“Intellettuali statunitensi e riappacificazione USA-Cina (1950-1980)” di Alessio Stilo

Dott. Alessio Stilo, Lei è autore del libro Intellettuali statunitensi e riappacificazione USA–Cina (1950–1980) edito da Aracne: quali vicende segnarono la politica estera statunitense nei confronti della Cina nel trentennio tra la nascita della Repubblica Popolare e il cosiddetto Rapprochement?
Intellettuali statunitensi e riappacificazione USA-Cina (1950-1980), Alessio StiloComplessivamente, nel trentennio 1950-1980 – come arguito da Rosemary Foot – è possibile rintracciare alcuni momenti salienti che hanno influenzato la U.S. China Policy e, di conseguenza, le relazioni USA-Cina, in particolare la Guerra di Corea, il “Grande balzo in avanti” cinese (1958-1961), la crisi sino-sovietica degli anni Sessanta, il primo test atomico cinese (ottobre 1964), l’allineamento strategico sino-americano (in funzione anti-sovietica) e il programma di modernizzazione economica intrapreso da Deng Xiaoping, sebbene altri avvenimenti (crisi dei missili di Cuba, guerra del Vietnam, rivoluzione culturale maoista) abbiano contribuito all’elaborazione di una certa percezione della Cina in seno a quella che oggi viene definita la Foreign Policy Community.

La vittoria dei maoisti nella guerra civile e la conseguente istituzione della Repubblica Popolare Cinese – che strinse quasi immediatamente (14 febbraio 1950) un patto trentennale con l’Unione Sovietica – e l’esplosione della prima bomba atomica sovietica (29 agosto 1949) spinsero l’amministrazione Truman a un radicale mutamento di rotta nella strategia statunitense, che si sarebbe ripercosso anche sulla China Policy. Questo portò alla redazione del celebre NSC-68, un policy paper che elencava un’ampia gamma di misure atte a contrastare la percepita minaccia sovietica, ponendo le basi per la dottrina del Roll-back elaborata qualche anno dopo (1953–1954) da John Foster Dulles e che la Guerra di Corea (giugno 1950) contribuì a far assurgere a “linea guida” della politica estera statunitense negli anni successivi, al punto da ridefinire in termini più aggressivi la dottrina del contenimento, facendo tornare l’Asia come uno dei teatri di interesse primario per la sicurezza di Washington e fungendo da spartiacque nella politica di neutralità di Washington verso la “questione cinese”.

Negli anni Sessanta, la guerra del Vietnam e il dissidio sino-sovietico – in una cornice internazionale di sostanziale crisi della supremazia americana – avevano fatto emergere la possibilità per Washington di porre basi nuove per la perpetuazione della propria egemonia strategica. Uno dei pilastri fondamentali di tale strategia, soprattutto dopo l’elezione di Richard Nixon alla Casa Bianca, doveva essere il reinserimento della Cina maoista nel sistema internazionale. Pechino, in quel momento isolata diplomaticamente a causa dell’ormai deteriorato rapporto con l’URSS, intravedeva la possibilità di un rapprochement con Washington strumentale a un controbilanciamento utile in funzione anti-sovietica.

Gli anni Settanta recarono alcune cesure storiche destinate a mutare per decenni il sistema internazionale. Il dissidio sino-sovietico aveva ormai raggiunto un punto di rottura tale che gli Stati Uniti, attraversati da un reflusso dell’ondata interventista e dalla concomitante ascesa di una concezione realista della politica internazionale, ritennero conveniente indirizzare a proprio vantaggio la situazione. La progressiva normalizzazione delle relazioni con la Repubblica Popolare Cinese avrebbe favorito Washington nel proposito di allontanare definitivamente Pechino dall’orbita sovietica. La “diplomazia del ping pong”, la storica visita di Nixon, l’apertura reciproca dei Liaison Office e il definitivo stabilimento di relazioni diplomatiche ufficiali sublimarono questo percorso lungo e tormentato, già avviato sin dalla fine del decennio precedente. Nel complesso, il Rapproachment con Pechino è configurabile come il culmine di diversi processi avvenuti tanto nel sistema internazionale quanto nelle dinamiche interne statunitensi.

Come si giunse al ristabilimento delle relazioni diplomatiche tra Washington e Pechino?
La riconciliazione sino-statunitense è stata ritenuta «il più significativo mutamento strategico della Guerra Fredda» prima della caduta del Muro di Berlino, nonché la risultante della logica realista dell’equilibrio di potenza propugnata dall’allora Segretario di Stato Henry Kissinger e dal presidente Nixon.

