzionali. Forse sarebbe tempo di porsi chiaramente alcune domande: che cosa può rappresentare per noi lo studio dell’antichità, quale è il modello di società che pretendiamo di confrontare con quello antico? Qual è il paradigma di antichità che studiamo, quanto esso deve alle interpretazioni, e deformazioni, ellenistiche, rinascimentali, romantiche che le si sono venute concrezionando? Qual è poi lo scopo dello studio prevalentemente grammaticale del latino e del greco? Si pensa che la conoscenza superficiale del latino sia l’irrinunciabile premessa per un compiuto possesso dell’italiano e che un’infarinatura di greco sia l’unica necessaria condizione per conoscere una cultura ancora così importante per noi? Occorre avere dimestichezza con l’inglese del Cinquecento per nutrirsi di Shakespeare, con il tedesco per accostarsi a Goethe, con il russo per fare la conoscenza di Tolstoi e Dostojewskij? Forse sarebbe il caso di distinguere con maggiore chiarezza tra la preparazione dello specialista e le conoscenze necessarie per una fruttuosa frequentazione culturale.

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