La “dottrina Nixon” lasciava presagire il ritiro delle truppe americane dal Vietnam, fattore che avrebbe inevitabilmente avuto ripercussioni anche sugli alleati internazionali dei Viet Cong, l’Unione Sovietica e la Cina maoista. La cristallizzazione degli assetti della Guerra Fredda, esito della dottrina della coesistenza pacifica, e l’allontanamento de facto di Pechino dall’orbita sovietica, avevano convinto molti esponenti vicini agli ambienti governativi che fosse giunto il momento di sfruttare il potenziale vantaggio strategico fornito dalla crisi sino-sovietica per separare definitivamente le due potenze comuniste.

La metamorfosi nell’atteggiamento della Casa Bianca fu dettata nel febbraio del 1971 dal mutamento lessicale con il quale Nixon (in un rapporto) appellò la Cina maoista come “Repubblica Popolare Cinese”: si trattò del primo documento ufficiale statunitense ad applicare un simile riconoscimento nei confronti della Cina maoista. Ad ogni modo, l’elemento apripista del processo di normalizzazione fu fornito da un evento sportivo, il 31º Campionato Mondiale di Tennis Tavolo in Giappone, durante il quale la squadra statunitense ricevette l’invito dai colleghi della Repubblica Popolare a visitare la Cina: Il 10 aprile del 1971 la squadra, e i giornalisti al seguito, divennero i primi statunitensi a visitare Pechino da quando i maoisti aveva preso il potere. La cosiddetta “diplomazia del ping pong” condusse a una prima visita segreta da parte di Kissinger in Cina (9–11 luglio 1971), mentre il 25 ottobre dello stesso anno l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite approvò la Risoluzione che sanciva il riconoscimento della Repubblica Popolare come l’unica rappresentante della Cina in seno alle istituzioni ONU. Tutta questa fase preparatoria condusse alla “settimana che cambiò il mondo”, la storica visita di Nixon a Pechino, Hangzhou e Shanghai, dal 21 al 27 febbraio 1972. A margine degli incontri Washington e Pechino siglarono una dichiarazione d’intenti mirata alla piena normalizzazione dei rapporti diplomatici. Il processo verso la normalizzazione fu proseguito anche dai successori di Nixon, Gerald Ford e Jimmy Carter, così come – per la controparte cinese – dai successori di Mao e Zhou Enlai (ambedue deceduti nel 1976). Nell’aprile 1977 il Segretario di Stato, Cyrus Vance, incaricò un piccolo gruppo di China experts del suo Dipartimento di realizzare uno studio sulla normalizzazione delle relazioni con la Cina, propedeutico all’evento che di lì a poco avrebbe probabilmente mutato nel lungo termine l’esito della Guerra fredda: il 15 dicembre 1978 Stati Uniti e Cina rilasciarono un “Joint Communique” che preannunciava il riconoscimento reciproco, lo stabilimento di relazioni diplomatiche ufficiali a partire dal 1 gennaio 1979 e l’istituzione delle rispettive ambasciate. Trent’anni dopo la presa del potere da parte dei maoisti, la Washington e Pechino tornavano a relazionarsi reciprocamente come normali attori internazionali.

Quale contributo fornirono al processo di distensione tra i due paesi i China experts statunitensi?
Leggere le varie fasi delle relazioni Stati Uniti-Cina nel trentennio descritto alla luce del prisma interpretativo dei Chinese Studies – e, di conseguenza, dei China experts – consente di comprendere la rappresentazione della Cina prevalente nei circuiti intellettuali e governativi statunitensi. Alla luce del peculiare rapporto osmotico tra sapere (scienza) e potere (politica) insito nel sistema statunitense, un simile approccio ermeneutico fornisce un contributo analitico per sviscerare i precetti (politici, culturali, morali) che hanno guidato la postura di Washington verso Pechino. In queste diverse fasi storiche, il percorso intellettuale dei Chinese Studies americani palesa appieno la problematicità della narrazione – e rappresentazione – della Cina negli Stati Uniti.

L’invasione giapponese e la Seconda Guerra Mondiale avevano fatto affiorare, in seno alla multiforme galassia di sinologi, così come nei circoli governativi, due fazioni attorno alla disputa tra sostenitori e oppositori del nazionalista Chiang Kai-shek, considerato un acuto condottiero da una frangia e un corrotto opportunista dall’altra. Durante gli anni Quaranta, non esaminati in questo libro ma nel precedente “Chinese Studies e politica americana nei confronti della Cina (1939-1949)”, i China experts americani, pur nella loro dicotomica interpretazione dell’alleato Chiang, furono prevalentemente inclini a rappresentare la Cina come a un’entità “amica” – in funzione anti-giapponese – che gli Stati Uniti avrebbero dovuto difendere e sostenere ad ogni costo. In aggiunta, la Seconda Guerra Mondiale mutò definitivamente la metodologia di lavoro dei sinologi americani: nel periodo bellico, infatti, molti studiosi assunsero incarichi governativi in diverse agenzie di intelligence che si avvalsero di sistemi accademici di analisi. Diversi China experts, inoltre, furono inviati a espletare missioni sul campo nel teatro operativo “China-Burma-India”. Tali circostanze consentono di comprendere appieno sia l’interscambio menzionato tra sapere e potere, sia l’evoluzione degli studi tradizionali sulla Cina verso un approccio interdisciplinare da Area Studies (e quindi Chinese Studies).

Nel corso degli anni Cinquanta, la “nuova” Repubblica Popolare Cinese nata nel 1949 in seguito alla conclusione della guerra civile vinta dai maoisti suscitò un maggior interesse a Washington e nei circuiti dell’intelligencija statunitense, cui seguì un ampliamento dei finanziamenti, tanto governativi quanto da parte delle grandi corporations, verso gli studi e le ricerche sulla politica cinese. Nel contesto dell’aspro confronto della Guerra Fredda, i Chinese Studies e i loro cultori consentirono ai circoli egemoni di ampliare l’apporto conoscitivo lungo due narrazioni prevalenti. Una prima, che potremmo definire “civilizzazionale”, inquadrava la Repubblica Popolare come un continuum burocratico-istituzionale (con caratteri totalitari) rispetto al suo predecessore (il Regno di Mezzo), in maniera funzionale alla retorica politica anti-comunista prevalente negli ambienti repubblicani – allora intrisi di maccartismo – i quali intravedevano nella Repubblica Popolare una longa manus sovietica nel quadrante asiatico. L’altro approccio fu più orientato a evidenziare le peculiarità locali e la loro interazione con il marxismo-leninismo e con l’imperialismo occidentale; questa narrazione, pur ontologicamente “orientalista” (o “sinologista”), tendeva a rubricare la svolta maoista in quell’ampio percorso di modernizzazione post-feudale che aveva coinvolto l’ex Celeste Impero.

Negli anni Sessanta i Chinese Studies si orientarono verso una maggiore sistematizzazione della narrazione sulla Cina maoista, che contribuì a raffigurarla come una peculiare epifania del marxismo-leninismo, “sinizzato” secondo alcune forme riemerse dal retaggio tradizionale confuciano. Questo orientamento, in termini politici, fu declinato nella propensione a paventare una possibile normalizzazione delle relazioni sino-americane, che la crisi sino-sovietica rendeva non solo possibile ma – per Washington – vantaggiosa. In questo senso, i Chinese Studies e gli esperti di Cina negli anni Sessanta prepararono il terreno, dal punto di vista culturale, per una simile sterzata politico-diplomatica.

Negli anni Settanta, la dialettica tra sinologi antimperialisti e sinologi “tradizionali” (cosiddetta “scuola di Harvard”) condusse allo sviluppo di una rappresentazione – tendenzialmente centripeta – che reinterpretava la Cina alla luce delle nuove fonti documentarie (reperite grazie al ripristino degli scambi culturali bilaterali, nel 1971). Questa nuova visione d’insieme inquadrava lo stato maoista come una realtà multiforme, risultante del processo di modernizzazione attraverso fasi rivoluzionarie e con attitudini a riproporre in chiave moderna, e con accezioni trasmutate attraverso il prisma maoista, elementi culturali del passato confuciano. Una simile svolta concomitante avvenne anche in termini politici: la storica apertura di Nixon e Kissinger verso Pechino, già anticipata nel corso degli ultimi anni del decennio precedente. Il ristabilimento delle relazioni bilaterali tra Stati Uniti e Repubblica Popolare Cinese (1979), naturale sbocco del processo avviato dal duo Nixon/Kissinger ma già in nuce con Kennedy e Johnson, fu l’esito della “normalizzazione” politica che, per certi versi, era stata anticipata, coltivata e auspicata da molti intellettuali riconducibili ai Chinese Studies e China experts in generale.

Alessio Stilo (Ph.D.) è Ricercatore associato dell’Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie (IsAG), membro del Consiglio direttivo IsAG e componente della redazione di «Geopolitica», rivista scientifica dell’IsAG. Nel 2019 è stato ricercatore incaricato del Centro Militare di Studi Strategici (CeMiSS), area “Russia, Asia centrale e Caucaso”. È autore di monografie, saggi su volume, articoli su riviste scientifiche, analisi e articoli giornalistici nonché giornalista pubblicista dal 2012.

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